Linea d'ombra - anno IX - n. 64 - ottobre 1991

CONFRONTI passaggio (più che di produzione) del linguaggio. Le parole gli passano per le mani come testo altrui da riprodurre, e per quanto gli riguarda sono senza provenienza né destinazione, senza movente né attesa. "Lo scritto è l'idealità astratta del linguaggio" (Gadamer): in forza della sua esperienza di scritti, Bartleby assiste al transito del linguaggio come aun'entità estranea che si installa nei parlanti colonizzandoli. Prima di venire impiegato nello studio dell'avvocato, Bartleby ha lavorato in un ufficio postale di lettere smarrite, dead letters, lettere morte, dove la comunicazione va alla deriva e il linguaggio non raggiunge più il destinatario, fallisce il contatto, smette di essere scambiato, barattato. Bartleby destituisce il nome che designa il suo destino di parlante (to barter, barattare13),si ritrae al di qua della parola à cui, più che a qualsiasi altra parola, è chiamato ad appartenere: l'intimità dello scrivano col suo nome proprio si spezza in un'estrinsecità ,1ssoluta. Per il fatto stesso di nominarlo, il linguaggio grava su di lui con tutta la sua ipoteca: ·ma Bartleby preferirebbe non barattare, e il suo indugio terminale nel mercato dei segni annuncia l'estinzione di ogni scambio di parole, finché Bartleby muore al linguaggio. Dopo la lunga serie di vocativi rivoltigli nel corso del racconto, le ultime parole dell'avvocato non possono più convocare il suo scrivano al dialogo, ma soltanto esclamarlo sullo sfondo della comunità dei mortali, nell'orizzonte dei parlanti: 2) E.M. Forster, Aspetti del romanz.o, Garzanti 1991, p. 97. 3) In "Linea d'ombra", n. 7, dicembre 1984. 4) M. Kundera, L'arte del romanza, Adelphi 1988. 5) In "Leggere", n. 28, febbraio 1991. "Ah, Bartleby! ah, umanità!". Intanto, lungo la via che costeggia il silenzio, nella strada del muro (Wall Street), continuano a risuonare il comando e la domanda del narratore, incessantemente sconfitti, ma non per questo meno necessari: "raccontati!" e "chi posso raccontare?". Ancor prima della storia, del che cosa raccontare, la questione riguarda chi raccontare. Ciò che chiamiamo storia è il resoconto del desiderio, tanto indispensabile quanto perplesso, di raccontare qualcuno. 6) Henri Michaux, Trave angolare, p. 93, supplemento a "In forma di parole", IX, 1, gennaiomarzo 1988. · 7) Oliver Sacks, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi 1986, p. 130. 8) Giacomo Debenedetti, cit., nel saggio Personaggi e destino, p. 127. 9) Ora sappiamo anche che Calvino aveva rinunciato a pubblicare Bartleby nella collana "Centopagine", perché "troppo corto" (/ libri degli altri Einaudi 1991, p. 592). 10) In corso di riedizione negli Oscar. Note 1) Nathalie Sarraute, Valéry e l'elefantino! Flaubert i/precursore, Einaudi 1988,p. 74.Nello stesso anno in cui la Sariaute scriveva queste righe su Flaubert (1965), Giacomo Debenedetti si occupava delle sorti dei personaggi in Com- • memorazione provvisoria del perso-naggiouomo (in Il personaggio-uomo, Garzanti 1988). 11) Nella nuova collana "I Classici" dell'Universale Economica Feltrinelli. 12) Giorgio Agamben, La comunità che viene, Einaudi 1990, pp. 25-27. 13)In Baratto di Gianni Celati c'è un personaggio che rimane senza pensieri e vive da muto per un lungo periodo (Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli 1989). Bruce ·Chatwin: la discreta passione del nomade Gino Scatasta Bruce Chatwin, nato a Sheffield (Gran Bretagna) nel 1940 e morto a Nizza il 18 gennaio 1989, a dispetto delle apparenze non è uno scrittore facile. Non tanto per il suo stile, che i critici hanno definito "barocco" e che per lo stesso Chatwin è invece "spoglio e cesellato", quanto piuttosto per il carattere stesso dei suoi libri e per l'atteggiamento