OTTOBRE1991 · NUMERO64 LIRE9.000 I immagini, discussioni e spettacolo SPED.IN ABB. POSTALEGR. 111-70%.VIA GAFFURIO 4. 20124 MILANO
NOVITA' AUTUNNO 1991 Bohumil Hrabal L'uragano di novembre "Queste storie entusiasmano e coinvolgono: rievocazioni, confessioni, confidenze totali all'amica americana Aprilina, scritte nel clima tumultuoso e fervente di quel 1989, anno miracoloso per la Cecoslovacchia come per gli altri paesi dell'Est europeo: un uomo di settantacinque anni, col carico d'una vita vissuta fortemente e intensamente, che ha 'raggiunto lo stato d'inquietudine finale', apre a scroscio la sua anima in una splendida febbre creativa che dà alla sua prosa toni e bagliori apocalittici e boreali, che apre orizzonti smisurati e comunica al lettore una tensione che dura dalla prima all'ultima pagina". (Mario Picchi, La Repubblica) pp. 220, L. 25.000 edizionie/o Mordecai Richler Scegli il tuo nemico Richler è uno degli autori più importanti della letteratura canadese. Questo suo romanzo, il primo a essere tradotto in italiano, è del 1957 ed è ormai un classico in Canada. Il mondo dei registi, sceneggiatori e produttori nordamericani rifugiatisi a Londra negli anni Cinquanta per sfuggire alla caccia alle streghe maccartista, è teatro di drammi politici e personali e furiosi regolamenti di conti. Un romanzo feroce e sarcastico che non risparmia nessuno e che anticipa straordinariamente il vuoto politico e morale della nostra epoca. pp. 240, L. 27.000 Ulrich Peltzer Peccati di pigrizia Un giallo avvincente. In una Berlino, santuario delle "avanguardie", notturna e decadente, due ex compagni di scuola, un disk-jockej cocainomane e uno yuppie di serie B, tentano la "svolta" di un furto di quadri e finiscono coinvolti in un giro troppo grosso di droga e di spionaggio internazionale. pp. 250, L. 26.000 Marlen Haushofer Un cielo senza fine Dopo il successo della Parete, questo è il secondo romanzo dell'autrice tedesca che viene tradotto in italiano, e conferma la Haushofer come una delle più memorabili scrittrici del dopoguerra. In questa storia di una bambina, Marlen Haushofer ricostruisce l'intensità, l'assolutezza di sentimenti infantili con abbagliante vividezza. Paure notturne, gelosie, tradimenti, rapporti con la mamma e il papà, con gli adulti e con gli animali: tutte le esperienze formative vengono raccontate con insuperabile profondità. pp. 170, L. 24.000 ~ TASCABILI e,o Bohumil Hrabal Ho servito il re d'Inghilterra Il capolavoro comico, tragico ed erotico del massimo autore ceco. pp. 240, L. 14.000 Ivan Turgenev Racconti fantastici Una scelta di racconti del mistero del grande narratore russo. pp. 160, L. 10.000 Ai lettori di "Linea d'ombra" offriamo in omaggio il volumetto tascabile Dall'est per ogni acquisto di almeno 70.000 lire. Edizioni E/O - Via Camozzi 1 00195 Roma - Tel. 06-3722829
Undici buoni motivi per andare in libreria Nico Naldini, De Pisis. Vita solitaria di un poeta pittore. Attraverso i ricordi e le annotazioni degli amici, le lettere, i diari, le poesie, la storia di un personaggio continuamente ai limiti della propria sensibilità, tra i più inattesi nel panorama delle arti contemporanee in Europa. Gli struzzi, pp. 299, L. 28.000. Giovanni Miccoli, Francesco d'Assisi. Realtà e memoria di un'esperienza cristiana. La figura e la vicenda storica di Francesco al centro di un'in- .dagine di ancor viva attualità, che rintraccia i nessi tra l'originaria esperienza religiosa e le modalità in ·cui venne tradotta nella memoria storica. Paperbacks, pp. XIV-328, L. 35.000. Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918~1926. Le lettere di una vita· breve ma intensa diventano lo specchio della Torino intellettuale dei primi anni Venti, oltre che di una splendida vicenda umana. 294 lettere raccontano la storia di un amore profondo fondato su una comune passione politica. A cura di E A. Perona. NUE, pp. LV-721, L. 65.000. Elfriede Jelinek, La pianista. Una pianista non più giovane vive un tormentato rapporto con la tirannica madre. La tragedia diventa catastrofe sadomàsochista quando Erika cercherà di legarsi a un uomo. Traduzione di Rossana Sarchi~lli. Supercoralli, pp. 320, L. 32.000. Lalla Romano, Le lune di Hvar. Quattro estati in Dalmazia. Una donna e un uomo diversi per età ma uniti da un sottile stato di grazia. Dal dia: rio di una grande scrittrice, frammenti di coscienza, semplici appunti che si fanno memoria allo stato puro. Supercoralli, pp. 128, L. 22.000. lzrail' M. Metter, Il quinto angolo. Lo stile lirico di Metter rievoca, tra ironia e commozione, l'esistenza di un uomo superfluo. Una novella della memoria, scritta più di venti anni fa e pubblicata solo all'inizio dell'89 per ragioni politiche. A cura di Anna Raffetto. Nuovi Coralli, pp. 216, L. 22.000 .. Francis Jennings, L'invasione · deU' America. Indiani, coloni e miti della Conquista. Una nuova interpretazione della conquista dell'America che rovescia le"verità storiche" teorizzate fino ad oggi. Traduzione di Marco Pustianaz. Biblioteca di cultura storica, pp. XVIII-440, L. 68.000. Amedeo Poggi • Edgard Vallora, Mozart. Signori il catalogo è questo! Tutte le opere di Mozart nel Catalogo K, più le opere perdute e i frammenti, , sono state raccolte e raccon- . tate da due non specialisti. Uno studio dedicato agli amanti della musica e ai musicisti di professione. Gli struzzi, pp. 784, L. 48.000. EINAUDI Seimila titoli per l'Italia che legge •Henry Jame~, Rac_5onti italiani. Henry James narra l'Italia con nove racconti scritti tra il 1870 e il 1900. Un viaggio singolare tra splendori notturni,· incontri crepuscolari e insoliti entusiasmi per i freschi paesaggi alpini. Traduzione di Maria Luisa Castellani. Agosti, Maurizio Ascari, Susanna Basso e Carla Pomaré. Note ai testi di Maurizio Ascari. f millenni, pp. XXXVI-400, L. 65.000. Gilbert Dagron, Costantinopoli. Nascita di una capitale (330-451). Costantinopoli, fondata per ricordare al mondo le vittorie dell'imperatore Costantino, diventa l'unica vera rivale di Roma, e la prima grande città del Medioevo. Un capitolo fondamentale della storia esplorato con minuzia calligrafica e insieme con grande passione. Traduzione di Aldo Serafini. Biblioteca di cultura storica, pp. 600, L. 100.000 .. Lettere da Kharkov, La carestia in Ucraina e nel Caucaso del Nord nei rapporti dei diplomatici italiani 1932-33. A cura di Andrea Graziosi. Tra il 1923 e il 1933 le popolazioni dell'Ucraina e del Caucaso vissero dieci anni di carestia. L'Occidente conobbe la verità solo nel dopoguerra attraverso le memorie di Kravcenco. Oggi, Andrea Graziosi propone una lettura di quegli eventi da una fonte ufficiale: i rapporti dei diplomatici italiani. Gli ·struzzi, pp. VIl-56, L. 24.000.
Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lerner, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Siaibaldi. Collaboratori: Adelina Aletti, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Stefano Bençi, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Paolo Bertinetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Giacomo Borella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Cesare Cases, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Cottinelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Roberto Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco, Guido Franzinetti, Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Roberto Gatti, Filippo Gentilòni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti S.erra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Maderna, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari-,Edoarda Masi, Roberta Mazzanti, Roberto Menin, Paolo Mereghetti, Diego Mormorio, Ma,ia Nacjotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Luisa Orelli,. Maria Teresa Orsi, P.iaPera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giu_lianoPontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Fabrizia Ramondino, Michele Ranchetti, Marco Revelli, Marco Restelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scarnecchia, Domenico Scarpa, Maria Schiavo, Franco Serra, Joaquin Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, TulLioVinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progetto grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche redazionali: Alberto Cristofori, Natali a Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Hanno contribuito alla preparazione di questo numero: FrancescoCardini, Guido Danti, LucianaDini, Michele· Neri, le agenzie fotograficheContrastodi Roma e Grazia neri di Milano, la casa editrice Mondadorie le Edizioni Paoline,il Centro Studi e Ricerche in MedicinaGenerale (CS e RMEG)di Verona, la Libreria Popolaredi Via Tadino a Milano, la rivista spagnola "Archipelago". Editore: Linea d'ombra Edizioni srl Via Gaffurio 4 - 20124 Milano Tel. 02/6691132. Fax: 6691299 Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie PDE - Viale Manfredo Fanti 91 50137 Firenze -Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini 6 Buccinasco (Ml)- Tel. 02/4473146 Pellicole: Grafotitoli - Sesto S. Giovanni (Ml) LINEA D'OMBRA - Mensile di storie, immagini, discussioni. Iscritta al tribunale di Milano in d<1ta18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi . Sped. Abb. Post. Gruppo IIl/70% Numero 64 - Lire 9.000 I manoscritti non vengono restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei testi di cui non siamo stati in grado di rinrracciare gli aventi diritto, ci dichiariamo pronti a ottemperare agli obblighi relativi. UNIID'OMBRA anno IX ottobre 1991 numero 64 4 6 8 11 15 17 20 25 27 29 o Marcello Flores Marino Sinibaldi Piergiorgio Ghiacché Alain Brossat Mimmo Lombezzi Dietrich Bonhoeffer Sandro Vesce CONFRONTI Paolo Giovannetti Tiziano Scarpa Gino Scatasta La sinistra italiana e l'Urss. Una brutta storia Lo specchio sovietico La disfatta e il rancore Ma che cosa è stata la Russia per noi? Tre giorni senza Michail Sergeevig L'altare di Vukovar. Diario di guerra dalla Croazia Della stupidità. Un bilancio dopo dieci anni di nazismo I bianchi, i neri è il bambino morto di Mtoko Critica per chi? Su due libri di Forster e Wilson Quel caro Bartleby. Sul ritorno dei personaggi Bruce Chatwin: la di.screta passione del nomade e D. Mormorio su Koudelka e Strand, due maestri della fotografia (a p. 33), F. Varese dal Festival di Venezia(a p. 35),M. Lorrai suJohn Cage,Milano77 (ap. 37),M. CiaravolosuHjalmarSoderberg (a p. 39) A. Cristo/ori su un'antologia di giovani scrittori italiani (a p. 41). Gli autori di questo numero (a p. 79) IA Dmitri Prigov Il campo di Kulikovo a cura di Pia Pera · 45 Vjaceslav P'ecuch lo e l'aldilà 61 Beryl Bainbridge O' Malley tuttofare 64 Fay Weldon Threnody 71 Hanif Kureishi Nina e Nadia (prima parte) IN 52 Paul Ricoeur L'identità narrativa a cura di F'aola Sara Battistioli 49 Viktor Erofeev Irina corre nuda a cura di Pia Pera 56 Davidlodge È proprio piccolo il mondo a cura di Maria Luisa Bignami - 59 Ken Follett Giallista e laburista a cura di Brian Morton LATIIUIAVISTADALLALUNA Medici e pazienti: F. Benintasa, S. Bemabè, M. Marchetto, M. Mattei, Il malato immaginato (a p. 2); Paolo Bartoli, Salute e malattia nelle idee del medico e del paziente (a p. 7); Daniele Coen, Vitamina mon amour (a p. 11). Con una nota introduttiva di Giorgio Bert. Legge e minori: G. Turri, C. Canziani, M. Zugaro, M. Flores, Maledetti giudici. Sui diritti del bambino ( a p. 14). Sacerdoti e fedeli: Piergiorgio Giacché, Un peso e una misura.Un'indagine sociologica sulla chiesa in Italia (a p. 19). ·Esperienze di "lavoro politico": Il Gruppo Simone Weil (a p. 23); MauroMoruzzi e Giovanni Mottura, Gli immigrati a Bologna. Una polemica (a p. 26). Punti di riferimento: Antonio Machado, Juan de Mairena, strano pedagogo (a p. 28). La copertina di questo numero è di Franco Matticchio. · Le foto che illustrano il supplemento sono di J.C. Bourcart (Rapho/G. Neri). Abbonamento annuale (1 L numeri): ITALIA L. 75.000, a mezzo assegno bancario o c/c. postale n. 54140207 intestato a Linea d'ombra. ESTERO L. 90.000.
