Linea d'ombra - anno IX - n. 65 - novembre 1991

NOVEMBRE1991 · NUMERO65 LIRE8.000 I mensile di storie, immagini, discussioni e spettacolo

Undici buoni motivi per andare in libreria Nico Naldini, De Pisis. Vita solitaria di un poeta pittore. Attraverso i ricordi e le annotazioni degli amici, le lettere, i diari, le poesie, la storia di un personaggio continuamente ai limiti della propria sensibilità, tra i più inattesi nel panorama delle arti contemporanee in Europa. Gli struzzi, pp. 299, L. 28.000. Giovanni Miccoli, Francesco d'Assisi. Realtà e memoria di un'esperienza cristiana. La figura e la vicenda storica di Francesco al centro di un'indagine di ancor viva attualità, che rintraccia i nessi tra l'originaria esperienza religiosa e le modalità in ·cui venne tradotta nella memoria storica. Paperbacks, pp. XIV-328, L. 35.000. Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926. Le lettere di una vita breve ma intensa diventano lo specchio della Torino intellettuale dei primi anni Venti, oltre che di una splendida vicenda umana. 294 lettere raccontano la storia di un amore profondo fondato su una comune passione politica. A cura di E. A. Perona. NUE, pp. LV-721, L. 65.000. Elfriede Jelinek, La pianista. Una pianista non più giovane vive un tormentato rapporto con la tirannica madre. La tragedia diventa catastrofe sadomasochista quando Erika cercherà di legarsi a un uomo. Traduzione di Rossana Sarchielli. Supercoralli, pp. 320, L. 32.000. Lalla Romano, Le lune di Hvar. Quattro estati in Dalmazia. Una donna e un uomo diversi per età ma uniti da un sottile stato di grazia. Dal diario di una grande scrittrice, frammenti di coscienza, semplici appunti che si fanno memoria allo stato puro. Supercoralli, pp. 128, L. 22.000. lzrail' M. Metter, Il quinto angolo. Lo stile lirico di Metter rievoca, tra ironia e commozione, l'esistenza di un uomo superfluo. Una novella della memoria, scritta più di venti anni fa e pubblicata solo all'inizio dell'89 per ragioni politiche. A cura di Anna Raffetto. Nuovi Coralli, pp. 216, L. 22.000. Francis Jennings, L'invasione deU' America. Indiani, coloni e miti della Conquista. Una nuova interpretazione della conquista dell'America che rovescia le"verità storiche" teorizzate fino ad oggi. Traduzione di Marco Pustianaz. Biblioteca di cultura storica, pp. XVIII-440, L. 68.000. Amedeo Poggi - Edgard Vallora, Mozart. Signori il catalogo è questo! Tutte le opere di Mozart nel Catalogo K, più le opere perdute e i frammenti, sono state raccolte e raccontate da due non specialisti. Uno studio dedicato agli amanti della musica e ai musicisti di professione. Gli struzzi, pp. 784, L. 48.000. EINAUDI Seimila titoli per l'Italia che legge ·Henry Jame~, Racconti italiani. Henry James narra l'Italia con nove racconti scritti tra il 1870 e il 1900. Un viaggio singolare tra splendori notturni, incontri crepuscolari e insoliti entusiasmi per i freschi paesaggi alpini. Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti, Maurizio Ascari, Susanna Basso e Carla Pomaré. Note ai testi di Maurizio Ascari. I millenni, pp. XXXVI-400, L. 65.000. Gilbert Dagron, Costantinopoli. Nascita di una capitale (330-451). Costantinopoli, fondata per ricordare al mondo le vittorie dell'imperatore Costantino, diventa l'unica vera rivale di Roma, e la prima grande città del Medioevo. Un capitolo fondamentale della storia esplorato con minuzia calligrafica e insieme con grande passione. T raduzione di Aldo Serafini. Biblioteca di cultura storica, pp. 600, L. 100.000. Lettere da Kharkov, La care• stia in Ucraina e nel Caucaso del Nord nei rapporti dei diplomatici italiani 1932-33. A cura di Andrea Graziosi. Tra il 1923 e il 1933 le popolazioni dell'Ucraina e del Caucaso vissero dieci anni di carestia. L'Occidente conobbe la verità solo nel dopoguerra attraverso le memorie di Kravcenco. Oggi, Andrea Graziosi propone una lettura di quegli eventi da una fonte ufficiale: i rapporti dei diplomatici italiani. Gli struzzi, pp. Vll-56, L. 24.000.

~ ilMulino NORBERTELIAS MOZART Chiha uccisoMozart? Nell'interpretazioned llavita del grandemusicista, l'identikitdi unassassino daimillevolti,celato inquellastessasocietàdi corte da cui nacqueungenio GIUSEPPEPONTIGGIA LESABBIEIMMOBILI Vanitàe vaniloqui delloscriveree delvivere nell'Italiad'oggi. Unasatirailaree feroce MANLIOROSSI-DORIA LAGIOIATRANQUILLA DELRICORDO Unatestimonianzapersonale sulmondodell'antifascismo, l'attivitàcomunistaclandestina, il primosionismoitaliano, unitaal ricordodelleamicizie di unavita,qualiquelleper EmilioSerenie GiorgioAmendola BERNARDCRICK GEORGEORWELL Labiografiadi ungrande intellettuale,lacui fezione di libertàe rigoremorale è ancoroggiesemplare MICHAELWAL2ER L'INTELLETTUALE . MILITANTE Impegnopoliticoe dissenso nelNovecento:daBenda a Silane,daOrwella Gramsci, daSimonedeBeauvoira Foucault e Marcuse,lafiguradel critico e il suorapportoconla società . ARTHURKOESTLER LASCRITTURA INVISIBILE AUTOBIOGRAFIA1932-1940 Lamilitanzacomunista,il viaggio. in UnioneSovietica,il sofferto distaccodal partito. Unatestimonianzaresaconfurore e ironiasull'etàdei totalitarismi. ROBERTK.MERTON SULLESPALLE DEI GIGANTI Introduzionedi UmbertoEco. Fracitazioniperegrine e satiradel mondoaccademico, osservazioniparadossali e trovatecomiche,ironia e irriverenza,uncapolavoro di erudizione umorismo GiampaoloDossena Garibaldi fu ferito il Mulino GIAMPAOLODOSSENA GARIBALDIFUFERITO Garabàldafa faràta,Gherebélde fe feréte:owerocomesentirsi unpo' menoscemie un po' più mattigiocandoconle parole MARYMcCARTHY UNAGIOVINEZZA AMERICANA Introduzionedi GuidoFink. Nell'ultimolibrodellaMcCarthy, il raccontospeditoe crudo dell'adolescenzadi unaragazza fuoridal comune,nellaprovincia americanapettegolae bigotta

Grupporedazionale: Alfonso Berardinelli, LINEA DI OMBRA Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad anno IX novembre 1991 numero 65 Lerner, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. l[jjf :lllìllJI;:] Collaboratori: Adelina Aletti, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Paolo Bertinetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Giacomo Borella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Caterina Carpinato, Cesare Cases, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Cottinelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Roberto Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Vittorio Dini, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto· Franco, Guido Franzinett.i, Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Roberto Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo · Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Maderna, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoarda Masi, Roberta Mazzanti, Roberto Menin, Paolo Mereghett.i, Diego Mormorio, Maria Nadotli, Antonello Negri, Grazia Neri, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giuliano Pontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Fabrizia Ramondino, Michele Ranchett.i, Marco Revelli, Marco Restelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scamecchia, Domenico Scarpa, Maria Schiavo, Franco Serra, Joaquin Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni 'furchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progellografico: Andrea Rauch/Graphiti Ricercheredazionali: Alberto Cristofori, Natalia Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Hannocontribuitoallapreparazionediquestonumero: Luigi Bemabò,Nino Fasullo, Giovanni Laviola,Maggie Rose, VanniScheiwiller, Luciana StcgagnoPicchio, Lia Vicari, le agenzie fotograficheContrasto,Effige e GraziaNeri. Editore: Linea d'ombra Edizioni srl Via Gaffurio 4 - 20124 Milano Te!.02/6691132. Fax: 6691299 Distrib.edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Te!. 02/8467545-8464950 Distrib.librerie PDE - Viale Manfredo Fanti 91 50137 Firenze -Te!. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini 6 Buccinasco (Ml) - Te!. 02/45700264 Pellicole: Grafotitoli - Sesto S. Giovanni (MI) LINEA D'OMBRA - Mensile di storie, immagini, discussioni. Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo _Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo III/70% Numero 65 - Lire 8.000 I manoscrillinonvengon,orestituiti. Si pubblican,op esie solosurichiesta.Deitestidicuinonsiamostatiingradodi rintracciaregli aventidiritto, ci dichiariamopronti a ottemperareagliobblighirelativi. 4 7 9 10 12 13 15 Marco Dogo Vincenzo Consolo Nicola Tranfaglia Stefano Rulli Piergiorgio Giacchè Francesco Petruzzella Gianni Canova Jugoslavia: il ticket della guerra Mafia e Media Samarcanda: mafie a confronto c;ose nostre Tutto il brutto della diretta La maggioranza vergognosa II piacere dell'onestà Sciascia al cinema 18 Danilo Manera Visita guidata a Roma, Piazza dei Cinquecento e A. Capitini su Gtinther Anders a Hiroshima (a p. 16), F. Gentiloni sui dieci anni di "Esodo" (a p.17). J IDNFIONf ì J 23 24 Marino Sinibaldi Piero Arlorio Ricordo di Natalia Ginzburg Thelma & Louise & i maschi & il regista e P. De/conte su The Commitments (a p.26), P. Spila su Una storia semplice di E. Greco (a p. 28), O. Pivetta su Un eroe borghese di Stajano (a p ..29), F. LaPorta su Un altro mare di C. Magris (a p. J 1), M. Barenghi su Don De Lillo (a p. 32), V. Dini su libri di storia del calcio (a p. 33), G. Margherita sulla scomparsa di Yusef Jdris (a p.34). Gli autori di questo numero (a p. 93). 56 48 67 71 80 Giovanni Giudici, Paolo Lannro, Mauro Pesce, Umberto Piersanli, Michele Sovente Lygia Fagundes Telles Cristoforos Milionis René Depeslre Hanif Kureishi 37 Leonardo Sciascia 75 Frederick Wiseman 77 fan Spink, Caryl Churchill 63 Aubrey Manning Poesie - Solo un sassofono e altri racconti Symphonia Baozhu Nina e Nadia (seconda e ultima parte) Chi è lei, Leonardo Sciascia? a cura di James Dauphiné La libertà di parola ~ cura di Maia Barelli Teatro-danza a cura di Gabriella Giannachi Un approccio genetico allo studio dell'apprendimento e della memoria La copertina di questo numero è di Fabian Gonzales Negrin. Abbonnmento annuale (11 numeri): ITALIA L. 75.000, a mezzo assegno bancario o e/e. postale n. 54140207 intestato a Linea d'ombra. ESTERO L. 90.000.

IL CONTESTO Jugoslavia: la pace di lord Carrington e il ticket della guerra. Marco Dogo · A Parigi nel 1919, alla Conferenza di pace, le potenze vincitrici tentarono di regolare la successione del multinazionale impero asburgico distribuendone i territori agli stati-eredi sotto çondizione che questi si impegnassero a rispettare i ·diritti delle minoranze etniche e religiose Era infatti impossibile tracciare confini politici che non lasciassero comunque dalla parte "sbagliata" qualche milione di cittadini; la protezione assicurata alle minoranze intendeva appunto disinnescare un potenziale di turbolenza virtualmente minaccioso per la stabilità internazionale. Il •sistema, come è noto, fallì perché la tolleranza è frutto di lunga educazione, e a quell'epoca l'ideologia dello stato nazionale non tollerava la diversità etnica più di quanto i "sudditi minoritari" fossero inclini a concedere la propria lealtà di cittadini allo stato "ospite". Nell'ottobre del 1991, all' Aja, 111storia si ripete: ma questa volta il piano globale approntato dai mediatori europei per la successione jugoslava rischia di non essere neppure messo alla prova dei fatti per l'indisponibilità delle parti litigiose - né mai lo sarà, finché in piazza del Bano Jelacio a Zagabria circoleranno rambi in tuta mimetica armati fino ai denti e sulle bancarelle della via Knez Mihailo a Belgrado si continueranno a vendere cassette di marce militari, distintivi cetnici e carte etnografiche della Grande Serbia. La bozza presentata all' Aja da Lord Carrington aggancia la questione della sovranità delle repubbliche ex-jugoslave alla garanzia di uno statuto di autonomia culturale, amministrativa e politica per le minoranze; e nell'intento di ridurre al minimo le discrepanze fra previsione normativa e complessità del reale esaspera la nozione di minoranza fino a prevedere mjnoranze localmente maggioritarie, maggioranze localmente minoritarie, minoranze minoritarie, minoranze "nei villaggi isolati", ecc. La realtà concretamente coperta da simile casistica è quella della minoranza serba in Croazia. Non sappiamo se a Lord Carrington stiano a cuore i diritti umani; probabilmente sì, certo gli sta a cuore la pace. E questa, oggi, è minata dallo scontro serbo-croato nei territori storicamente croati di antico insediamento etnico serbo (la "frontiera militare" asburgica). Che dirà, la ,minoranza serba, di questo statuto di autonomia che le viene cucito addosso su misura? Carta straccia, direbbe, se a rispondere per lei fosse kapetan Dragan, l'avventuriero immigrato dall'Australia che sul proprio talento guerrigliero si è costruito un'immagine di successo e fortune mondane. Neppure è da aspettarsi che si lascino senza obiezioni ridimensionare i due presidenti ·delleauto-proclama.te regioni autonome serbe in Croazia, che si atteggiano a capi di stato e che all' Aja sono andati ad illustrare, con degnazione, il proprio presunto mandato popolare. Positivamente risponderebbe il prof. Pupovac, personalità politica moderata e ragionevole, rappresentante ideale ma non verificato dei serbi "buoni", talché' ai lavori dell' Aja un posto gli si è trovato nelle file della delegazione croata. Abbastanza paradossalmente, al centro dei negoziati è posta la sorte della minoranza serba in Croazia, ma cosa di ciò pensi la minoranza serba stessa è ignoto. E chi mai potrebbe pretendere di parlare in nome di una popolazione di sette-ottocentomila anime, in parte radicata negli ambienti urbani croati, in parte maggiore distribuita su una fascia di centinaia e centinaia di chilometri e oggi colpita e