CONFRONTI poli di Atene spruzzata di neve c'era un'altra turista soltanto: una ragazza greca di Sydney. Risalirono l'Italia, e dormirono insieme.· A Parigi decisero di sposarsi" (Le vie dei Canti, p. 11). Gli elementi incongrui sono qui l'Acropoli spruzzata di neve e la ragazza che è insieme greca e australiana. Auna geografia che si è spogliata delle attrattive che appagano il turista (I' Acropoli, simbolo di una Grecia solare e arida, è innevata) fa da contrappunto un'identità ibrida, in cui si può appartenere contemporaneamente a due o più nazioni. Ancor più significativo è però un altro brano tratto dallo stesso libro dove ognuna delle microstorie tratteggiate non ha niente di steorotipato. Al viaggio ordinato del turista si contrappone il "vagabondaggio innamorato degli orizzonti", a una geografia del mondo rigida e scontata il disordine della morte e della dispersione delle ossa: "Gli uomini della famiglia di mio padre erano o cittadini benestanti e sedentari - avvocati, architetti, antiquari - o vaga- . bondi innamorati dell'orizzonte, che avevano sparso le loro ossa in ogni angolo del globo: il cugino Charlie in Patagonia; zio Victor in un campo di cercatori d'oro dello Yukon; zio Robert in un porto d'Oriente; e poi zio Desmond, dai lunghi capelli biondi, che era scomparso a Parigi senza lasciar traccia; e zio Walter che era morto al Cairo in un ospizio per santoni cantando le sura del Glorioso Corano" (Le vie dei Canti, p. 17). Chatwin è un convinto sostenitore della necessità del nomadismo, fisico e culturale, del viaggio come mezzo di conoscenza e di salute del corpo. Sembra paradossale e perfino di cattivo gusto parlare di salute del corpo aproposito del viaggio dato che Chatwin è morto, secondo la versione ufficiale, di "una malattia contratta nel corso di uno dei suoi viaggi", anche se si è parlato di Aids, ma è lo stesso Chatwin in Le vie dei Canti a raccontare di come la passione per i viaggi lo aveva guarito dalla perdita della vista quando a vent'anni lavorava come esperto di pittura per una casa d' aste: "Un mattino mi svegliai cieco.L'occhio sinistro riacquistò la vista il giorno stesso, ma il destro rimase inattivo e offuscato. L'oculista che mi visitò disse che non c'era nulla di organico e diagnosticò la natura del disturbo. 'Hai guardato i quadri troppo da vicino. Perché non li sostituisci con vasti orizzonti?' (... ) Andai nel Sudan. Quando arrivai all'aeroporto gli occhi erano già guariti" (Le vie dei Canti, p. 30). Ma il viaggio, come Chatwin sapeva perfettamente, è una fonte continua di pericoli per il corpo e per la mente, "un frammento di Inferno", secondo un detto attribuito a Maometto, che se ridà la salute al corpo, richiede comunque un prezzo molto alto, pone costantemente il viaggiatore di fronte alla morte, è un "esaltante vagabondaggio" nel quale la propria esistenza viene messa in gioco: "Nell'estate del 1986 terminai il mio libro Le vie dei Canti in condizioni molto difficili. Durante un viaggio in Cina, infatti, mi ero buscato un rarissimo fungo del midollo spinale. Convinto di dover morire, decisi di finire il testo e di mettermi nelle mani dei dottori" (Che ci faccio qui?, p. 86). E il viaggio è anche una mania che rende schiavi: alla fine di Il viceré di Ouidah, il protagonista Francisco Manoel muore proprio perché gli è ormai impossibile viaggiare e tornare in Brasile, perché non può più soddisfare la sua ansi.:\di viaggiare, di spostarsi, di cercare, in modo disordinato e inutile, una conoscenza che sia istintiva e totale. Se però in Le vie dei Canti e in In Patagonia il viaggio è indubbiamente positivo, seppure rischioso, in Utzil viaggio del protagonista in Francia nega tutte le sue aspettative che egli inizialmente aveva: "Che schifo ( ... ) Non è possibile che io resti qui" conclude Utz (Utz, p. 75). Il viaggio è qui una discesa in un mondo volgare, noioso, che restituisce vita e colore alla grigia vita di Utz in patria .. E in modo ancor più evidente, la storia della vita dei due fratelli gallesi di Sulla collina nera si svolge lungo un percorso che è soltanto temporale e non spaziale, dato che non ci si sposta mai dalla fattoria incui i due vivonodi più di qualche miglio. Sulla collina nera è un romanzo inizialmente claustrofobico