IL CONTESTO La sinistra italiana e l'Urss Una bruHa storia Lospecchiosovietico Marcello Flores Ancora una volta gli avvenimenti sovietici hanno evidenziato come l'opinione pubblica italiana, e in particolare quella di sinistra, non riesca a volare più alto di un palmo da terra anche in occasione di eventi che scuotono il mondo. Da un punto di vista sociologico e psicologico, a dir la verità, sarebbe più interessante ricostruire i giudizi e gli atteggiamenti degli opinionisti conservatori, che amano in genere autoraffigurarsi come dei tolleranti illuministi, temperati nelle valutazioni e distaccati nelle argomentazioni. In realtà essi si comportano come dei rozzi piazzisti di se stessi, disinteressati a ciò di cui parlano e preoccupati soprattutto di alzare polvere e aizzare polemiche. Su che cosa? Sui massimi sistemi, sulle grandi idee e sui valori sommi, da filosofi della domenica quali tutti gli italiani aspirano ad essere (alla stessa stregua di allenatori calcistici). I nostri filosofi, però, hanno una strana esperienza che è comune al 90% di loro: sono tutti stati comunisti, ed anche abbastanza influenti; ora che sono anticomunisti sono ancora più influenti (perlomeno sul mercato dei media). Non vorrei sbagliarmi, ma la stragrande maggioranza di chi ha scritto a proposito degli avvenimenti sovietici sui tre grandi quotidiani nazionali ("La Repubblica", "Il Corriere della Sera", "La Stampa") è stato in passato comunista e iscritto al Pci. Gli altri - con la lodevole eccezione di qualche corrispondente e di un opinionista anomalo come il nostro ex-ambasciatore Sergio Romano - hanno perso l'occasione per potersi distinguere. Il "credo" del passato, e cioè il togliattismo, si è coniugato col "credo" del presente, una sorta di crocianesimo da liceo, di liberalismo mutuato dal Bignami. Tra questi due "credi", del resto, anche nelle versioni alte, c'è sempre stato un legame tutt'altro che estemporaneo, dello stesso tipo di quello che correva tra il nostro miglior filosofo e il nostro politico più realista. La storia, per costoro, è solo o soprattutto storia delle idee, essendo queste ultime a stabilire il corso che prenderà il mondo, nel benè e nel male. Che interessi esistano ci viene ricordato solo per svillaneggiare chi ha ancora qualche rigurgito di utopismo, rammentandoci che l'Uomo è cinico ed egoista per natura. Per il resto è Libertà che ha forgiato la storia degli ultimi due secoli e che trionfa sullo scorcio di questo millennio, malgrado il lungo e tenebroso tentativo messo in atto da Comunismo per opprimerla ed ucciderla per sempre. Le fiabe, ricordava Propp, hanno elementi compositivi che si fondano nella storia lunga delle società umane. -L'appiattimento totale della storia e dell'esperienza di un paese sulla sua ideologia dominante coincide con l'appiattimento dell'ideologia stessa, che viene selezionata e manipolata, di cui si ignorano le scansioni temporali e le varianti storiche. Non c'è da stare allegri a pensare che questo, in fondo, è "il" modo con cui ci si rappresenta anche la realtà d'oggi. Se poi questa schiera agguerrita si ostina a voler trovare nell'azione di Lenin la causa di tutto quanto è successo per settant'anni, dimenticando però di dirci come mai militava nel Pci negli anni Cinquanta o addirittura negli anni Trenta, si può comprendere lo scatto d'ira di qualcuno: il tradimento va bene, ma l'irrisione ... Molto più preoccupante, tuttavia, per chi ha a cuore le sorti di una sinistra che deve necessariamente rifondarsi, è stato l'atteg·- giamento degli intellettuali "comunisti", sia interni che esterni al PdS. Qui si è davvero avuta la misura di quanto conservatrice sia l'ideologia da essi sbandierata, come ha ben puntualizzato Luigi Manconi ('-'Linead'ombra", n. scorso). Prima di esaminare più in dettaglio queste posizioni (meglio: questo atteggiamento politicopsicologico), bisognerà spendere due parole sui dirigenti del PdS, che hanno salutato con entusiasmo la fine del Pcus e hanno sanzionato l'esaurimento storico non più della spinta propulsiva dell'Ottobre, ma dell'esperimento comunista in generale. È certamente apprezzabile che nelle parole di Occhetto e dei suoi colonnelli non vi sia più stato spazio per i cauti "distinguo" della tradizione comunista. Minor soddisfazione procura l'assoluta mancanza di dibattito sulle cause, i modi, i perché di una così rapida disintegrazione del sistema sovietico. Tirarsi fuori da uqa storia non più considerata eroica ed esaltante può essere comprensibile per questioni d'immagine. Far finta di non aver mai fatto parte di quella storia è invece un errore politico (oltre che una codardia culturale e morale) che prima o poi si dovrà scontare. Le coordinate intellettuali in cui si inseriscono le schematiche affermazioni dei dirigenti ex-comunisti sembrano essere rappresentate da Togliatti e da Croce. Il cinico realismo del primo e l'astratto idealismo del secondo trovano il momento di fusione in uno storicismo giustificazionista che evita di fare i conti con le ambiguità e le difficoltà della storia, della propria in particolare. Vi è stato, infine, chi ha applaudito senza troppa convinzione e assolutamente senza entusiasmo al fallimento del golpe, preoccupato che lo scioglimento del Pcus rendesse ormai improbabile qualsiasi ipotesi di rinnovamento "interno". Il paradosso è che una simile posizione ha trovato spazio anche laddove- "Il Manifesto" ad esempio - la critica all 'Urss, per quanto parziale, aveva radici antiche. Perché un simile atteggiamento? Principalmente, credo, per un vizio che risale al togliattismo comune a tutta la sinistra. Il criterio di analisi, infatti, non è mai dato- neppure da chi si ostina a dichiararsi marxista - da quello che succede, dalla realtà in gioco. Deriva invece dalla reazione che di fronte a quella realtà hanno gli "altri", incasellati già da tempo fra amici o nemici. Il proprio atteggiamento, allora, nasce da una rifrazione non da una riflessione. In un gioco di specchi in cui ·la realtà rappresenta lo sfondo lontano ed opaco ci si domanda con chi schierarsi, e soprattutto contro chi. Non si tratta solo di persone o di gruppi, ma anche di idee, più spesso di ideologie, a volte perfino di pregiudizi. La giustificazione per questo atteggiamento, in passato, era quello di stare dalla parte della Storia, del Movimento Operaio, del Progresso. Il modo materialista di porsi di fronte alla realtà, che significa innanzitutto non farsi condizionare dalle idee e immagini che di quella realtà vengono costruite, ha avuto scarsa fortuna dappertutto: quasi nessuna da noi dove l'influenza di Croce e Gentile si è sommata a quella del materialismo dialettico di scuola sovietica. La soppressione del Pcus, allora, spaventa in nome della democrazia (anche se si difende con orgoglio la proibizione del partito fascista in Italia); la vittoria di Elts'in perché è favorevole