dispersa essa stessa dalle devastazioni di una guerra che si combatte "per proteggerla"? Per tutti, parla il presidente della repubblica serba, e a nome del "soggetto nazionale serbo" rivendica che lo Statuto dei Serbi in Croazia sia garantito dalla persistenza di un,legame federale sovra-repubblicano. Si noti che la protezione delle minoranze, sebbene formulata in termini generali nella bozza di Lord Carrington, non è concepita dai mediatori europei come principio di applicazione generale sull'intero territorio dell'ex-Jugoslavia, ma come misura ad hoc per lo spegnimento di un conflitto attuale e suscettibile di espandersi. Tanto è vero che ai rappresentanti di altre minoranze - gli Albanesi del Kosovo, i Musulmani del Sangiaccato, i Magiari della Vojvodina - comparsi all' Aja a chiedere per sé, più o meno ingenuamente, quel che viene offerto ai s·erbi in Croazia, è stato risposto essere del tutto irrealistica la loro aspettativa di essere inclusi su tali basi nel negoziato. Neppure nel!' ambito circoscritto dell'antagonismo serbo-croato, tuttavia, la bozza appare idonea allo scopo, perché nessuno dei compromessi all'interno della gamma che essa propone è simultaneamente accettabile da entrambe le parti, e se anche lo fosse nessuna delle due parti potrebbe essere abbastanza certa della propria sopravvivenza politica da garantire il rispetto dei patti. A Zagabria un partito nazionalista di centro-destra, premiato dalla legge elettorale maggioritaria, domina una coalizione di unità patriottica che va.dall'estrema destra fascista a una sinistra socialdemocratica riciclatasi dalla vecchia Lega dei comunisti e ansiosa di legittimarsi nel nuovo regime contribuendo con zelo alla difesa della Croazia aggreqita. Il pluralismo politico, qui, è stato fin dall'inizio circoscritto e condizionato da una comune opzione nazionalista; e le differenze si sono ulteriormente sfumate da quando l'attrito nella Krajina e in Slavonia si è fatto guerra aperta. I mezzi di comunicazione di massa sono mobilitati nello sforzo patriottico è non lasciano spazio a dubbi, dissensi o anche solo analisi razionali. Gli schermi televisivi vomitano a tutte le ore del giorno orrori reali e più spesso immaginari dal fronte (ma la nostra TV non è da meno: con quanto rigore professionale, una sera di fine settembre, il TG 1 ci ha "informati" di 800 morti a Dubrovnik?), trascinano i cittadini nel pathos di una "guerra totale" fra noi e loro, chiamano ogni buon patriota a raccogliersi attorno al capo. Questi, il presidente della repubblica Tudjman, è prigioniero della propria propaganda. 1-i:acostruito il suo successo politico sulla proclamazione della sovranità etno-nazionale croata, sul recupero di simboli del passato che sono stati percepiti come offensivi e minacciosi dalla componente serba della cittadinanza repubblicana, allarmata dallo scoprirsi minoranza nel nuovo assetto post-jugoslavo. Oggi Tudjman le offre assai più di quanto le abbia tolto un anno emezzo fa, e fa mostra di aderire allo spirito della bozza Carrington. Ma la storia e la cronaca insegnano che la sorte di una minoranza nazionale dipende assai meno dal suo statuto giuridico che non dal clima civile della società in cui essa vive: e questo, in Croazia, è irreparabilmente avvelenato. La

Foto di Marco Bruzzo(Agenzia Contrasto). sinistra croata, secondo le migliori tradizioni umanitarie socialiste, è bene intenzionata per il dopo-guerra; ma cosa conta la sua parola, se nelle file stesse del governo c'è cni urla che non ci sarà più posto per i serbi nella Croazia del dopo-guerra? In simili condizioni - che sono un dato di cui tenere conto, a .prescindere d~lle responsabilità nell'averle create - nessuna autonomia garantirebbe una minoranza, che fosse qualcosa di meno di un potere territoriale esteso alle armi e alle imposte, ciò che normalmente si chiama potere sovrano. Non è detto che la disponibilità di Tudjman arrivi a tanto, ma il partito ustascia attende il presidente al varco di un cedimento che sarebbe punito con un colpo di stato o la guerra civile. Mentre sul fronte i loro · camerati agiscono fuori controllo governativo, spezzando le .tregue e tenendo alta la tensione, nel centro di Zagabria i rambi in tuta mimetica aspettano il maturar degli eventi, fiduciosi nelle proprie armi e nel consenso di un'opinione pubblica eccitata, che la dissennatezza di certe mosse del nemico, come le bombe su Dubrovnik o l'assedio di Vukovar, sospinge nelle loro braccia. Perché l'Italia è così tiepida sul riconoscimento dell'indipendenza croata, ci chiedono a Zagabria, stupiti che la loro rappresentazione di una lotta contro "l'ultimo bastione del bolscevismo in Europa" sia accolta con scetticismo. Si immaginano tensioni sotterranee fra le due internazionali, quella socialista e quell'altra, cattolica, guidata dal Papa: e non li sfiora l'idea che nel mondo esterno si tema che un riconoscimento incondizionato ed extranegoziale della sovranità croata possa suonare 'come autorizzazione al regolamento di conti contro una minoranza ribelle al potere legittimo, e quindi di nuovo guerra. IL CONTESTO Con disprezzo uguale e simmetrico per le capacità di giudizio degli osservatori esterni, a Belgrado si grida al "genocidio che si · compie oggi sui serbi in Croazia" come se un'eventualità futura potesse essere presa per un fatto positivo. Il partito egemone, qui, è erede diretto della Lega dei comunisti; si è-tempestivamente ribattezzato "socialista" e, cavalcando la tigre del nazionalismo, ha superato la prova elettorale con un successo.rafforzato dalla legge maggioritaria. Il suo governo presenta alcuni tratti di regime, come la docilità dell'ampia maggioranza parlamentare, il conformismo dei mass-media alla propaganda di guerra (sebbene meno intensa che a Zagabria), il ruolo ipertrofico del capo, del presidente della repubblica Milosevic. Circola però, con tirature elevate e un seguito consistente di lettori, una stampa non allineata, ed è attiva una inteligencija dissenziente. Quanto all'opposizione politica (partitica), essa appare orientata a capitalizzare i disagi causati dalla guerra, e quindi a contestare il modo in cui questa viene condotta più che le sue stesse ragioni. Il problemaè che la fulminante ascesa del capo, nella seconda metà degli anni '80, è avvenuta all'insegna del riscatto del popolo serbo dalla sua posizione dispersa e minoritaria nella federazione jugoslava; e come potrebbe egli chiudere la vertenza, oggi, su un compromesso che sancisca la posizione dei Serbi in Croazia come minoranza nazionale in uno statOstraniero, protetta dalla Comunìtà europea? Sarebbe ben logico che qualcuno, in Serbia, gli presentasse il conto di un'operazione il cui unico risultato certo consiste nell'aver sensibilmente approssimato i Serbi di Croazia a quelle condizioni di "esistenza minacciata" da cui si sostiene tragga origine il conflitto attuale. Se può permettersi, Miloseviè, di respingere in prima istanza la bozza Carrington e di insistere sulla prefigurazione militare, sul campo di future frontiere statali, 5

