Linea d'ombra - anno IX - n. 64 - ottobre 1991

CONFRONTI illustrazione da parte del!' autore. Ed è la fiducia, insomma, di chi pensa che il suo destinatario reale sia in grado di procedere con le proprie gambe nella direzione indicatagli; in fondo, viene da credere, il ruolo del critico e quello del lettore sono meramente temporanei e convenzionali, e potrebbero in teoria invertirsi restando però strutturalmente identici. Entrambi i soggetti infatti appartengono - e lo sanno - alla medesima comunità interpretativa. Ora, nell'odierna situazione italiana sembra essere del tutto assente un orizzonte di attesa così configurato. Certo, nel nostro secolo non sono mancate da noi le condizioni favorevoli a un colloquio non conflittuale e autentico tra il criti-co e il suo pubblico: penso a esperienze come quelle delle riviste fiorentine d'inizio secolo ("La voce" e "Lacerba", in particolar modo, che infatti hanno prodotto uno 'stile', tanto letterario quanto editoriale), ma anche e forse soprattutto alla stagione dell'ermetismo (pure questo fiorentino). Non è infatti un caso, a mio avviso, che il gergo critico più universalmente amato e praticato in Italia (oggi soprattutto negli ambienti accademici) sia quello che il giovanissimo Contini inaugurò in quel contesto, sul finire degli anni Trenta. Il tanto deprecato continismo - che senza dubbio è anche sinonimo di altezzosità espressiva al limite del barocco, ma che in origine rifletteva innanzi tutto intenti di rigore e di acribia - è insomma omologo a una comunità interpretativa elitaria e chiusa, che può permettersi di confondere la critica con l'arte, sapendo bene che chi è destinato a intendere intenderà alla perfezione, e saprà rispondere negli stessi termini al discorso che gli si rivolge. Che poi il continismo si si.adegradato a maniera proprio negli ambienti accademici, è cosa che non deve stupire: la ricerca ufficiale ha il compito istituzionale - come si sa - di perseguire una verità il più possibile 'scientifica', cioè a dire rigorosa e falsificabile, che non ha alcun obbligo di ecumenismo, e anzi proprio nella sua separatezza cerca una protezione alle spinte dissolutive provenienti dal modo esterno. In breve: se oggi in Italia individuiamo una forbice tra specialismo e giornalismo, tra linguaggio cifrato dell'accademia (impegnata a seguire i mille rivoli talvolta senza sbocco della ricerca pura) e linguaggio sciattamente reificato del recensore da quotidiano (il quale lavora in fretta ed è talvolta pressato da esigenze non proprio nobilissime), tutto ciò avviene anche perché non esiste quel pubblico di lettori-critici che potrebbe accogliere una vera alternativa all'esistente. Non mi sembra del resto casuale che alcuni dei tentativi che in qualche modo cercano di superare tale contraddizione rischino di non essere capiti, o di essere capiti in modo molto parziale. Questa, per lo meno, l'impressione che ho avuto leggendo un paio di recensioni a Tra il libro e la vita di Berardinelli, recensioni che mi restituivano un'immagine fantasmatica del volume quale io l'avevo esperito, che ne strumentalizzavano in modo indebito alcuni aspetti con ogni evidenza accessori, che insomma avevano il preciso ruolo di occultare i veri motivi per cui quell'opera (sempre secondo me) doveva essere letta. La sensazione dunque, è che chi non abbia condiviso almeno alcune delle esperienze o idee politiche che, direttamente o indirettamente, motivano parecchi dei giudizi contenuti in La vita e il libro, non sia affatto in grado di capirne il senso e il valore. Abbandonate le norme del giornalismo e del- !' accademismo più tradizionale, i codici del mittente e quelli del destinatario si intersecano solo parzialmente, e la comunicazione diventa assai ardua. La stessa cosa direi per altri volumi di critica (penso soprattutto agli scritti di Fortini e Cases) in cui una passione di specie politica si accompagna a una scrittura non convenzionale, spesso ai limiti della composizione letteraria vera e propria. Ovviamente, è vero anche il fenomeno reciproco, e infatti personalmente finisco per non sentirmi in grado di comprendere sino in fondo certi tipi di narrazione critica: come quella per esempio prodotta da un Garbo li, i cui giochi narcisistici non riescono a entusiasmarmi, talvolta anzi mi annoiano ferocemente, e in definitiva mi comunicano ben poche idee (per svariate ragioni, senza dubbio; la prima, forse, è che non condivido la sua fiducia nell'utilità dell'astrologia ai fini di una soddisfacente caratterizzazione letteraria ...). Mentre trovo ormai del tutto insopportabile un certo gergo postmoderno, tanto confuso quanto anemico e irresponsabile, che pretenderebbe di farmi amare alla follia tutta la spazzatura culturale nordamericana, tutti quei prodotti mediali che le sapienti mani di un critico-prestigiatore riescano magicamente a trasformare in oggetto di culto per un pubblico sempre più disorientato. (E così - per essere chiari - il "quotidiano comunista", che tutti i giorni leggo, nell'anno in corso ha dedicato a Twin Peaks o al genere horror uno spazio 30-40 volte superiore a quello offerto, poniamo, all'ultimo romanzo di Volponi o al ricordo di Graham Greene). E tutto ciò non è per caso. Se ritorniamo ai nostri Forster e Wilson, ci accorgiamo subito che entrambi disprezzano cordialmente ogni narrazione di consumo, e anzi la escludono recisamente dall'orizzonte dei propri interessi culturali; mentre, e questo invece ci colpisce positivamente, non sembrano essere affetti da quell'ossessione dell'avanguardia che in Italia affligge soprattutto chi l'avanguardia non ama. Entrambi, infatti, trattano il romanziere più difficile del nostro secolo con la massima naturalezza, la stessa che concedono a un qualsiasi Scotto Dickens; anzi, la lettura della Ferita e l'arco sarebbe consigliabile anche solo per la presenza del saggio consacrato a Finnegans Wake, autentico capolavoro di acume critico, di chiarezza interpretativa e di equilibrio valutativo. Forster e Wilson, insomma, hanno di fronte a sé un universo letterario unificato (forse in modo illusorio, e a prezzo di parecchie esclusioni), a cui appunto corrisponde un pubblico altrettanto compa~to e omogeneo. Chiedersi per, ché per noi, italiani degli anni Novanta del ventesimo secolo, le cose non vadano così, perché la nostra percezione dei fenomeni artistici sia assai più dispersiva e frantumata, incapace di costituire delle gerarchie di valore accettabili anche da parte di qualche lettore estraneo alla cerchia dei nostri amici, è però un problema che evidentemente non interessa solo il critico letterario.

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