al mercato; la disgregazione dell 'Urss perché favorisce i nazional_ismi.Due sono tuttavia i denominatori comuni di questi giudizi. Che essi vengono formulati "contro" i propri nemici (i borghesi e i revisionisti, per usare un linguaggio un po' desueto); che essi connotano la propria permanente ostilità al capitalismo e la propria fedeltà all'ideologia comunista. Le masse russe odiano Gorbaciov? I simboli del passato regime che vengono distrutti sono stati imposti al popolo senza interpellarlo? Il nazionalismo è la reazione, semplice ed elementare, ad una oppressione decennale; il primo terreno di identità che popoli privati della storia si trovano di fronte? Chi può approfitta delle maglie apertesi nella società e nelle istituzioni per arricchirsi egoisticamente e spesso al lìmite della legalità? Tanto peggio per la realtà: questi fenomeni complessi e contraddittori sono trattati come pedine da sistemare in schieramenti preordinati, di là il capitalismo di qua il comunismo, qui l'eguaglianza lì lo sfruttamento. I colori, nel corso di questo secolo, si sono mescolati, sovrapposti, opacizzati, modificati, dando luogo spesso a nuove tinte: perché non riconoscerlo e cercare di analizzarle invece di trattare da daltonici chi si rifiuta di rimanere chiuso nelle vecchie classificazioni? L'atteggiamento di questi orfani del comunismo ("rancorosi" li definisce bene qui accanto Sinibaldi) è speculare a quello dei "liberali" di cui si parlava all'inizio: lo stesso amore per le parole, i concetti, le idee; la stessa scarsa curiosità per le cose, le persone. Essi sostengono di voler difendere non già un regime o un sistema che hanno criticato da anni, ma un valore, un ideale, la possibilità di farlo diventare realtà. Non si rendono conto che anche il valore e l'ideale sono stati sconfitti, e proprio perché in loro nome, _in passato, si è giustificata la realtà che portava lo stesso nome. · Come può esserci spazio per la nostalgia, sia pure parziale o "critica"? Il sentimento della nostalgia, per quanto umano e comprensibile, è espressione di impotenza se a soccombere ad essa sono persone che si fanno vanto di voler modificare la situazione presente. Invece di guardare avanti si guarda indietro, le difficoltà e le sfide vengono scambiate per un piatto deserto che segue una sconfitta senza speranza, il movimento viene scambiato pèr morte (anche se spesso nella storia la seconda accompagna jJ primo). Ho il sospetto che in alcuni casi si tratti di una versione di sinistra, catastrofista secondo la tradizione terzinternazionalista, della "fine della storia". A chi, come Pintor, sostiene che quello in corso in Urss "è un rivolgimento che abbatte senza edificare. Abbatte tutto quanto noi avversiamo da gran tempo ma per restaurare qualcosa o regredire verso qualcosa che non somiglia affatto a quel che vorremmo" si vorrebbe ricordare che mai i rivolgimenti ottengono i risultati che i suoi attori si propongono, figuriamoci quelli che vorremmo noi. Ma perché chiamare questi inconvenienti della storia - cui chi è più anziano dovrebbe essere più abituato - restaurazioni o regressioni? Le parole non sono neutre: utilizzare quelle due è un messaggio, forse non pienamente esplicito, che viene inviato ai lettori. Come anche i ripetuti e francamente oltraggiosi paralleli tra i golpisti e i radicali rei entrambi di avere isolato Gorbaciov · impedendo il successo del suo disegno riformatore. Chi ha salvato l'Urss da una nuova avventura autoritaria, oltre alle "contraddizioni" esistenti su più piani, è stata una sparuta minoranza di radicali, tra cui sicuramente degli esaltati, trafficanti e probabilmente anche lestofanti. Perché non riconoscerlo-come ha fatto Gorbaciov - e pensare che si tratta comunque di persone più degne di quelle su cui aveva riposto tanta fiducia Michail Serghejevic? Chi vuole restaurare, e che cosa? E quale regressione è mai possibile dopo decenni di cupa dittatura di un cupo, ossessivo · e pervasivo partito quale era il Pcus? IL CONTESTO Il messaggio di Pintor, mi pare, è analogo a quello svolto su "L'Unità" da Asor Rosa e Tronti, anche se questi ultimi non sembrano parlare in nome di umori e sentimenti, ma solo di un freddo ragionamento. Il loro, tra i tanti interventi, mi sembra il più negativamente esemplicativo, sintomatico di come l'ossessione per il trionfo del capitalismo sia speculare ali' ossessione anticomunista cui si è accennato all'inizio. Si può fare ironia sulla morte del Pcus, ma definirlo un "cadavere vivente, lo spettro di un apparato, incapace ormai di gestire un sistema" denuncia solo la superficialità con cui si affronta il problema. Per i russi e i sovietici, intanto, non si trattava. certo di un cadavere, e nel caso di una salma ingombrante fetida. Gl\ spacci in cui la nomenklatura del Pcus poteva scegliere tra ventisette tipi diversi di cioccolata mentre il popolo di cui esso era avanguardia faceva fatica a trovare il pane e il latte esistevano ancora fino alla vigilia del golpe. Come tanti altri aspetti più e meno importanti dell'esempio menzionato. Se anche il Pcus fosse già stato cadavere, i milioni di vermi, mosche e parassiti che lo componevano non sono scomparsi, ma sono pronti a trovare la strada (ieri il golpe, domani il riciclaggio nella burocrazia democratica) per restare vivi e influenti. Il vero punto, per i due intellettuali comunisti, è piuttosto la "fine dell'Urss, fatto storico-politico "maturo nelle cose degli ultimi mesi e forse degli ultimi anni", la vera causa della gioia dei benpensanti e dell' "impazzimento di opinioni" da essa prodotta. Asor Rosa e Tronti ricordano che anche i capitalisti americani tremano "di fronte alle prospettive del nuovo disordine mondiale" e che probabilmente "la scomparsa del sistema del socialismo riacutizzerà le contraddizioni interne al primo mondo capitalistico". Se così fosse dovremmo davvero angosciarci? La possibilità di trasformazione non è sempre stata legata all'esistenza di conflitti? E infine perché non ricordare la gioia dei sudditi di un impero che crolla? Le genti e i popoli non gioirono quando crollarono nel primo dopoguerra l'impero zarista, quello ottomano, quello asburgico, anche se in nessun caso il risultato fu pace e prosperità? Carri armati russia Praga nel '68 (Arch.Rizzoli).