IL CONTESTO Foto di lourie Sporhom do "The lndipendent". è perché il sistema politico della repubblica serba per il momento non funziona in modo tale da fargli pagare i costi correnti della guerra, che la popolazione pur comincia ad avvertire in termini di inflazione galoppante, difficoltà nei rifornimenti di carburante, interruzione delle comunicazioni esterne, renitenze alla leva e diserzioni, lunghe liste di soldatini diciottenni morti o feriti, prese di distanza dalla Serbia da parte delle altre repubbliche, isolamento internazionale. Ma i guasti si vengono approfondendo, ed è lecito prevedere che se le opposizioni non troveranno in sé la forza morale sufficiente per sottrarsi al ricatto patriottico e sfidare il governo sul terreno della pace, la conquista del potere servirà loro solo a gestire il disastro. Perché l'Italia è così indifferente alle ragioni serbe, ci chiedono a Belgrado, stupiti che non si accolga come giusta causa e argomento conclusivo la lotta contro un regime definito "ustascia". Si immaginano, interpretando a loro modo il furibondo agitarsi del presidente della Commissione Esteri della Camera dei deputati italiana, che ci sia di mezzo una questione di cattolicesimo e di stereotipi "slavo-comunisti" duri a morire; e non li sfiora il dubbio che poco comprensibili risultino all'esterno le ragioni serbe, e che quel poco non incoraggi alla solidarietà. Astrattamente, non è iniqua Ja pretesa di contrapporre la sovranità dei popoli a quella delle repubbliche, ovvero che, in tempi di autodeterminazione nazionale elevata a criterio di ristrutturazione dell'Europa post-comunista, siano scorporate dalla repubblica croata le zone etniche serbe. Ma quanti Croati dovrebbero essere sacrificati al legittimo interesse nazionale serbo, in queste che sono per lo più zone miste se ancora non le si è trasformate in zone pure a cannonate? E quanti e quali pezzi serbi del mosaico etnico bosniaco dovrebbero essere congiunti a quelle zone, per formare entità geo-economiche vitali? E chi ci farà credere, soprattutto, che davvero la felicità umana dipenda dalla distribuzione etnografica? Da_quelle parti, l'obsolescenza di un concetto universale e laico di cittadino può portare soltanto all'universale normalità di una condizione minoritaria. segregata e guardinga. L'altra carta "di principio" disponibile all'interprete autorizzato dell'interesse nazionale serbo è quella di uria sovrastatualità jugoslava che garantisca i Serbi sparsi nelle varie repubbliche - in tutte le repubbliche, per vero, dopo il distacco dalla Slovenia che non è meno irreversibile per il fatto di non essere ancora interna6 zionalmente sanzionato. Ma questa carta è giocata in modo trasparentemente strumentale, priva com'è dell'indispensabile complemento di un progetto di convivenza federale o confederale che rimetta al centro del discorso il cittadino e prometta regole uguali a tutti i popoli, anche a quelli provvisoriamente ai margini della partita perché non abbastanza rumorosi.D'altra parte, l'idea di una Jugoslavia "prigione di popoli", formazione artificiale tenuta insieme esclusivamente da un apparato repressivo, idea messa in circolo negli anni '20 dal fascismo italiano e dal Comintern e ripresa in tempi recenti come modulo esplicativo e indiscriminatamente apologetico del processo di disgregazione in corso, trova oggi straordinaria e suggestiva convalida nell'immagine di un'armata federale che, al di fuori di qualsiasi responsabilità e legittimazione democratica, si aggira fra Zagabria e le bocche di Cattaro a difendere con i mezzi blindati l'integrità dello stato. E che dire del!' egemonismo gran-serbo come nucleo duro sotto la buccia jugoslava, se non che l'invenzione polemica del passato è dram- . maticamente attualizzata dalle manovre della rump-presidenza collettiva jugoslava, la cui principale cura sembra essere quella di realizzare le peggiori profezie degli avversari? Se non va così dissipato, screditato nel mondo il prestigio di uno jugoslavismo che come risorsa morale e norma metodica sopravvive ormai quasi soltanto in quei funzionari delle residue istituzioni federali che con l'eroismo della pazienza contribuiscono come possono a smontare, a proceduralizzare il conflitto; ma come bisogno morale (di muoversi, amare, commerciare e pensare senza l'intralcio di passaporti e certificati etnici) ha radici più profonde e più diffuse di quanto non vogliano farci credere i suoi interessati liquidatori e di quanto non siano pronti a pubblicamente professare gli jugoslavi stessi, sotto la pressione della nuova ideologia dominante etno-nazionalista. Quarantacinque anni di regime comunista hanno lasciato ai popoli jugoslavi un duplice retaggio di cultura politica. _Daun lato quel nazionalismo etnico, legittimato dalla Costituzione del 1974, che fa delle identità collettive linguistico-religiose i soggetti della distribuzione della ricchezza e della sovranità territoriale; gli attuali regimi postcomunisti ne sono incarnazione diretta e difficilmente riformabile in senso liberal-democratico, e questo inCroazia non meno che in Serbia, ad onta di ogni proclamazione di europeismo e di occidentalità. Dall'altra una sorta di patriottismo istituzionale jugoslavo che in una ipotetica scala di compatibilità civile, democrazia politica e autonomia del mercato si collocherebbe su indici nettamente più elevati, ma che oggi appare bruciato dal1 'esperienza storica e dalle strumentalizzazioni correnti. La seconda parte della bozza Carrington, nel tracciare possibili ambiti a livelli di cooperazione fra le sovrane repubbliche post-jugoslave, riparte con sano empirismo degli interessi materia]i che c<?ntinuano a legare gli spezzoni di questo mondo impazzito. E un approccio adeguato ai tempi europei ma non a quelli della balkanska krema, dell'osteria balcanica in cui è calato il buio, qualche mese fa, e hanno cominciato a lavorare i coltelli - quelli veri e quelli che scavano nell'anima dal piccolo schermo, sollecitando atavismi e visceralità. E continueranno a farlo, finché alle genti delle due capitali sarà consentito vivere gratuitamente - alle spalle di centinaia di migliaia di profughi - la sublime emozione di una guerra totale difensiva e giusta o di una storica rivincita su antichi aguzzini. Ma perché non deve finire anche per loro, lo stato assistenziale? Perché non far loro pagare il ticket di uno spettacolo che li delizia tanto quanto innervosisce il mondo esterno? Forse, si deciderebbero a mettere ordine nei conti di casa, e a mente lucida, svanita l'euforia, potrebbero scoprire-come si dice avvenga normalmente nei paesi civilidi non aver più bisogno di amministratori che li stanno rovinando.

