Linea d'ombra - anno IX - n. 65 - novembre 1991

IL CONTESTO Tutto il bruttodella diretta Stefano Rulli Mi ricordo degli spettacoli del teatro di Dario Fo. Andavamo a vedere gli spettacoli contenti di veder ri~pecchiate sul palcoscenico quelle opinioni e quelle emozioni che sentivamo dentro di noi. Era un momento anche bello, importante, ma non certo di conoscenza, non certo di scoperta. Ecco, ho la sensazione che nel momento in cui quel teatro non esiste più, non esistono più i movimenti che riempivano quei teatri, adesso la gente "fa il pubblico" a "Samarcanda": in fondo c'è una continuità fra le · adunanze di un teatro politico e l'assistere o partecipare a un teatro della politica. responsabilità o al potere che comunque ha il mezzo televisivo. Piuttosto si tratta di usare al meglio le possibilità di ciascun linguaggio e intervento specifico; di conoscere e scegliere, a seconda del tipo di trasmissione e di linguaggio adoperato, le finalità più adeguate. E questo non sempre avviene anche nell'ambito del giornalismo televisivo sulla mafia, che troppo spesso, invece di analizzare e scoprire le contraddizioni di questa cultura - e di questa degenerazione politica-, si limita a enfatizzare delle componenti emoti ve che in qualche modo già sono note, e a ripresentare degli schieramenti che già si sanno ... Credo che comunque queste trasmissioni abbiano una loro utilità emotiva: "fare il pubblico", come anche "avere molto pubblico", non sono cose prive d'importanza. Certo si può sempre dire che la gente è attratta dalla novità e dalla pubblicità di una trasmissione televisiva speciale e spettacolare; certo si può dire che la gente si coAipiace di sentirsi buona appena accendendo una lampadina, ma è comunque vero che trasmissioni come queste stimolano e registrano un rapporto magari ambiguo, ma senz'altro ricco, affrontano un tema che tocca, che muove qualche sincera partecipazione e convinzione: non si sta fino all'una di notte a vedere una trasmissione che non interessa. La stessa c:osa si può dire anche quando si tratta di fiction. Anche quando si parla de La piovra, si dice sempre, e giustamente, che in fondo la gente lo vede perché è uno spettacolo gratificante, perché alla fine ci si sente come di aver dato un contributo emotivo, per essersi sentiti dalla parte giusta. Ora, io non sono un sociologo e non lo so spiegare, però sicuramente nel bisogno, nel desiderio di identificazione con dei personaggi positivi, c'è qualcosa di complesso, di ricco, anche se non si ;.: traduce in altro. Si può anche azzardare come questa mancata traduzione dipenda soprattutto dalla realtà che ci sta intorno, che certo non offre grandi spazi a questa disponibilità, a questo atteggiamento meno egoistico e meno rinunciatario che. lo spettacolo~ in grado di rivelare. Del resto lo spettacolo in sé non credo determini mai i reali comportamenti o le scelte di vita, ma dà sicuramente segnali di. coinvolgimento o di indifferenza anche rispetto ai temi trattati, ai contenuti attraversati, e non solo relativi al tipo o alla qualità del programma. Per questo non è indifferente e forse mai controproducente scegliere argomenti importanti, raccontare realtà drammaticamente presenti. Parlare della mafia in televisione, •lo si può fare e lo si fa in molti modi, usando gli spazi del giornalismo oppure attraverso programmi di fiction. lo credo che ci sia spazio per tutte e due queste forme di intervento, in televisione, su un tema così drammatico come la mafia. Ci sono stati molti esperti di mass media che, davanti alle puntate di La piovra, teorizzavano che la mafia è una faccenda troppo seria per farci sopra della fiction: molto meglio fare inchieste e programmi giornalistici. Ma non credo che si possa porre in questo modo il problema, perché non si tratta di confrontare dei programmi così diversi - come le puntate di un "romanzo popolare" che parla sì della mafia ma soprattutto la usa come ambiente di riferimento, come sfondo di un "genere", e i servizi o gli interventi che si propongono di indagare e riferire quanto più è possibile di una realtà inquietante odi un dramma reale. Non si tratta di misurarne i diversi "effetti" o risultati culturali, mettendoli addirittura in relazione alle . 10 La cosa che mi sembra importante rilevare è che, non solo quando si parla di mafia ma anche rispetto ad altri grandi temi, si sta affermando un modo quasi univoco di "fare televisione": quello dei talk-show di vario genere e forma. Questa "televisione", questo modo di fare intervista al posto di fare inchiesta, è la continuazione, ma anche la deformazione di alcune istanze politico-culturali che motivavano il cinema documentario degli anni Settanta. È un modo di trasformare e travisare una eredità, che credo sia importante riconsiderare. Allora si diceva, per esempio, "Diamo la parola a chi non ce l'ha, diamo spazio a chi non viene mai rappresentato in televisione". E si andava con la telecamera nelle situazioni reali a raccogliere storie, denunce, testimonianze. Non so quanto, allora, si riuscisse per davvero a raccontare la loro vita, ma so che adesso operazioni Disegno di Guido Pigni. televisive che sembrano rispondere alla stessa istanza si collocano esattamente all'opposto: il problema non è più "dare la parola" a persone o realtà sociali altrimenti emarginate o sconosciute, ma piuttosto si offre a degli individui di "essere presenti in televisione", anzi si usa e si dosa il contenitore-tv sapendo che è quello l'unico luogo e modo di essere presenti, l'unico luogo e modo per "esistere". Una persona conta, ha uno status sociale diverso se è passato in televisione, si sa. Quindi "esistere televisivamente" è qualcosa che per fa gt:!nte comune ha un valore in sé, un valore che prescinde da ciò che in televisione si va a dire o a fare. Ma non mi interessa se questa è una verità sociologica o soltanto una credenza diffusa: quello che conta: - dal punto di vista tecnico e operativo, intanto - è che si afferma o si subisce un modo di fare televisione che falsa la realtà invece di documentarla. È chiaro che la situazione si è come capovolta, rispetto al cinema documentario: la persona inviti(ta è divent&ta un "ospite". Non si tratta più di entrare con la macchina da presa nel suo contesto, di chiedere permesso, di sottostare in qualche modo alle regole, ai riti e ai ritmi della realtà che si vuole documentare, di registrare insieme al personaggio il suo contesto, di rispettare o almeno tollerare .il mondo e il linguaggio del "testimone". Adesso è lui l'ospite dello studio televisivo, magari contento di

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