Linea d'ombra - anno IX - numero 63 - settembre 1991

STORIE/HERLING avrei permesso alla niia memoria di disfarsi di tutto ciò che avevo visto. Mi calmai e mi addormentai". Scriveva i suoi racconti senza curarsi del loro destino. Scriveva perché "restassero nella natura", perché durassero, non importa per chi, non importa dove, non importa come: la terra non si cura affatto di dove, come e chi raccolga i suoi frutti; dopo la marea il mare non si volta a guardare che cosa ha gettato dalle sue profondità sulle rocce della riva. Ogni racconto aveva la forma di una poesia, si sviluppava in strofe ·attorno al nucleo di un episodio o di un avvenimento. Con pena e in silenzio, cercava lentamente delle parole che aderissero esattamente alle cose descritte. "Non potevo, non potevo·spremere dal mio cervello, prosciugato dal lager, una sola parola di troppo." Nei suoi racconti non c'era una sola parola di troppo, non c'era parola che lui non avesse soppesato a lungo e con diffidenza nella sua mano incallita di deportato. Non si curava del destino dei suoi racconti, e, tuttavia, essi riuscivano a raggiungere il mondo per varie vie. Ne aveva scritti più di cento: avrebbe potuto scriverne il doppio. Era diventato il più grande esploratore, cartografo e cronista di u,n arcipelago sconosciuto, di un inferno fatto dall'uomo per l'uomo. Se solo gli fossero bastate le forze, se l'avessero lasciato in pace ... Ma stava diventando cieco, sordo, infermo; e gli fu richiesto di dichiarare che la vita aveva privato i suoi racconti di ogni attualità. Scrisse la dichiarazione, suscitando accuse. di "tradimento" fra le persone a lui vicine. Rimase solo. Voleva essere solo, non aveva più paura dei ricordi, ma accettò che di venissero muti e che lo accompagnassero, muti, nella sua progressiva afasia. In premio per il suo "tradimento" gli fu assegnato un posto al ricovero per gli anziani e gli invalidi: una stanza calda, accogliente. "A modo suo" lì era felice, così come, "a modo suo", era felice il pope cieco che, nel suo racconto La croce, cercava di dormire giorno e notte perché riusciva a vedere soltanto in sogno. Il giorno del suo settantacinquesimo compleanno si ridestò in lui la tentazione di scrivere. Durante ia visita del suo unico amico gli farfugliò delle brevi poesie che furono pubblicate ali' estero. Per questo fu punito con lo pseudo-ricovero in una cella dell'ospedale psichiatrico. · Vi staya morendo da tre giorni senza capire c.heera in procinto di morire. E sempre la stessa immagine, o piuttosto la stessa visione. Un portone nero, un uomo invisibile tenta di abbatterlo a colpi di ariete; un nero corteo·umano avanza verso il portone, a un tratto si ferma e cerca di arretrare; tremano le nere rocce ai lati.del portone, ìl cielo nero si abbassa su di loro come una coltre; si apre lentamente il portone, dietro al quale, in lontananza, si aggrovigliano nere nubi rosseggianti di fuoco; un mare nero si strofina alla riva come un enorme animale dal pelo irto; il corteo umano si rimette in marcia e scompare: a poco a poco si dissolve nella voragine nero-fiammante. . Strinse ancora più forte la scodella tra le mani e, con tutte le sue forze, puntò le gambe contro il pavimento per rimanere seduto. Vi rimase fino all'alba del quarto giorno. Quando il vetro ghiacciato della finestra cominciava già ad imbiancare, si lasciò cadere sul cuscino e sollevò le gambe, continuando a tenere la scodella premuta contro il ventre. Fu strappato al suo leggero dormiveglia da un tocco caldo sul viso, sulla testa, sul collo. Non aveva più la forza per sollevare le palpebre: non potè vedere, neppure attraverso la nebbia, l'anziana donna col camice bianco che lo accarezzava e lo abbracciava ripetendo