IL CONTESTO Foto di Massimo Siroguso (Gelo, 1990. Agenzia Contrasto). Mafia e media Sei' opinioni Mafie a confronfo Vincenza Consolo Uso questa pagina che mi mette a disposizione la redazione di "Linea d'ombra" come foglio di carta bollata, documento legale. Chiamo Goffredo Fofi, nella·sua qualità di direttore, a fungere da magistrato o da notaio, da questore o capitano dei carabinieri, se vuole, anche da padre confessore (scelga lui). Dichiaro gli incauti lettori delle righe che qui mi accingo a stendere, vogliano o non vogliano, quali miei eventuali testi a carico (mi dispiace, chiedo venia a tutti). Stendo qui insomma una confessione a futura memoria, come si dice. Racconto per la prima volta un episodio della mia vita, risalente a poco meno di.cinquant'anni or sono, per non essere prima o dopo accusato da persone, che indagando possano scoprirlo, di aver occultato, taciuto per tanti anni il mio peccato, il mio delitto. Racconto per non rischiare di essere trascinato, davanti a milioni e milioni di persone (mi viene il panico a pensarci, il raccapricciò), esposto alla riprovazione generale, di subire una inappellabile condanna giuridica e morale. Accusato da chi? E per quale motivo? Accusato dalla televisione italiana, dal capo di Raitre, l'ex avanguardista Angelo Guglielmi, dalla redazione di "Samarcanda", dal suo ductor Santoro Michele in uno con la televisione di Berlusconi Silvio (consigli per gli acquisti: Usate cera per le orecchie Ulisse, mascherine di panno nero Edipo, pinze per il naso Cirano), dal patron dello show omonimo, ex incappucciato, pentito a tutta prova, Costanzo Maurizio. Accusato perché siciliano (eh, eh... Chi l'avrebbe mai detto?!) e perché critico radicale di quello spettacolo tremendo. Al fatto dunque, alla mia vecchia macchia, alla mia antica colpa! Dico d'un fiato: io sono stato in casa, a Villalba, del famoso capo mafia don Calogero Vizzini, ho avuto in dono, dallo squisito personaggio, un torroncino di sèsamo e un buffetto sulla guancia. Oh... Mi sento liberato. Racconto com'è andata. Era l'estate del '43. Gli alleati avevano appena liberato la Sicilia, avevano attraversato lo Stretto e salivano bel belli su pel Continente. Avevano lasciato dietro, come sempre i liberatori d'ogni tempo, un gran disastro: ponti rotti sopra ogni fiumara, torrentello, carcasse di camion, cannoni, carrarmati ai bordi delle strade, trazzere e rotabili privi di manto, pieni di montarozzi, fossi, di voragini. Avevano lasciato una gran penuria, per non dire fame(ch'era già grave in verità prima del loro arrivo), di tutto, ma ancora più, almeno dalle mie parti,. di grani, cereali .. Mio padre, eh' era commerciante nei generi suddetti, pensò bene di lasciare la costa nostra d' agrumi e verdurame (potevamo mangiare sempre arance, cicorie, cetrioli?) e d'avventurarsi con un camion -un glorioso Fiat 621, di quelli col muso lungo-, con l'aiuto di un operaio e in compagnia di un moccioso, ch'ero io, di cui non riusciva mai a liberarsi, d'inoltrarsi, per l'interno dell'isola, fin nel Nisseno, comprando qua e là qualche sacco di frumento, di fave, di cicerchie, e in Villalba, dove si producevano celeberrime lenticchie. Che comprammo da un commerciante del ramo e caricammo in due sacchi sopra il camion. L'operaio stava per girare la manovella per avviare il motore, quando sopraggiunge il mare: sciallo dei carabinieri e dice alt!, è tutto sequestrato, la merce da qm non parte. Il venditore fa: "Andiamo da don Calò". Fu così che 7

IL CONTESTO varcai, la mano stretta in quella di mio padre, la soglia della casa di quel famigerato. Ch'era un vecchio imperioso, compassato, e ascoltò il racconto, pensò e quindi sentenziò, rivolto a mio padre: "Tempò mezz'ora potete partire con le lenticchie vostre". Poi, smuovendosi appena, chiese a me il nome e mi disse che avevo gli occhi da birbante, mi regalò il dolce e diede il pizzicotto sulla faccia. A "Samarcanda" ora. Strombazzato per più giorni dai giornali, volli vedere quel programma, con tutti i suoi innesti e il passaggio di mano al "Costanzo show". Il diverso stile subito mi colpì dei due direttori o conduttori. ·Alatomi sembrò quello del primo, del Santoro. Da sopra la ribalta del teatro Biondo di Palermo, dirigeva, le mani avanti, una invisibile bacchetta fra le dita, una portentosa orchestra di emozioni, un immenso coro di voci più varie, disparate. E leggero si librava nell'aria, piroettava, fremeva, vibrava, incitava, ammoniva, commoveva a sua volta, indignava, inveiva, come neanche un Toscanini o un Abbado, un Wagner, un arcangelo piuttosto o un santo che proclama l'instaurazione sulla Terra della Comunione di tutti i santi. Posato lo stile dell'altro, del Costanzo. Fermo, corposo, greve oserei dire, quasi addossato all'esecutore, sfiorando questi con la mano, toccandolo, gli soffiava nell'orecchio domande, suggerimenti, tono di voce, vigore, ammiccando lepido, faceto, sornione, per esplodere però inopinatamente in suoni e gesti · estremi, fragorosi, eclatanti: Come quando dà fuoco, lì sul palco, per ben due fiate, a una maglietta, una T-shirt, con su la scritta, mi pare, MAFIA by ITALY. Distruggeva così una merce esecranda, bugiarda e infamante, per veicolare una merce morale, mite, santa, confortevole, protettiva, merce priva di dolore e sangue, interrompendo nei momenti più alti l'orchestra e annunziando i "Consigli per gli acquisti". La rappresentazione di una tragedia collettiva, della Tragedia nostra, mi sembrò quella trasmissione-fiume, quello spettacolo, con i testimoni-messaggeri che narrano in teatro il fatto tragico successo altrove e in altro tempo, con il coro, con un numero infinito di spettatori e con la catarsi finale, resa visibile e quantificabile con l'accensione, al comando, di una lampadina nel nero della notte. E il bene e il male, in quella tragedia, come la luce e il buio, erano precisi, netti, inequivocabili. Il bene, indubitabilmente, i parenti delle vittime straziati dalla mafia e oltraggiati dallo Stato che quasi mai per loro è riuscito a fare giustizia. Il bene, certo, magistrati, forze dell'ordine, avvocati, giornalisti, tutti quelli insomma che per professione o vocazione la mafia combattono. Il bene anche sindaci, ministri, sottosegretari, uomini politici generici che in quello spettacolo appaiono e parlano contro la mafia, contro colleghi in odor di mafia. Il bene uomini della televisione pubblica e commerciale: bene dunque Manca, Guglielmi, Santoro, i suoi colleghi-aiutanti di "Samarcanda", noi tutti di conseguenza che votiamo per determinati partiti e permettiamo così la lottizzazione della Rai, che paghiamo il canone d'abbonamento, che guardando certi programmi facciamo audience; bene Berlusconi, Costanzo, il suo pianista, bene tutti gli industriali che danno pubblicità a Canale 5, e bene, di conseguenza, tutti gli ex-piduisti, pentiti e non pentiti, da Gervaso, a Selva, al defunto generale Malizia, al vivo Gelli, al morto Sindona ... Però Sindona è l'anello che non tiene: era P2, il bancarottiere, ma era anche mafia. E allora? Non capisco. Così non capisco come si possa mischiare un bene assoluto, sacro come la vita, con un bene relativo, profano come la merce. Allo stesso modo in cui non çapisco come si possa fare una campagna antirazzistica, mischiando assieme bimbi neri e bianchi, convincendo a comprare nello stesso tempo maglioncini ... Ma lasciamo andare. Questo discorso ci porterebbe un po' lontano. Abbiamo detto del bene rappresentato a "Samarcanda". Il male era la mafia, indubitabilmente e i suoi assassini, i suoi trafficanti di 8 Santara e Costanza in un fotomontaggio per la copertina di "Panorama". droga, i suoi appaltatori, riciclatori eccetera. I mafiosi noti e ignoti, condannati e impuniti. E male certamente gli uomini del potere politico che da