ILCONTESTO Il loro pessimismo, ci dicono Asor Rosa e Tronti, è volutamente esagerato "per piegare il ferro dalla parte opposta rispetto agli eccessivi entusiasmi dele ore passate". E ricordano che il comunismo non ha voluto dire soltanto costruire uno stato autoritario, ma "le lotte di milioni di persone che per ideali del comunismo puntavano a emancipare la classe operaia per emancipare tutta la società". A parte il riassunto del catechisino marxista-leninista, come si fa a non capire che il vero problema, il nostro problema, è proprio che queste lotte - eroiche e tragiche - non hanno emancipato nessuno, né la classe operaia né l'umanità, ma hanno solo permesso a nuove élites di costruire sistemi di sfrl!_ttamento inediti ma non per questo migliori di quelli abbattuti? E proprio un'amena sciocchezza pensare che il comunismo sia o non è l'esperienza storica perlomeno a partire dal secondo dopoguerra che suggerisce di considerare "conservatore (ma forse c'è bisogno di una parola peggiore) il ruolo svolto dal comunismo? Nella storia del comunismo post-bellico, per intenderci, la lotta degli operai delle Reggiane rappresenta un moscerino rispetto al pachiderma costituito dall'Urss e dai paesi dell'est europeo da essa soggiogati. Come non vedere che è stato proprio quel pachiderma a rendere più difficile che lotte analoghe a quelle degli operai delle Reggiane,potessero dare qualche frutto, in termini di emancipazione? Che il sistema comunista su scala mondiale narcotizzò ocomunque distorse anche le lotte fatte in nome degli ideali comunisti? Che esso produsse certezze ma non mutamenti? Quanto al sistema comunista interno all'Urss, che senso ha il ripudio formale dello stalinismo se poi si sostiene che "ora in · Unione Sovietica come in tutto il resto del mondo, libertà, giustizia ed eguaglianza, anche in conseguenza di queste recenti vicende, tendono drammaticamente a separarsi, anzi a contrapporsi"? Forse che in Urss libertà ed eguaglianza sono mai state contigue e non contrapposte nei decenni passati? Ma la frase che rivela nella sua pienezza il carattere nostalgico. di queste consideraziomi (e i connotati autoritari e "conservatori" che sorreggono questa nostalgia) è quella secondo cui "il crollo del punto di riferimento comunista-sovietico rischia di lasciare scoperto l'intero fronte della sinistra mondiale". Questo giudizio rende esplicito uno dei più grandi ·abbagli (teorici, strategici, morali) che la sinistra ha malauguratamente difeso per decenni; un abbaglio le cui tappe costitutive sono state il socialismo in un paese solo (anni Venti) e il "blocco" dei paesi socialisti (anni Cinquanta). Pensare all'Urss come punto di riferimento, fare della sua difesa e di quella delle democrazie popolari il momento primario, l'"orizzonte" della propria azione, è esattamente quello che ha impedito (oltre alla controffensiva dei capitalisti: ma quella era scontata) al Comintem e al Cominform di svolgere una qualsiasi azione a favore çlella rivoluzione e molte, invece, contro di essa. La questione, naturalmente, è complessa e non può essere risolta con poche e succinte argomentazioni. Perché non riconoscere, tuttavia, che proprio i tentativi rivoluzionari, almeno in' Europa, sono proporzionalmente diminuiti con il crescere della potenza socvietica; e che i tentativi riformatori, seinpre in Europa, hanno trovato un forte ostacolo proprio nella forza e nella strategia . dei comunisti, preoccupati principalmente di salvaguardare l' esistenza e la potenza del blocco sovietico? Diversa, e ancora più complicata non fosse altro che per lo stato delle nostre conoscenze, è la questione per i paesi del terzo mondo e per le rivoluzioni I).azionalie le lotte di indipendenza che lì si sono svolte. Se è vero che molte vittorie "progressiste" di questa seconda metà del secolo sono avvenute anche grazie ali' ombrello, alla protezione, alla neutralità dei sovietici, come non accorgersi che anche lì il risultato è stato generalmente l'opposto dell'emancipazione, la sua negazione? Siamo sicuri che in questo non entri per nulla il tipo di sistema esistente nell'Urss.e la qualità delle contropartite (politiche ed economiche) da essa richiesta ai diversi e vittoriosi movimenti di liberazione? Siamo propri sicuri che non sia stato l'abbraccio sovietico a salvaguardare - forse - l'indipendenza di Cuba, ma a sottrargli nello stesso tempo ogni possibilità di costruire una società emancipata, socialista? Se questi sono i problemi da discutere a fondo, e adesso sarebbe possibile farlo senza la fretta e l'angoscia di schier.arsicon chicchessia, perché mai ci si ostina a riproporre la logica degli schieramenti e degli anatemi? La sinistra italiana, dicono Asor Rosa e Tronti, ha l'obbligo di difendere Gorbaciov e il suo progetto riformatore rintuzzando ogni critica e ogni dubbio. Chi non lo fa è un nemico, oppure un amico fugace, unica concessione al clima più "tollerante" di questo fine secolo. Che poi quel progetto frani miseramente è, ancora una volta, peggio per la realtà. Sono le idee, anzi le ideologie che vanno salvaguardate. Chi si muove al di fuori di esse - magari ambiguamente, come Elts'in; e tuttavia con coraggio ed efficacia - viene iscritto d'autorità al "movimento di restaurazione conservatrice, persino, talvolta, con tratti decisamente illiberali" che ha costituito il nerbo della risposta di massa al golpe di mezzo agosto. , Di fronte a un tale modo di ragionare, che ricorda in maniera preoccupante le argomentazioni degli intellettuali comunisti dopo ·la rivolta ungherese del 1956, ci si può meravigliare se sentiamo il bisogno di tracciare una netta linea di demarcazione con chi ancora vuole restare un intellettuale comunista? Correremo il rischio - che in anni più drammatici fu quello di coloro che abbiamo scelto come nostri fratelli maggiori: Serge, Silone, Macdonald - di essere accomunati ai cantori del capitalismo, di venir presi per convertiti o pentiti. Il rispetto per la verità e la curiosità per la realtà valgono ben questo rischio. · la disfatta e il rancore. la sinistra dopo l'Urss Marino Sinibaldi Nella precipitazione di quel ciclo epico che questa fine di secolo sta celebrando sotto il nome di "Fine del comunismo", sono affiorati sentimenti e reazioni sorprendenti. Ce ne sono almeno due di cui vale la pena di parlare· perché appaiono particolarmente significativi della cultura, o meglio del senso comune, della sinistra. Per schematizzare questi sentimenti, potremmo chiamarli catastrofismo e rancore. · Il primo sta al fondo della diffusa sensazione di sconfitta, di disfatta, di disillusione. È la reazione di chi vede, nella fine del comunismo; l'irrimediabile caduta di ogni ideale critico verso lo stato di cose presente e di trasformazione radicale degli uomini e della società. In qualche sua estrema sfumatura, questo sentimento produce un'ultima difesa del comunismo - beninteso, quello utopico-immaginario, democratico, lontanissimo dal "socialismo reale"; insomma, quel comunismo irrealizzato, sfuggente, inverificabile e apparentemente inattaccabile. Ma la questione rappresentata dalla sopravvivenza di questo punto di vista mi sembra ormai praticamente irrilevante. La fine di quel "sogno comunista" nei paesi del socialismo reale è solo l'ultimo atto di una catena di fallimenti che hanno riguardato tutte le ipotesi tentate nel campo e nel nome del comunismo: non solo quella burocratico-autoritaria dell'Est europeo, dunque, ma ancor prima quella "sperimentale" maoista, quella ultraegualitaria delle guardie rosse, quella pragmatica di Deng, quella pauperista albanese, quella autogestionaria e moderatamente consumista