un monotono grido. Poiché non la vedeva né la sentiva, ma presentiva soltanto la vicinanza della liberazione, si 80 ricordò di Anna Pavlovna 1 , a Kolyma, una donna minuta ed esile che, una volta, passando vicino alla loro squadra nella miniera d'oro a cielo aperto, aveva puntato il braccio verso il sole calante e aveva gridato: "Ci manca poco, ragazzi, ci manca poco!"2 "Mi rimase impressa nella memoria per tutta la vita", confessò in un suo racconto. Per tutta la, vita gli rimase impressa come l'effige e il segno più belli della Speranza. Tale era il significato della speranza a quel tempo e in quel luogo: tornare alla baracca e gettarsi sul giaciglio. "Non si può vivere senza speranza", aveva scritto, un secolo prima, il cronista della Casa dei Morti. E morire si può? Si può morire senza speranza? Finalmente capì che stava morendo; finalmente in lui risuscitarono e si affollarono per un poco i ricordi; finalmente la memoria indomita riprese il potere. Sorrise: nel suo debole sorriso, appena percettibile, l'ombra della sofferenza si intrecciò con l'ombra del trionfo. Moò come quando ci si 11ddormenta stremati da un lungo viaggio, affondando leggermente in un oceano puro e nero. Senza dubbio, il futuro biografo del Grande Scrittore si sforzerà di stabilire tra quali braccia sia morto. Ecco che giace nella bara ricoperta di fiori; su un podio sopra di lui un pope sta officiando. Il locale trasformato in cappella è piccolo e scuro: trenta persone, con in mano delle candele sottili e luccicanti, si affollano in cerchio attorno alla bara. In questo giorno di gennaio è nevicato abbondantemente e, allo stesso tempo, si è alzata la temperatura. Nella penombra della cappella lo scintillante biancore da dietro le finestre ha fatto impallidire le fiammelle stellate delle .candele e anche le facce delle persone raccolte in cerchio. Si vorrebbe poter decifrare quelle facce, ma hanno tutte lo sguardo incollato al volto del morto. Il suo volto è la sua propria maschera mortuaria. Le profonde cavità degli occhi, il naso allungato e affilato, dei solchi simili a tagli sulle guance, una smorfia amara, un po' sarcastica, residuo di quell'ultimo sorriso: la morte ha:potuto prendere una maschera del genere soltanto da una faccia già morta da molto tempo. Il pope chiuse il breviario, benedì il defunto e scese dal podio. Regnava il silenzio. Dal cerchio della gente si fece avanti un giovane, si avvicinò alla bara, sollevò la candela, che accese un rapido bagliore nei suoi occhi, e con voce forte e sonora disse: "Su ogni faccia Kolyma ha inciso le sue parole, ha lasciato la sua impronta, ha scavato altre rughe, ha impresso un marchio eterno, un marchio indelebile, un marchio incancellabile!" Era una frase del racconto del Grande Scrittore intitolato Silenzio. E nella cappella regnò di nuovo il silenzio. La bara del Grande Scrittore fu portata aperta fino alla tomba; sulla sua maschera mortuaria· cadevano gli ultimi fiocchi della tormenta: si scioglievano immediatamente e la lavavano con rivoli di gocce. Una delle donne l'asciugò con un grande fazzoletto prima che chiudessero la bara. Sicuramente il futuro biografo del Grande Scrittore loderà il giovane per aver scelto quella frase d'addio. È un esemplare unico nell'opera di un autore che, come sappiamo, evitava le parole superflue e non aveva fiducia nelle esclamazioni. La parola MARCHIO, usata tre volte, preceduta da a~gettivi così calzanti, raffor- · zata dal punto esclamativo, risuona nel suo Silenzio come una maledizione biblica e come un boato sotterraneo. Note I Personaggio di uno dei Racconti di Kolyma. 2 In russo nell'origir\ale. Copyright Gustaw Herling 1982, 1991.

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