quando è nata la mafia, dalla notte dei tempi, li hanno protetti, dai mafiosi si son fatti proteggere, anzi eleggere. Ora, questi uomini politici super o sub o para o filomafiosi sono rimasti sempre ignoti, sconosciuti, impuniti (tranne uno, Cianci mino, che forse è stato.dato in pasto, per chetarlo, al cerbero della Giustizia). In ciò sta tutto il risentimento, il furore anche - lo sa Dio quanto legittimo oltre che umano - dei parenti_delle vittime contro certi partiti di governo, i suoi uomini, nei confronti degli organi dello Stato che quei politici dovrebbero individuare, inquisire e condannare. In ciò sta l'ansia di verità, di chiarezza e di giustizia di tutti noi uomini di civiltà e di democrazia, di noi della società civile. Fra questi uomini ci sono naturalmente anche, o fra i primi, Santoro e Costanzo. I quali, soprattutto dopo la morte del valoroso Libero Grassi, interpretando il sentimento generale, la· generale ansia di giustizia, hanno inscenato quella trasmissionefiume, quello spettacolo. Il quale, da tragedia che era, si è subito stravolta in autodafè di inquisitoriale mémoria, con relativo pubblico rogo in effigie. Santoro, il direttore d'orchestra, si è trasformato in angelo giustiziere, sostituendosi alla polizia, alla magistratura, agli organi statali, portando alla ribalta un mafioso pentito e facendolo parlare, mandando un suo aiutante a scovare un verbale dei carabinieri e leggendolo pubblicamente (a sei o sette milioni di persone). Pentito e documento attestavano che il ministro democristiano Mannino Calogero, detto Lillo, era stato testimone di nozze del figlio di un famoso mafioso del Trapanese. Il Mannino era dunque un filo-mafioso, avrebbe dovuto subito dimettersi, essere inquisito ed eventualmente condannato. Intanto, che subisse, avanti a sei milioni di persone, avanti alla Nazione, la riprovazione generale, la condanna morale di tutti i buoni, e non fiatasse. Il panico, dicevo, il raccapriccio mi ha invaso a vedere quella trasmissione, il suo meccanismo. Il terrore che la sorte del Mannino, anche se non sono un politico (ma sono un siciliano! Faccio lo scrittore! Sono tante altre cose!), poteva toccare a me, a chiunque di noi. Nel vedere come ormai la televisione è uno -strumento pericoloso e incontrollabile, che può essere usato, da chi lo maneggia, come gli pare e piace. È per qu~sto motivo che ho resa pubblica all'inizio quella mia antica colpa. Per questo dichiaro di non conoscere il ministro Mannino (magari conoscessi un ministro!) e _ di non sapere se egli è stato o no contiguo a mafiosi. Ma la magistratura lo ha scagionato: chi lo riferisce questo ora ai sei milioni di spettatori di "Samarcanda"?

Cosenostre Nicola Tranfaglia Una filosofia otto-novecentesca, ché è andata a lungo di moda, invitava i suoi seguaci (ed erano tanti) a ritenere che fosse razionale tutto il reale (e viceversa) ma credo che oggi si troverebbe in difficoltà ad applicare il precetto alla politica italiana. L'assurdo e il paradosso sembrano, infatti, dominare le cose più importanti e decisive nel nostro paese, anche se non è detto che qualche nascosta "razionalità" possa esserci, almeno nelle intenzioni. Le ultime polemiche su "Samarcanda" e sul "Maurizio Costanzo Show" sono lì a dimostrarlo. Siamo in una situazione di grande confusione a proposito della lotta alla mafia, il ministro Scotti si affanna ad annunciare o a promettere provvedimenti di polizia-che non fermano la carneficina costante e il suo collega della Giustizia Martelli vorrebbe farci credere che asservendo i giudici al potere esecutivo la giustizia italiana sarebbe più efficace contro Cosa Nostra. Un grande polverone, insomma, per creare nell'opinione pubblica la sensazione che il governo si sta muovendo (le elezioni sono vicine e i partiti sono già sul piede di guerra) ma nessuna seria · strategia politica e culturale bensì soltanto la ripetizione di un copione logoro e inutile: l'illusione ricorrente che la repressione da sola risolva il problema. Come se non fosse bastata l'esperienza del prefetto fascista Cesare Mori negli anni Venti in Sicilia che colpì manovalanza e quadri della mafia ma non impedì che essa risorgesse negli anni Quaranta più forte di prima. Ebbene in questa situazione, caratterizzata non più dall'immobilismo ma dalla mistificazione e dalla confusione emergenziale della politica Andreotti-Scotti-Martelli, l'attenzione si concentra su Santoro e Costanzo e sulla loro trasmissione e si vuol far credere agli italiani che, se le istituzioni vacillano, in fondo la colpa è dei media che parlano di mafia e in particolare dei conduttori che hanno organizzato la trasmissione incriminata. Intendiamoci: le critiche al tono a volte spettacolar-savonaroliano di Santoro o a certe battute all'acqua di rosa di Costanzo si possono condividere e altre, dal punto di vista estetico o giornalistico, si potrebbero fare. La stessa. cerimonia delle luci accese suscita reazioni contrastanti tra chi ritiene che sia un segno, sia pure tenue, di mobilitazione contro la mafia e chi ne sottolinea la scarsa Foto di Luigi Baldelli (Agenzio Contrasto). IL CONTESTO utilità, lo scarico di coscienza che provoca negli spettatori. Infine, come ha ricordato qualcuno nelle settimane scorse, il giornalismo-verità c'è stato molte volte nei settimanali e quotidiani italiani e in tempi anche più difficili di questi. Un film di non grande qualità (a mio parere) ma di notevole successo di pubblico come Il muro di gomma ha ricordato a ragione che ci furono alcuni giornalisti italiani che ebbero una funzione importante a proposito di quell'altro terribile mistero nazionale che è la strage di Ustica. Ma tutto questo, e altre cose che si potrebbero dire, non mutano il giudizio di fondo. Nel vuoto del potere politico i magistrati negli anni Settanta assunsero una rischiosa (per loro ma anche per il nostro ordinamento costituzionale sulla divisione dei poteri) supplenza nella lotta al terrorismo. Negli anni Novanta, di fronte a un altro vuoto o meglio al boicottaggio esercitato attivamente dalla classe politica di governo contro la lotta alle mafie, alcuni mass media assumono una sorta di supplenza tentando di mobilitare l'opinione pubblica su un problema che rischia di affondare la ·democrazia repubblicana. Naturalmente la forza dei mass media è diversa e assai meno grande di quella delle istituzioni dello Stato. Può, a prima vista, apparire maggiore per l'impatto spettacolare che ha ma si tratta di un'illusione, i media seguono regole che non consentono una campagna costante e di lunga dur a, oltre che di grande profondità, come oggi sarebbe invece necessaria per debellare le mafie e· dunque rischiano di darci la sensazione che qualcosa di decisivo succeda senza che veramente avvenga. Riemerge insomma il noto potere dei mass media che consiste nel far confondere ai suoi fruitori realtà e finzione, quel che avviene sul palcoscenico e quel che avviene nel mondo e di conseguenza anche l'illusione che la condanna della mafia proclamata sullo schermo abbia conseguenze politiche effettive nel Palazzo. Ma su tutta la vicenda si stagliano l'assurdo eil paradosso di cui· parlavo all'inizio. Si discute e si spacca il capello sulla correttezza di Santoro e sui limiti di "Samarcanda" e non ci si rende conto che si sta giocando una partita cruciale nella quale quelli che ci rappresentano (o dovrebbero farlo) si agitano scompostamente ma non lottano davvero contro Cosa nostra e le sue numerose alleate. Spiegare perché ciò avvenga e quali siano gli interessi e le culture che reggono l'attuale sistema di potere (soprattutto democristiano ma anche socialista e laico, con alcune appendici consociative dell'opposizione di sinistra) richiederebbe un discorso più lungo e difficile. Prima o poi, bisognerà riprenderlo.