jugoslava; e si potrebbe continuare.L'insieme degli esperimenti - quanto sanguinosi! - condotti in nome del socialismo marxist;i lungo tutto il secolo e ai quattro. angoli del mondo costituisce ormai - come dire? - un "campione" ampiamente sufficiente. E dunque solo una persistente disonestà intellettuale - ma anche una btiona dose di indifferenza morale - può permettere di dire che il comunismo è altro (e perciò è vivo). Questa è ormai solo arroganza di corto respiro. · Il nodo vero sta invece nel luogo comune, molto diffuso a sinistra, secondo cui col comunismo finisce, puramente e semplicemente, la possibilità di una critica radicale al sistema di cose dominante, quello che chiamiamo capitalismo. È un luogo comune che, intanto, segnala la profonda ignoranza storica del fatto che gli uomini hanno prodotto utopie anche più radicali di quella comunista,· e che ancora in questo secolo non sono mancate figure, esperienze, teorie politiche in grado di criticare tanto il comunismo quanto il caJ?italismo. Ma a parte questo, il discorso andrebbe rovesciato. E stata la relazione. che negli ultimi cento anni è andata strettamente stringendosi tra valori critici e comunismo a indebolire progressivamente la radicalità e l'autenticità di quei valori; e· quel legame rischia ora di trascinare nella sconfitta, e poi nella soffitta della storia, quei valori. Ma se il problema e la paura giusta sono questi, qui c'è il terreno di una battaglia culturale e politica. Quella, difficile rria chiara, che mira ad affermare e allargare i valori che sono stati (o avrèbbero dovuto essere, o dovranno essere) della sinistra, e che i vari socialismi hanno represso, corrotto, negato. A partire dalla eguaglianza, dalla solidarietà, dalla giustizia sociale, classica triade sempre più stancamente e ipocritamente evocata; ma anche di valori che non appartengono alla tradizione della sinistra, come quelli ecologisti, da altri demagogicamente riven- ·.dicati ma perennemente "evasi" come quello della tolleranza, o Togliatti visto da Dcivid Levine. .. . / ...-·••' ,,·~·,, ~:}:\'t~ i ..:;;/'. ,· '.·. '·· IL CONTESTO da alcuni, infine, che addirittura contraddicono la storia della sinistra, come tutti i valori di rivendicazione dei diritti individuali di libertà, dei comportamenti di resistenza e di dissenso - particolarmente importanti in un'epoca di omologazione planetaria. Qui la nostalgia dei disfattisti è davvero segno di cattiva coscienza: dal punto di vista di questi valori la fine del comunismo non può che essere liberatoria. Di fronte ai problemi più importanti che abbiamo davanti - quello dell'immigrazione, per esempio - non vedo cosa abbia da dire la famosa utopia comunista (nulla da dire, verrebbe da sostenere, ma molto da dare: i corpi e le facce dei disperati che fuggono alla rovina di una ideologia, privati di tutto, perfino di una speranza un minimo vitale). Se non altro per questo la fine del comunismo è un elemento di chiarezza e una liberazione. Come ogni liberazione, propone rischi capitali ma offre una chance, una possibilità forse irripetibile: nel nostro caso, quella di restituire a quei valori la loro autenticità, quella verità che le esperienze socialiste hanno ovunque calpestato. Come ha detto Hans fonas in una bellissima intervista apparsa su "L'Unità" del 5 settembre scorso, "è assolutamente necessario liberare le sacrosante richieste di giustizia, di bontà e ragione dall'esca dell'utopia. Le si dovranno perseguire per se stesse, senza pessimismo né ottimismo, bensì con realismo, senza lasçiarsi trascinare da aspettative eccessive e senza cadere nella tentazione di pagare quel prezzo esorbitante che il chiliasmo, il millenarismo, per sua natura 'totalitario' è pronto a far pagare a coloro che vivono alla vigilia di quell'avvento.( ...) Dobbiamo definitivamente abbandonare l'idea di una 'preistoria:' che precede la 'vera storia', il fine definitivo per raggiungere il quale gli uomini diventano mezzi. E non solo perché tale fine non esiste (o se esiste non ci è dato di conoscerlo) ma anche perché ogni presente dell'umanità rappresenta un fine in se stesso." In realtà, dunque, non solo la storia non finisce; ma in qualche modo inizia ora, come liberandosi da incrostazioni e falsificazioni. Certo la storia, rimessa in movimento in questo modo, non offre né sicurezze né ripari; è terribile, faticosa, . crudele. E chi crede ai valori cui ho accennato è oggi, in Italia è fuori, sicuramente una ridotta minoranza. Da questo punto di vista, la sconfitta si è già consumata: ben prima e ben più che nella definitiva caduta delle ideologie marxiste, è consistita nel rovescio che quei valori hanno subito, su scala ·praticamente mondiale, nel corso degli anni Ottanta. Ma anche a questo proposito circola un disfattismo esagerato e ideologicamente sospetto. A me sembra ormai insopportabile, per esempio, la retorica della morte o del silenzio universale della sinistra. Non solo perché, come su "Linea d'ombra" abbiamo cercato più volte di dimostrare, c'è molta sinistra fuori dal comunismo. Ma anche perché una possibilità - solo una possibilità e forse rriinima, certo, ma a cui non vedo perché dovremmo chiudere la porta noi più o meno orfani di Karl Marx - è che dal crollo del comunismo nasca la sinistra. C'è un segno, minimo e paradossale, di questa possibilità. Nei giorni del golpe fallito in Urss, i mezzi di comunicazione hanno unanimemente usato il termine "destra" per definire i putchisti e. "sinistra" per indicare i resistenti, dentro e fuori le istituzioni. Questa temtinologia non era affatto scontata: perché mai gli anticomunisti dovrebbero essere di sinistra, e gli ultracomunisti di destra? Ma se quella definizione è stata pacificamente accettata, vuol dire che forse un'idea di sinistra c'è. La sinistra sarebbe - in Urss e altrove - il movimento, l'opposizione alla conservazione; ossia chi - in nome di valori anche ambigui nella loro elementarietà: libertà, democrazia, autode-
