Linea d'ombra - anno IX - numero 63 - settembre 1991

dell'arte. Non sono forse necessarie tante forme d'arte quante sono le varietà e i problemi umani da proiettare nelle opere? Non lontano da qui, in un villaggio sul lago, ho visitato un artista europeo formatosi nelle ricerche più cerebrali della pittura moderna, la cui volontà creatrice non vuole esprimere il mondo osservato ma trame la sostanza: un mondo emozionale e intellettuale che sulla tela basti a se stesso. Più che dal disprezzo per il già visto, il già fatto, il già ucciso, e più anche che daq' ambizione di parlare per un popolo silenzioso, questo creatore è mosso da un bisogno di creazione pura, diversa da tutto ciò che è stato realizzato finora, ma viva come le cose più vive ... È un bene ch'egli lavori nella sua solitudine intelligente. Il mistero dei piani, delle linee, dei punti, dei colori eguali, illuminati da un giorno di serenità, il mistero apparente delle composizioni di Onslow-Ford Ci parla con un linguaggio differente da quello della pittura realista, che chiamerei serva orgogliosa degli occhi semplici. Ci arricchisce diversamente, obbedendo a imperativi prodotti da necessità complementari. Per lungo, troppo lungo tempo, ho vissuto nelle celle delle prigioni, perché le riviste d'arte possano ingannarmi sui bisogni dei miei occhi, la straordinaria magia del colore, il denso valore del vero, l'insondabile significato del pensiero. Un ritratto fedele, un nudo, un albero, la proiezione di un sogno, l'espressione di un delirio raffinato, la sobria costruzione di un frammento di mondo, appartengono ugualmente alla vera arte, perché l'imprigionato, io lo so, ci ritroverebbe il mondo. Penso all'arte come alla foresta vergine in cui le piante si distruggono a vicenda e crescono assieme come se una suprema riconciliazione le sollevasse: le piante infinitamente diverse. Lasciamo che danzatori grotteschi mettano in fuga al crocevia queste riflessioni incidentali ... È giorno di carnevale, vicoli luminosi precipitano verso la campagna verde.'Ecco apparire un gruppo di maschere e musicanti. Suonano per se stessi e per qualche vicino; è più rito che rappresentazione, il gusto di partecipare è maggiore che quello di guardare. Il gruppù simula una corrida buffonesca. Un omone sparisce sotto un toro bianco di cartone innalzato sulle sue spalle e carica con le sue piccole coma toreri ridicoli. Molti di questi sono vestiti da donna: lunghe gonne rosse, a tratti nere, à piegoline, tradizionali. La donna si burla della bestia pericolosa: questo il nocciolo del loro humor. Un ragazzo di bella muscolatura, vestito in questo modo bizzarro, il capo coperto da un grande cappello di paglia reso luminoso dal sole, esegue una danza della sciabola. Il suo machete picchia sull'acciotolato. Il gruppo della corrida e della sciabola da savana va di porta in porta a donare la sua vivacità e la sua serietà, con una bella resistenza - il caldo è torrido. Noi non conosciamo il significato del rito; ci ignorano. Al centro di Patzcuaro un altro gruppo di danzatori, sorprendenti per lo straordinario mascheramento da avventurieri spagnoli. Molti personaggi vestiti di stracci (feltri dai larghi bordi rialzati, tagliati come cappelli da corsari), agghindati in modo ridicolo; uno ha una maschera con barba nera e naso da Cyrano, un' altro una maschera da demone come quelle che i primitivi intagliano nel legno, il primo ha un pantalone di pelliccia stracciata, il demone un cappotto color cenere. Quelli vestiti da donna hanno invece maschere bianche e rosa da piccole cameriere bretoni, sopracciglia stupefatte, sorrisi felici e beati. Partecipano alla corrida freneticamente agitando fruste e sciabole; è un ballo di pirati e di innocenti STORIE/SERGE scenette. La musica stride, il toro di cartone dondola e si scaglia contro le gonne ... La loro ansia è piuttosto sinistra, ne promana una sensazione di crimine gratuito, di violenza senza conforto né fine ... I danzatori sono così sfigurati che proviamo sollievo vedendo uno di loro che si toglie 1a maschera da fanciulla bianca, portata sotto una paglietta gialla, per asciugarsi la fronte olivastra. Si dimeneranno così per ore agli angoli delle strade, senza rumore, senza strilli, senza risate, senzà gioia, perlomeno nel senso che noi diamo a questa parola; nel loro slancio monotono non c'è alcuna allegria - c'è forza ritmica, visioni, una sorta di trance moderata. Gioia, allegria, credo che queste parole non possano applicarsi agli Indios. Sono sempre dominati da un'energia passiva, taciturna o saggia, violenta come quella della pianta del deserto. Amano il canto, la musica con toni di litania, di cantilena, di incantesimo; le· danze rituali. Nessuno ride e noi non avvertiamo il desiderio di ridere. • • Di fronte a questi indios non dimentichiamo mai che essi hanno preso contatto con la civHtà europea soltanto da cinque secoli, e che questo accadde attraverso la distruzione del loro barbaro mondo. E se fosse che allegria e gioia di vivere, nelle forme divertenti che abbiamo conosciuto, richiedano qualche millennio in più di cultura, secoli di benessere e relativa sicurezza; di ricchezza e di libera avventura vittoriosa? I contadini francesi descritti da La Bruyère come triste bestiame umano, neppure loro ridevano. Gli scampati ai campi di sterminio ritroveranno la gioia di vivere? Il lago di Patzcuaro offre un vasto panorama di madreperla, di perla, di seta grigia tessuta di cielo, argentata, screziata. Impotenza delle parole. Scrivendo sono spesso ostacolato dallo scarto irrimediabile fra sensazione, visione, e parole convenzionali di cui ·dispongo; in fondo la descrizione non è altro che un piccolo gioco di paragoni e di raffronti più o meno abili. Il lago è "come uno specchio leggermente mosso". È "giusto". Ma perché debbo paragonarlo a uno specchio, oggetto utile e casalingo al quale in verità non somiglia per niente? Il trucco degli stilisti e di certi surrealisti consiste nella ricerca del raffronto inedito: "Dal roveto ardente delle tue labbra zampillano vibranti ciuffi di voce" (Benjamin Péret) è eccellente perché, forse, spontaneo; ma dubito si possano produrre molte immagini spontanee (o elaborate, il falso spontaneo di buona qualità) senza una concentràzione qell'intelligenza su questa produzione, concentrazione che deve nuocere al pensiero, all'osservazione, al contatto col reale-vissuto. Piuttosto che inventàre immagini insolite e inedite preferisco considerare le cose con semplicità, tentare di dipingerle con le parole consuete e seguire i miei problemi, tanto assillanti da poter fare a meno di ornamenti verbali. C'è un termine medio accessibile al grande talento, forse al genio? A parte due .o tre libri di straordinaria riuscita, Bella, Susannà e il Pacifico, Jean Giraudoux non si è disperso nel suo za~pillìo di sfavillanti lustrini, lui che introduceva nel tessuto teso della sua prosa una così costante cura per l'intelligenza e una così sicura eleganza di pensiero? (Tolstoj avrebbe disprezzato questi giochi dello spirito ...) Ho pensato a Giraudoux, vicino a questo lago luminosamente adatto alla tristezza, perché è appena morto a Parigi, nell'amarezza e negli affanni, accanendosi tuttavia a lavorare. Sui sessanta.L'avevo trovato giovane, alto, con un bel viso minuto e tenace, uno sguardo acuto e discreto. Sapeva 91

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