IL CONTESTO Tutto il bruttodella diretta Stefano Rulli Mi ricordo degli spettacoli del teatro di Dario Fo. Andavamo a vedere gli spettacoli contenti di veder ri~pecchiate sul palcoscenico quelle opinioni e quelle emozioni che sentivamo dentro di noi. Era un momento anche bello, importante, ma non certo di conoscenza, non certo di scoperta. Ecco, ho la sensazione che nel momento in cui quel teatro non esiste più, non esistono più i movimenti che riempivano quei teatri, adesso la gente "fa il pubblico" a "Samarcanda": in fondo c'è una continuità fra le · adunanze di un teatro politico e l'assistere o partecipare a un teatro della politica. responsabilità o al potere che comunque ha il mezzo televisivo. Piuttosto si tratta di usare al meglio le possibilità di ciascun linguaggio e intervento specifico; di conoscere e scegliere, a seconda del tipo di trasmissione e di linguaggio adoperato, le finalità più adeguate. E questo non sempre avviene anche nell'ambito del giornalismo televisivo sulla mafia, che troppo spesso, invece di analizzare e scoprire le contraddizioni di questa cultura - e di questa degenerazione politica-, si limita a enfatizzare delle componenti emoti ve che in qualche modo già sono note, e a ripresentare degli schieramenti che già si sanno ... Credo che comunque queste trasmissioni abbiano una loro utilità emotiva: "fare il pubblico", come anche "avere molto pubblico", non sono cose prive d'importanza. Certo si può sempre dire che la gente è attratta dalla novità e dalla pubblicità di una trasmissione televisiva speciale e spettacolare; certo si può dire che la gente si coAipiace di sentirsi buona appena accendendo una lampadina, ma è comunque vero che trasmissioni come queste stimolano e registrano un rapporto magari ambiguo, ma senz'altro ricco, affrontano un tema che tocca, che muove qualche sincera partecipazione e convinzione: non si sta fino all'una di notte a vedere una trasmissione che non interessa. La stessa c:osa si può dire anche quando si tratta di fiction. Anche quando si parla de La piovra, si dice sempre, e giustamente, che in fondo la gente lo vede perché è uno spettacolo gratificante, perché alla fine ci si sente come di aver dato un contributo emotivo, per essersi sentiti dalla parte giusta. Ora, io non sono un sociologo e non lo so spiegare, però sicuramente nel bisogno, nel desiderio di identificazione con dei personaggi positivi, c'è qualcosa di complesso, di ricco, anche se non si ;.: traduce in altro. Si può anche azzardare come questa mancata traduzione dipenda soprattutto dalla realtà che ci sta intorno, che certo non offre grandi spazi a questa disponibilità, a questo atteggiamento meno egoistico e meno rinunciatario che. lo spettacolo~ in grado di rivelare. Del resto lo spettacolo in sé non credo determini mai i reali comportamenti o le scelte di vita, ma dà sicuramente segnali di. coinvolgimento o di indifferenza anche rispetto ai temi trattati, ai contenuti attraversati, e non solo relativi al tipo o alla qualità del programma. Per questo non è indifferente e forse mai controproducente scegliere argomenti importanti, raccontare realtà drammaticamente presenti. Parlare della mafia in televisione, •lo si può fare e lo si fa in molti modi, usando gli spazi del giornalismo oppure attraverso programmi di fiction. lo credo che ci sia spazio per tutte e due queste forme di intervento, in televisione, su un tema così drammatico come la mafia. Ci sono stati molti esperti di mass media che, davanti alle puntate di La piovra, teorizzavano che la mafia è una faccenda troppo seria per farci sopra della fiction: molto meglio fare inchieste e programmi giornalistici. Ma non credo che si possa porre in questo modo il problema, perché non si tratta di confrontare dei programmi così diversi - come le puntate di un "romanzo popolare" che parla sì della mafia ma soprattutto la usa come ambiente di riferimento, come sfondo di un "genere", e i servizi o gli interventi che si propongono di indagare e riferire quanto più è possibile di una realtà inquietante odi un dramma reale. Non si tratta di misurarne i diversi "effetti" o risultati culturali, mettendoli addirittura in relazione alle . 10 La cosa che mi sembra importante rilevare è che, non solo quando si parla di mafia ma anche rispetto ad altri grandi temi, si sta affermando un modo quasi univoco di "fare televisione": quello dei talk-show di vario genere e forma. Questa "televisione", questo modo di fare intervista al posto di fare inchiesta, è la continuazione, ma anche la deformazione di alcune istanze politico-culturali che motivavano il cinema documentario degli anni Settanta. È un modo di trasformare e travisare una eredità, che credo sia importante riconsiderare. Allora si diceva, per esempio, "Diamo la parola a chi non ce l'ha, diamo spazio a chi non viene mai rappresentato in televisione". E si andava con la telecamera nelle situazioni reali a raccogliere storie, denunce, testimonianze. Non so quanto, allora, si riuscisse per davvero a raccontare la loro vita, ma so che adesso operazioni Disegno di Guido Pigni. televisive che sembrano rispondere alla stessa istanza si collocano esattamente all'opposto: il problema non è più "dare la parola" a persone o realtà sociali altrimenti emarginate o sconosciute, ma piuttosto si offre a degli individui di "essere presenti in televisione", anzi si usa e si dosa il contenitore-tv sapendo che è quello l'unico luogo e modo di essere presenti, l'unico luogo e modo per "esistere". Una persona conta, ha uno status sociale diverso se è passato in televisione, si sa. Quindi "esistere televisivamente" è qualcosa che per fa gt:!nte comune ha un valore in sé, un valore che prescinde da ciò che in televisione si va a dire o a fare. Ma non mi interessa se questa è una verità sociologica o soltanto una credenza diffusa: quello che conta: - dal punto di vista tecnico e operativo, intanto - è che si afferma o si subisce un modo di fare televisione che falsa la realtà invece di documentarla. È chiaro che la situazione si è come capovolta, rispetto al cinema documentario: la persona inviti(ta è divent&ta un "ospite". Non si tratta più di entrare con la macchina da presa nel suo contesto, di chiedere permesso, di sottostare in qualche modo alle regole, ai riti e ai ritmi della realtà che si vuole documentare, di registrare insieme al personaggio il suo contesto, di rispettare o almeno tollerare .il mondo e il linguaggio del "testimone". Adesso è lui l'ospite dello studio televisivo, magari contento di