IL CONTESTO terminazione- ha il coraggio di rischiare, e non solo fisicamente ma soprattutto politicamente: di rischiare, cioè, anche la sconfitta e l'arretramento. La sinistra è chi vuole più libertà e più democrazia di quella che il sistema è in grado di offrire e forse di sopportare. Non per irresponsabilità o avventurismo, ma per l'equilibrata coerenza rispetto ai valori in cui crede. Questo è precisamente avvenuto in Urss, anche con le pesanti ambiguità che la figura di Eltsin perfettamente incarna. Ma insomma, ambiguità o no, a me l'idea che la sinistra è quella che si oppone ai carri armati mi sembra entusiasmante - e quasi immeritata, a essere sinceri. Un'idea necessaria anche se non sufficiente, si potrebbe dire; ma forse, se sapesse vedere anche i carri armati meno visibili che riducono la libertà a Est e altrove, questa potrebbe essere persino un'immagine esaustiva della sinistra, del suo spazio e delle sue qualità. Se così non è - e nulla infatti di quell'entusiamo circonda in Italia le sorti della sinistra, fuori e dentro i suoi partiti - è per molte ragioni profonde, storiche, politiche, culturali. Ma anche per la pigrizia, la stanchezza, la mancanza di immaginazione, di coraggio, di fantasia, della gente che ancora è o si sente di sinistra; che vive - e perfino diffonde- l'idea della disfatta quando a cadere è ora quello che nei nostri sogni doveva cadere. Non meno diffuso e ancora più pericoloso è un altro sentimento che in questi giorni circola in questa parte del paese; per capirci possiamo chiamarlo rancore. Con approssimazione, certo, ma non troppo, giacché questa reazione una sua espressione pubblica, quasi programmatica, l'ha già trovata. Sta in un articolo di Luigi Pintor apparso sul "Manifesto" sabato 24 agosto, alla fine della lunga settimana russa. È un testo che mi sembra esemplare: con l'icastica espressività dello stile di Pintor vi è rovesciata tutta la rabbia di chi non si riconosce nella "bella festa" per la fine del comunismo e non ha più nulla da contrapporvi. Se non la ferocia della propria maledizione contro "il sogno, l'ansia, l'incubo occidentale": "Abbandonatevi pure a questa danza macabra e divertitevi. Ma attenti, ne vedremo ancora delle belle, anzi delle brutte ..." Letto e riletto, trovo questo testo straordinario perché riesce a dar voce al più oscuro, forse al più basso, certo al più resistente dei sentimenti che si aggirano nella sinistra: il puro rancore. Il rancore di chi è sconfitto senza appello e, come una cambiale eternamente rinviata, vede presentarsi il conto dei propri errori. Il sentimento paralizzante di chi non ha più la voglia, il coraggio, la fantasia di cercare vie d'uscita epreferisce affondare lanciando l'ultima maledizione contro "l'Olgiata occidentale". Forse mi confonde l'antica ammirazione per Pintor e il suo giornale, ma c'è qualcosa di grandioso in questo spettacolo. Io non penso che sia sbagliato provare sentimenti del genere: credo anzi che sia inevitabile e "sano" sentire rancore per le idee e i personaggi oggi trionfanti. È giusto provare scontentezza, insoddisfazione, rabbia per come le cose vanno e promettono per chissà quanto tempo ancora di andare. È insopportabile pensare che, comunismo o capitalismo, i deboli, i poveri, gli sfortunati continueranno a pagare, qui o in qualche continente apparentemente lontano. E credo che la sinistra, prima ancora che in un programma, nasca da un nodo di sentimenti non lontani da questi, di resistenza e ribellione a un destino che, proprio come un carro armato più o meno visibile, schiaccia le persone. E dunque non ha senso la "serenità di sinistra", quell'ottimismo un po' fatuoche pure circola contrapposto al catastrofismo disfattista, e tende a rimuovere le difficoltà tragiche che viviamo. Però è terribile che questo sentimento di orgoglioso rancore diventi oggi il riparo da una sconfitta o la consolazione di un fallimento, fino a ridurre o cancellare una responsabilità: quella che abbiamo avuto tutti noi accreditando a una ideologia valori che le sono estranei. E non è un caso, dunque, se quel rancore· un po' diabolico si salda a volte con una sorta di angelico innocentismo: quello di chi pensa che ridotti o marginali o in qualche modo storicamente giustificati siano i propri errori (ancora sul "Manifesto" è facile rintracciare echi di questa reazione per esempio nella chiusa di un articolo di Rossana Rossanda: "chi è comunista ha motivo di molto dolore, di molta fatica, ma di nessun rimpianto"!). Quello che in queste espressioni mi sembra più grave è l'assoluta mancanza di una qualità che considero fondamentale per la sinistra: la generosità, ossia la disponibilità a mettersi totalmente in discussione quando le proprie previsioni, leproprie idee e le proprie teorie si rivelano sbagliate. Qui invece emerge ancora la difesa, tenace e avara, di una storia e di una identità, anche se questo può provocare la caduta di credibilità e di "fascino" dei valori in cui si afferma di credere. E invece a me sembra che non ci sia oggi altra strada che quella di sacrificare tutto alla necessità di ridare voce a quei valori, di provare a rifondare non un'ideologia o un'utopia irriformabili, ma i valori di una sinistra possibile. E siccome l'unico sogno che vale la pena di sognare è quello di far vivere quei valori, non è in questa fine secolo morto un sogno: è finito un incubo. Ma che cos'è stata la Russia per noi? Piergiorgio Giacché La Russia? Era già finita da un pezzo. Già da prima c'era imbarazzo a difenderla, e non era per gli errori e gli orrori commessi, ma perché comunque non ci credeva nessuno. Figuriamoci adesso, che nuove generazioni di non più giovani "comunisti", sono nate nella abitudine di un oblìo assoluto, se non di un relativo disprezzo! Sì, è vero, la Russia aveva la stessa bandiera rossa, la stella e la falce e il martello, ma, a guardar bene, le emozioni e le relazioni erano al massimo quelle del tifoso: anzi, di un tifo tenue e indiretto, come si trattasse di una specie di gemellaggio calcistico, come se in Cina vincesse il campionato una squadra con la stessa maglia del Milan ... Il Milan, quello sì! La Cina anche, tutto sommato ci si ricorda, non senza vergogna, di averle voluto bene. Cuba, e il Vietnam e persino l'Albania, con quelle campagne di una volta e le virtuose biciclette delle rare fotografie; o forse l'Albania era nel conto proprio per il fatto che le fotografie erano poche, per quel silenzio assoluto che sembrava atavica riservatezza, invece che prigionia ... In generale, come Immagine (si direbbe oggi) oppure dal punto di vista cieco del Sentimento (che valeva ieri), il Comunismo, senza mai divenire astratto, pure è sembrato sempre consistere in quel fantasma che si aggira per il mondo: non c'era realizzazione che tenesse, non contava nessuna amministrazione che lo praticasse, al limite nessun partito - neanche il proprio - che lo rappresentasse o auspicasse davvero. Era più facile riconoscerlo come anima delle rivolte, piuttosto che come Organizzazione o addirittura come Stato della rivoluzione: il comunismo appariva sogno concreto, soltanto fuori da ogni vincolo territoriale, come diluita e impalpabile patria del "mondo intero", che poteva servire a fuggire dalle lusinghe dei valori nostrani e democristiani, e a fugare la tentazione dell'America. Ma per carità, senza operare confronti in positivo, senza opporre modelli a modelli.
