Cecoslovacchia 1968, in una foto di Josef Koudelka. La sua prima macchina fotografica fu una 6 x 6 di plastica, che riempì insiemè alla musica la sua infanzia. Due passioni che Koudelka ritrovò, accentuate, a Praga, dove nel '56 si trasferì per studiare ingegneria. Lì conobbe Jiri Jenicek, uno dei fotografi maggiormente noti della Cecoslovacchia, il quale rimase colpito dalle sue foto e ne promosse una mostra nel 1961 nel ridotto del teatro Semafor, in occasione della quale conobbe la grande critica e scrittrice Anna Farova, che lo familiarizzò con le immagini dei maggiori fotografi del mondo. Nello stesso anno Koudelka si laureò e cominciò a praticare il lavoro di ingegnere. Ma il suo destino doveva esprimersi attraverso la fotografia. Così, nel tempo strappato alla professione, cominciò a collaborare come fotografo con la rivista teatrale Divaldo, attraverso la quale entrò in contatto col vitalissimo mondo culturale praghese, nella cui costellazione si trovava il grande scrittore Milan Kundera. · Coi risultati conseguiti in questa attività, nel 1965 gli venne riconosciuto il diritto di far parte dell'Unione Artisti Cecoslovacchi e ciò gli permise di diventare, sempre dividendosi col lavoro di ingegnere, fotografo ufficiale del teatro Branou di Praga. Nel frattempo continuava la sua grande ricerca sugli zingari, iniziata nel 1961 e presentata per la prima volta a Praga da Anna Farova nel 1967, anno in cui Koudelka lasciò l'attività di ingegnere aeronautico per dedicarsi interamente alla fotografia. Ma i carri armati russi erano alle porte e una notte arrivarono. C'era ormai poco da fare per un fotografo. Koudelka se ne andò. Cominciò così, nel 1970, il suo viaggio per il mondo lavorando per l'agenzia Mag·num. Un altro mito della fotografia modernache in verità supera quello di Koudelka - di cui si torna molto a parlare in questo periodo, è quello di Paul Strand, al quale la National. Gallery of Art di Washington e la Aperture Fondati on hanno dedicato una grande mostra e CONFRONTI un magnifico li~ro (purtroppo molto caro: cento dollari in America e 180.000 lire in Italia). Che cosa rappresentò in America e per la fotografia Paul Strand? Nell'estate del 1915 in un bellissimo articolo apparso sull'indimenticabile "Camera Work", la rivista fondata e diretta dal fotografo e gallerista Alfred Stieglitz, Marius de Zayas scriveva: "L'America non è stata ancora scoperta. Stieglitz voleva compiere questo mira- .colo. Voleva scoprire l'America. Voleva anche che gli americani scoprissero se stessi. Mal' ha fatto nas.condendosi dietro lo scudo della psicologia e della metafisica. Non c'è riuscito". A compiere questo miracolo sarà Strand due anni dopo, pubblicando proprio su "Camera Work" quelle che considerava le sue prime ricerche fotografiche. Aveva allora ventisei anni. È con lui che comincia la scoperta dell'American Scene, di uno dei maggiori miti della contemporaneità. Con lui la fotografia abbandona le tentazioni pittorialiste e si cala in se stessa. Strand era nato a New York nel 1890, in un quartiere elegante della Sessantatreesima strada, qualche mese dopo che il padre, come facevano in quel periodo molti americani di origine europea, aveva cambiato il proprio cognome da Stransky in Strand. Sebbene avesse avuto in regalo dal padre una macchina fotografica già all'età di dodici anni, per Strand la fotografia cominciò ad avere importanza soltanto intorno al 1904. E ciò avvenne per via di un casuale e fortunato incontro. In quell'anno aveva, infatti, lasciato la Hell's Kitchen e s'era iscritto alla Ethical Cultur School, dove insegnava il giovane sociologo Le~is Hine, _che con le sue fotografie dei bambini che lavoravano nelle fabbriche aveva notevolmente contribuito alla promulgazione della legge di tutela del lavoro minorile. Seguendo le lezioni di Hine, Strand imparò le regole fondamentali della fotografia e conobbe la Photo-Secession Gallery di Alfred Stieglitz, più semplicemente chiamata "291 ", dal numero civico della Fifth Avenue in cui si trovava. Attraverso la "291" e la raffinatissima "Camera Work", Strand scoprì le opere di alcuni grandi fotografi dell'Ottocento, di pittori e scultori coine Matisse, Picasso, Brancusi, Kandinsky, Cézanne, Bracque e Picabia, scrittori e critici come Bernard Shaw, Oscar Wilde, Gertrude Stein, Charles Laffin e Benjamin De Cass·ares, nonché i quattro più straordinari fotografi contemporanei; Steichen, Coburn, F. Evans e, naturalmente, Stieglitz, che divenne il suo più costante punto di riferimento. Stieglitz era nato nel New Jersey da una ricca famiglia di ebrei tedeschi e aveva studiato a lungo in Europa, prima ingegneria e poi fotografia, formandosi uno spirito tutto interno ali' antipositi vismo, ali' idealismo bergsoniano, nonché alla fascinazione per l'Oriente e l'arte africana. Tornato in America aveva voluto creare un punto d'incontro per quanti si battevano "contro l'uso della fotografia come mezzo puramente meccanico di riproduzione della realtà'; e per il suo riconoscimento come strumento di espressione artistica. Tale riconoscimento per i fotografi che si raccolsero intorno a "Camera Work" e alla "291" passava attraverso l' esperienza dei fotografi europei che nelle loro im- .magini cercavano di ottenere degli effetti pittorici, e cioè, per il cosiddetto pittorialismo. Intorno al 19'15Strand da parte sua cominciò, invece, a comprendere che questa via non portava al riconoscimento delle vere potenzialità del mezzo fotografico. "A differenza delle altre arti che sono realmente antifotografiche - scrisse nel giugno del 1917 - l'obiettività è la vera essenza della fotografia, il suo contributo e al tempo stesso il suo limite. L'efficacia potenziale di ogni mezzo dipende dalla purezza del suo uso: ogni tentativo volto alla sua contaminazione porta a dei risultati morti quali l'incisione a colori, la pittura fotografica, la stampa alla gomma, all'olio, etc., dove l'intervento manuale e la manipolazione sono soltanto espressione di un desiderio impotente di dipingere". Affascinato dall'arte di Bracque e Picasso Strand aveva cominciato a fare delle fotografie che venivano considerate astratte ma che di fatto erano assolutamente realistiche: riprendevano infatti primissimi piani di vasi e altri oggetti. Strand cercava in questo modo di giungere ad un approfondimento della cap;icità della visione. Il suo motto era una frase di Thoreau: "Non puoi dire più di quello che vedi" .. Ma Strand sapeva vedere di più di quanto gli altri vedevano. Così, gettando lo sguardo sugli oggetti, aprì la via ad una nuova visione e, al tempo stesso, ad una nuova conoscenza dell'America. La sua poetica è riassunta in una dichiarazione del 1974: "I giovani spesso mi domandano con quale criterio scelgo le cose che fotografo. La mia risposta è che io non scelgo. Sono le cose che scelgono me. Ad esempio, ho sempre fotografato porte e finestre. Perché? Perché mi affascinano. lo non ho finalità estetizzanti. Ho a disposizione dei mezzi estetici che mi servono per dire quello che voglio dire sulle cose che vedo. E quello che vedo è sempre al di fuori di me e non tento di descrivere un mio stato interiore".
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