essere riuscito a entrare a far parte della corte o del salotto o del teatro dove si tiene la manifestazione: e quando gli si chiede di protestare, denunciare si è comunque di fronte all'esempio migliore e al momento più alto e positivo della partecipazione televisiva, perché, come si sa, ci sono anche le trasmissioni dove sfilano le famigliole che si amano o le coppie che si separano e che raccontano la loro vita privata, le vicende della loro vita sentimentale e sessuale, pur di "essere presenti" nello schermo televisivo.L'intervistato entra in uno stato d'animo da "sindrome di Stoccolma" che lo predispone quasi a recitare la propria parte, mentre il conduttore - che conosce bene questo - gioca a usare, a manipolare o a spiazzare, a seconda delle convenienze, questa specie di leggera finzione e di assoluta condiscendenza. Anche questi esempi, così lontani dalle trasmissioni di tipo giornalistico, servono comunque a illustrare quanto è mutata forse la condizione e la considerazione della dignità personale e della vita quotidiana della gente, ma anche quanto è aumentato il potere della televisione; tanto da cambiare completamente il senso del "dare la parola alla gente", mentre paradossalmente non s'è mai vista in tv una presenza così nutrita e frequente di gente comune. Quando il giornalismo televisivo si esprime nelle forme o con le formule di quei programmi-contenitori, dove c'è sempre il pubblico che fa la parte dell'assemblea (o dell'assemblea che fa la parte del pubblico), cambia anche il modo di risolvere gli altri problemi, etici o tecnici, già affrontati dalla recente tradizione del reportage documentario, sia cinematografico che televisivo. Per esempio il problema della faziosità, della ricerca di un modo di fare inchiesta giornalistica-teleVisiva "imparziale". A questo proposito, una delle soluzioni più frequenti e corrette adottate dal cinema documentario europeo - come quello di Jean Rouch, per fare un grande esempio -era la scelta di non nascondere l'autore dietro la telecamera ma di entrare senz'altro in campo, di dichiararsi presente con la propria parzialità, la propria storia, le proprie scelte. E però il presupposto di quel tipo di "parzialità" era quello di motivare e orientare la propria inchiesta a una effettiva conoscenza dell'altro: io voglio dichiarare chi sono, semplicemente perché questo rende più chiaro a te perché io ti faccio certe domande; ma io vengo da te per sapere, per conoscerti davvero. Almeno sul piano delle . intenzioni e del metodo, nel cinema documentario d'inchiesta, si decideva di partire con la assunzione e dichiarazione di "parzialità", e dunque si lasciava entrare in campo la propria soggettività di autore e di operatore, al fine di migliorare un risultato di conoscenza, di approfondimento, di scoperta della ·realtà indagata e delle sue contraddizioni. Di fatto invece in molti programmi televisivi attuali, prevale un'altra scelta, per cui il conduttore "imparziale", è al contrario lui al centro del campo, lui che controlla il gioco, che distribuisce minuti e apprezzamenti e sberleffi, e non tollera che gli si facciano domande né tantomeno accetta di essere giudicato dai "suoi" ospiti. E nella maggioranza dei casi, più che conoscere le realtà e le storie di vita narrate dagli "ospiti", gli interessa fare domande che dimostrino quanto è intelligente e umano lui. Ma anche i conduttori e gli intervistatori più seri, che si propongono davvero di trasformare una storia reale in un evento significativo per milioni di spettatori, quasi sempre sottovalutano il fatto che, per la persona intervistata, qualunque sia la motivazione e l'argomento della sua testimonianza, è la televisione l'evento principale. Di qui l'inconscia voglia di uscirne bene, di costruire un'immagine di sé che risulti gradevole anche se poco reale (vedi soprattutto i personaggi famosi, i divi IL CONTESTO o i politici), oppure di raccontare una storia di vita che strappi lacrime e applausi. E nessun intervistatore o conduttore può allora dire che sta registrando una realtà o raccontando una storia "in diretta": sta piuttosto costruendo un evento in cui inserisce personaggi ospiti al posto di testimoni. Il vero problema a questo punto è non fingere che non si tratti di un "evento televisivo", e invece riconoscerlo e porsi il problema di come evitare che prevalga sull'evento reale da narrare, o almeno come svelarlo. Lo si può infatti certamente usare per riflettere sull'argomento o sulla realtà che si vuole indagare, a patto di comprendere nella riflessione la trasmissione stessa, la televisione stessa, e i suoi rapporti e le sue responsabilità con la realtà oggetto della trasmissione. Questo è, a mio parere, il problema di quelle trasmissioni che si pongono così esplicitamente come_"eventi",da diventare in se stesse fenomeni più vistosi e argomenti più discussi dell'inchiesta e del dibattito che hanno provocato e contenuto. Anche a prescindere dalle proteste e dalle minacce dei dirigenti Rai e della Dc, non si può dire che la puntata di "Samarcanda" e del "Maurizio Costanzo Shòw" sulla mafia non abbia fatto più clamore come costruzione di un evento televisivo, di quanto abbia approfondito la conoscenza della realtà siciliana o i temi della mafia e della criminalità organizzata. È questo un esito che si vuole valutare, probabilmente, come un puro e ineliminabile dato di fatto, ma così non è. Per esempio, il giornalismo documentario americano spesso sceglie di intervenire all'interno di un reale e spettacolare avvenimento, il cui peso specifico resta superiore e determinante rispetto al lavoro di inchiesta e documentazione televisiva o cinematografica: il criterio è poi lo stesso che guida i servizi giornalistici ordinari, anche quando ci si propone di arrivare alle dimensioni e all'autonomia di un vero e proprio documentario d'inchiesta. Così, per fare esempi famosi, i documentari sulle elezioni primarie di Kennedy, oppure il film di Leacock sulle ultime giornate di un condannato a morte. Non sono casi in cui, come si vede, si sospende o si supera la discutibilità morale, ma certamente si evita che l'intervento televisivo assuma la preponderanza di un evento più eclatante della realtà che si vuole rappresentare; lapreoccupazione di questo cinema documentario era quella di filmare i personaggi in situazioni dove l'evento reale era talmente importante che non potessero o volessero costruirsi un'immagine finta davanti alla macchina da presa. Un'altra possibilità, per almeno ridurre l'effetto televisione sulla testimonianza, è quella di raccoglierla non in uno Studioma nel suo mondo reale. · Le cose, nei talk-show, vanno proprio nel senso opposto, e in fondo obbediscono a un modo di fare televisione che finge di aver superato parecchie ansie e problemi che sono legati ali' uso tecnico e culturale del mezzo, prima ancora di essere questioni politiche e morali legate al suo potere o al rapporto con il potere. Spesso, sovrapporre le preoccupazioni "della politica", sulla completezza o sull'imparzialità di una trasmissione, significa dimenticare le proprie preoccupazioni professionali e culturali, magari anche il fine naturale di un'inchiesta giornalistica che resta quello di scoprire e raccontare la realtà. Un risultato che, per fortuna, capita comunque spesso, malgrado le tecniche e i metodi impiegati. Quello che per esempio mi ha colpito di più, nellafamosa trasmissione di "Samarcanda", è appunto ilmomento in cui è scattato, dentro l'evento vuoto televisivo, l'evento particolare e reale: l'esibizione davvero "scoperta" di un onorevole siciliano, di un personaggio talmente preoccupato e· coinvolto nella discussione, talmente colpito nei suoi interessi, nelle sue opinioni, da interrompere e spiazzare - agli occhi 11

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