che ne è alla base. Chatwin può sembrare uno dei tanti scrittori-viaggiatori sopravvissuti alla morte del viaggio, nostalgici del bel lempo andato, che si aggirano per il mondo scuotendo tristemente il capo per trovare conferme che le cose non sono più quelle di una volta. Si può riconoscergli certamente uno stile di scrittura e di vita non comuni, si deve ammettere che i suoi lamenti sul mondo scomparso sono appassionati e a volte perfino disperati, ma è legittimo avanzare il sospetto che per Chatwin il mondo che è andato perduto (quello in cui ognuno se ne stava a casa propria, attaccato alla propria terra, tranne gli schiavisti, i soldati, i colonialisti e i ricchi viaggiatori) era il mondo ideale e quello odierno, multirazziale, è un mondo degradato. Niente di nuovo, allora, tranne uno stile che a volte potrebbe riscattare un pensiero neanche troppo nascosto, che non è politico ma romantico, come nelle pagine dedicate all'Afghanistan scritte nel 1980 e ripubblicate nel volume Che ci faccio qui? (1989, traduzione italiana, Adelphi 1990): "Ma quel giorno [quello in cui gli afghani si vendicheranno dei loro invasori] non riporterà le cose che abbiamo amato: le immense giornate limpide e le azzurre calotte di ghiaccio sui monti; i filari di pioppi bianchi che tremolavano al vento, e le lunghe e candide bandiere da preghiere (. .. ) Non leggeremo le memorie di Babur nel suo giardino di lstalif né vedremo il cieco avanzare fra i cespugli di rose facendosi guidare dall'olfatto" ( che cifaccio qui?, pp. 355-356) e così via a testimoniare una perdita che -- non è solo culturale, ma anche fisica; che affligge i sensi così come la mente. Anche in In Patagonia, il primo romanzo scritto da Chatwin nel 1977 (traduzione italiana Milano, Adelphi, 1982, la traduzione è nostra), la visione di un mondo che è irrimediabilmente perduto torna prepotente davanti agli occhi del narratore, questa volta con una connotazione razziale innegabile: Nonno Felipe, "il solo purosangue rimasto", si guadagna da vivere costruendo canoe per i turisti. Ma in questo mondo che è ormai oltre la degradazione perfino i turisti stanno scomparendo: "Ai vecchi tempi i padri facevano le canoe per i figli. Ora non c'erano più figli e solo pochissimi turisti" (In Patagonia pp. 125-126). E la terra stessa della Patagonia a essere mutata, i suoi paesaggi sono innaturali, gÌi animali scompaiono mentre dominano la plastica e il cemento: i pinguini morti "disseminati lungo una spiaggia grigia" sono contrapposti a quelli molto più Jongevi, di plastica verde, che fungono da brocche per il vino. Ugualmente estranèi alla propria terra e a quella dei propri padri sono gli aborigeni australiani di cui Chatwin parla in Le v_iedei Canti (1987, traduzione italiana Milano, Adelphi,.1988, Le vie dei canti). Se in In Patagonia era il paesaggio a essere mutato, qui è la geografia stessa ad essere stravolta: gli aborigeni non possono più percorrerla seguendo quelle Vie dei Canti che erano loro familiari ma devono usare strade o ferrovie che attraversàno i loro luoghi sacri. È questo però il tratto distintivo di Chatwin? Siamo davvero di fronte a ~n viaggiatore alla ricerca delle ultime tracce di una tradizione pura ormai perduta in un mondo materialista e degradato? Non è esattamente così, anzi non è affatto così. Chatwin, come si diceva, è uno scrittore complesso ed è necessario porsi questi dubbi per poter cogliere la sua originalità, il suo carattere distintivo che non è la nostalgia di un mondo perduto, né lo spaesamento del viaggiatore di fronte a una realtà che non comprende quanto piuttosto l'ibridazione e lo scambio. Ci sono due passi fondamentali a questo proposito, il primo tratto da Le vie dei Canti e l'altro

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