La Russia è solo una delle repubbliche dell'Urss, che intanto a sua volta suona come un suo monco anagramma. La Russia funziona, nella memoria e nella convinzione di tutti, proprio come l'inverso di una sineddoche: gli altri territori e repubbliche risultano annessioni di singole parti a un tutto che già c'era. È certo che da parte sua la Russia deve aver dato una mano a questo processo di sottovalutazione e dimenticanza di quel continente che si tirava appresso. A scuola, gli Urali sembravano le montagne più alte del mondo, una cesura che corrispondeva alla fine della carta geografica, per quanto riguarda noi europei (e si sa che quanto non ci riguarda, davvero è tenuto nella più bassa considerazione). L'Urss, riassunto dalla Russia, garantiva così quel1'identità geografica dell'Europa che, a guardar bene, non esiste: come dire che la Russia è complice della perpetuazione, se non dell'invenzione, del mito dell'Occidente, che è- prima, molto prima dell'America - proprio quel pezzo di continente euroasiatico che si protende naturalmente verso l'Atlantico, Patto compreso. Quell'altro legame terrestre e amplissimo, che in veduta aerea ci fa sembrare una piccola parte dell'Asia, da tempo è stato tagliato: prima era quello l'orizzonte da cui dipendevano le nostre paure e i nostri cambiamenti più grossi (la storia d'"Europa" è segnata da viaggi, commerci, guerre, invasioni, enormi debiti religiosi e culturali, con quegli imperi asiatici che anticamente ci consideravano una sorta di lontane, ignote ma devote colonie ...). Dicono che la scoperta dell'America ha cambiato il mondo, ed è vero perché ha benedetto le attese e le aspirazioni a fondare un indiscutibile Occidente cui aderire, ma anche la "trovata" della Russia ha avuto il suo ruolo, tenendoci lontani e ignari dal mare di steppe, di taighe, di tundre, che in geografia funzionava come un deserto e, per la storia, valeva quanto un immenso latifondo segreto dei nuovi zar russi: terre di sciamani e di gulag, riserve antropologiche o carceri politiche in cui si è cacciati in esilio o condannati a restare. Un Est esatto contrario del West, verso cui i pionieri erano ansiosi di cercare oro e di portare civiltà; un esatto contrario che tutto sommato è stata la fortuna dei Tungusi, dei Chukchi, degli Jacuti, che non se la saranno passata tanto bene ma almeno non hanno fatto la fine dei Sioux. La Russia? "È un'espressione geografica", anche se ha partecipato al Congresso di Vienna. È sempre stata, infatti, l'eterna nemica di tutti i Napoleoni e dunque l'Ultima Thule in cui, spegnendosi le ambizioni di conquista (leggi: dal momento che si era sconfitti), automaticamente si considerava chiuso il "mondo conosciuto", col risultato di un abbandono (leggi: ritirata) equivalente alla negazione della sua esistenza. Un po' come è successo per i'intero "mondo arabo" dopo i fallimenti dei crociati, anche i russi - bizantini e cristiani ortodossi prima ancora di diventare comunisti - si sono potuti emarginare ed esorcizzare via via, concentrando la Vera Europa in quel vespaio di stati e staterelli sempre più occidentali, e aiutando la coltivazione intensiva di un etnocentrismo spinto fino al delirio (anche dagli antropologi, oltre che dai mercanti, missionari, militari, ...), di un narcisismo etnico che è arrivato al ridicolo (superando addirittura gli esiti tragici di qualche decennio fa). La Russia ci ha fatto comodo. Intanto pian piano i Russi diventavano gli Altri, permettendo di perdere volentieri il calcolo e la vista di moltissimi altri ulteriori; e poi si andavano accollando il ruolo - per noi vitale - di necessari antagonisti sportivi, sempre a priori perdenti, anche quando arrivavano primi. Così è stato per Gagarin, così per i ragazzoni e soprattutto le ragazzone che vincevano le gare più rudi delle Olimpiadi: cosa mai sono valsi gli sforzi e i primati russi davanti ad avversari che erano IL CONTESTO Breznev cacciatore (arch.Rizzoli). vincenti per antonomasia? Un destino alla Bartali, con in più la stessa aggravante insoddisfatta e piagnucolosa del "tutto da rifare": il massimo che sia davvero "passato" come messaggio critico, da parte di quella che voleva e doveva essere la più grande e potente alternativa al sogno occidentale. Forse, almeno un po', la concorrenza è stata loro imposta (e un altro po', truccata), ma è un dato che la Russia è stata infine più che sconfitta. Surclassata. Non un segnale, un gadget, una moda che venisse da lì. Inseriti a forza nei film di spionaggio e in quelli della guerra fredda, i Russi si sono lasciati trattare da malvagi e da bonaccioni, ma sempre un po' da fessi; pochi occidentali hanno voluto registrare la signorilità dell'assenza di risposta sul terreno del kitch, da tempo diventato quello della cultura di massa e dunque del popolo: tutti l'hanno rapidamente fraintesa per impotenza, per povertà. Ebbene, e se fosse stato così? Nessuna pietà: per la Russia l'impotenza consumista, e tantomeno la povertà, è un peccato senza attenuanti, non ha diritto a nessuna· giustificazione. Prima, deve cessare la sua sfida prepotente sul piano politico e militare. Prima, deve ammettere di avere sbagliato tutto. Ma prima ancora, ammettere di avere perso. Non è solo per la sportiva soddisfazione dell'Occidente, ma anche per poter dare un esempio a tutti gli altri - quelli più diversi e lontani (e pericolosi?)-, facendo vedere che fare l'Altro, contro di noi non conviene. Forse il Russo maiuscolo è un Altro un po' particolare, e un po' inventato, ma è certo l'unico "altro" speculare che avevamo a disposizione, in un mondo peraltro pieno di tali diversi e di tanti emarginati reali da essere chiamato "terzo": con quello non c'è gusto, non è davvero possibile nessun confronto. Invece, non sappiamo ancora bene come vivono e cosa pensino davvero i veri russi, ma li si è potuti supporre come individui infine moderni, urbani e civilizzati (accanto a noi, simili a noi), che però certamente non si sentivano al centro dell'universo, come invece capita "naturalmente" a noi. La loro mentalità non poteva non fare i conti con la nostra superiorità: la loro società non poteva prescindere dalla nostra, e ignorare l'abbondanza di merci, cioè il livello di
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