che a poco a poco si allarga e diventa immenso, non perché il microcosmo dei due fratelli gallesi diventa simbolo di un macrocosmo o assume valenze universali ma piuttosto perché, una volta che ci si è immersi in quelle due esistenze, si assume la loro prospettiva e il loro mondo diventa tutto il mondo mentre la visita a una città vicina è più affascinante e coinvolgente di un viaggio in terre lontane. Qui Chatwin sembra ricordare il poeta irlandese Patrick Kavanagh che aveva scritto in una sua poesia: "Sono vissuto in luoghi importanti, in tempi / in cui sono stati decisi grandi eventi, di chi era / quel mezzo metro di terra pietrosa ( ... ) Era l'anno del complotto di Monaco. I Cos'era più importante? Stavo per perdere la fede in Ballyrush e in Gortin quando / il fantasma di Omero venne a sussurrarmi nella mente/ dicendo: l'Iliade l'ho scritta/ con queste liti locali.Gli dei l'hanno rese importanti". La posizione ambiv~ente di Chatwin nei confronti del viaggio non è quindi una contraddizione ma un segno della complessità del problema: il viaggio, di per sé, può non portare a nulla ma è l'atteggiamento nomadico e aperto ad avere importanza. E perché un viaggio sia importante, pur se nomadico deve avere un centro, un punto da cui partire e a cui tornare. Per Chatwin il centro del viaggio resta comunqu·e la cultura occidentale, nonostante le sue dichiarazioni a volte sprezzanti nei suoi confronti, a patto però che essa sia pronta ad aprirsi a culture diverse: sono sintomatici a questo proposito le immagini di libri che compaiono rapidamente in Le vie dei Canti (un testo di Nietzsche sul comodino di un vecchio aborigeno o la Ricerca di Proust nell'edizione della Pléiade in mano a un barista di Cullen) così come l'immagine di una donna bianca in un campo di aborigeni che viene paragonata a "una Madonna di Piero della Francesca" (Le vie dei Canti, p. 139). Ma la cultura di Chatwin non si nutre solo di tradizioni alte: alla fine di Che cifaccio qui?, parlando del suo stile, Chatwin cita, senza · nominarlo ma definendolo semplicemente "il Maestro", lo scrittore Noel Coward, commediografo più che mai leggero e frivolo. Oltre a un tocco di dandysmo in questa sua scelta, l'indicazione di Chatwin ci permette di cogliere un altro elemento determinante in Chatwirt, ovvero il ruolo che ha nella sua narrativa il mondo dell'infanzia: "Hanno paragonato il mio stile a quello di Hemingway e Lawrence (D.H., grazie aDio, non T.E.). Sì, sono loro i miei scrittori preferiti. Per i brani più spogli ho anche studiato a fondo Hedda Gabler. Ma io ero un ragazzino che a otto anni cantava The Stately Homes of England [titolo di una canzone tratta da una commedia di Coward, come anche i due titoli seguenti] con l'accompagnamento di ungrammofono amanovella. Cantavo Mad dogs and Englishmen in falsetto; dopo la pubertà, avendo qualche ormone maschile in più, non riuscivo a gorgheggiare Dig ... arig ... arig ... arig ... arig ... adoo" (Che ci faccio qui?, pp. 439-440). Questo richiamo all'infanzia che segna in modo definitivo la sua vita successiva di scrittore ·sipuò collegare a quei brani in cui i protagonisti dei suoi romanzi narrati in prima persona (e quindi alter ego più o meno fedeli dell'autore) spiegano i motivi che li spingono a intraprendere un viaggio, quasi sempre legati a ricordi d'infanzia. In In Patagonia il protagonista parte alla ricerca dell'animale a cui appartiene un pezzettino di pelle che si trovava, quando lui èra bambino, nella camera della nonna, spedito da un parente che aveva trovato l'animale racchiuso nel ghiaccio in Patagonia. Anche in Le vie dei Canti, a spingere il narratore verso l'Australia sono i ricordi d'infanzia: "Da bambino non potevo sentire la parola 'Australia' senza che mi venissero in mente i vapori delle inalazioni all'eucalipto e un paese di un rosso interminabile tutto popolato da pecore" (Le vie dei Canti, p. 15). Era questa infanzia felice, forse, il vero mondo perduto di Chatwin, non tanto quello multirazziale e sradicato che lo circondava, che con tutte le sue contraddizioni egli amò, descrisse e attraversò finché poté con la discreta passione di un nomade e mai con l'arroganza e la noia di un turista.
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