IL MARCHIO L'ultimo racconto di Kolyma Gustaw Herling traduzione di Donatella Tozzetti "Quel che ho visto io, l'uomo non dovrebbe vederlo e neppure conoscerlo" "Sono rimasto atterrito dalla terribile forza dell'uomo: il desiderio e la capacità di dimenticare." "Volevo essere solo, non avevo paura dei ricordi." VARLAM SALAMOV, / raccontidi Kolyma Il Grande Scrittore stava morendo. Stava morendo da tre giorni, da quando, opponendosi con le sue ultime forze, convinto di andare di nuovo a Kolyma, malmenato e contuso, con le mani legate dietro le spalle, era stato trasportato dal ricovero per gli anziani e gli invalidi all'ospedale psichiatrico alla periferia di Mosca. Moriva da tre giorni senza capire che stava morendò. La vita si allontanava da lui lentamente, si allontanava senza sosta, non tornava indietro per un attimo, neppure per qùel breve attimo in cui il moribondo si rende conto di star morendo. Stava seduto sul letto, con un pigiama a righe, in una stanzina con le sbarre alla finestra, di fronte alla porta ferrata, munita di uno spioncino rotondo, preso tra due fuochi di luce durante il giorno: quello della lampadina sopra la porta e quello della finestra coperta di ghiaccio; avviluppato dai raggi della lampadina durante la notte. Di tanto in tanto nel corridoio risuonavano dei passi, scoppiavano grida e maledizioni, delle chiavi stridevano nelle serrature: lui non li sentiva. Dalla sua finestra la vista si stendeva sul vuoto cortile coperto di neve, delimitato da un muro che lo separava dalla strada; quella vista non lo riguardava. A volte entrava nella stanza una donna anziana con un camice bianco: con uno sforzo lui sollevava le palpebre e incollava il suo sguardo offuscato al rapido movimento delle labbra di lei, mentre le sue non erano mosse neppure da un leggero fremito. Da molto tempo era sordo e quasi cieco e ultimamente aveva cominciato a perdere anche la parola: il suo balbettio aveva un qualche significato solo per il suo unico amico che ogni tanto andava a fargli visita al ricovero per gli anziani e gli invalidi. Stava seduto sul letto, emaciato: si vedeva che un tempo era stato alto e robusto; adesso era simile a un fossile o a un enorme ghiacciolo dalle sembianze umane. Stringendola forte con entrambe le mani, teneva premuto contro il pigiama a righe una scodella con il cucchiaio infilato nel semolino avanzato. La massa voluminosa della sua testa, che i capelli ricoprivano come muschio roccioso, stava sospesa sopra la scodella in una posa così rigida, tesa e ostinata che i suoi occhi socchiusi sembravano cercare qualcosa di prezioso e improvvisamente smarrito. Forse se ne stavà immobile, come in agguato per respingere un nuovo attacco? Era sorprendente che non sentisse né la sonnolenza, né l'indebolimento della vecchiaia e che le percosse non gli avessero fatto emettere nessun lamento. Si era intorpidito per sempre? Aveva trovato un modo per tenere a freno la morte col suo torpore? O quella sua pietrificazione derivava dal fatto _chemoriva senza capire che stava morendo? Subito dopo il trasferimento all'ospedale era stato colpito da una paralisi alla memoria. Una paralisi totale, ad eccezione di un'immagine. Una volta quell'immagine era stata l'essenza del suo racconto Lo sbarco sulla riva dell'inferno. Cupi profili di rocce intorno al golfo di Nagajevo. Lontano oltre l'oceano, in un mondo diverso, reale, si era spenta per sempre l'autunnale vivacità dei colori. Qui, alle porte di Kolyma, stillava dal cielo sulla terr~ una nera e densa oscurità. Tutt'intorno neppure una traccia d1 vita umana: era buio e freddo; i prigionieri, che dalla nave venivano sbarcati a terra, sulla riva dell'inferno, erano inghiottiti da una notte senza fine. E, dopo anni, la stessa notte senza fine, ostile e crudele, aveva riempito di nuovo il suo cuore, senza lasciar posto a nient' altro. Come se nelle sue vene avesse preso a scorrere lentamente un sangue denso e nero che, al suo passaggio, provocava un dolore sordo. · Sicuramente il futuro biografo del Grande Scrittore rileverà che, durante i vent'anni a Kolyma, egli moriva ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Per vent'anni aveva strisciato sull'orlo dell'abisso, ben sapendo cosa significasse la minima mossa falsa. Ma non sapeva solo questo. "Sapevo che nessuno al mondo avrebbe potuto costringermi a togliermi la vita. Fu allora che cominciai a capire l'essenza del grande istinto della vita." Fu allora, fra tante domande assiHanti: era rimasto un uomo o no? Cos'era dunque l'essenza del grande istinto della vita? Non dimenticare. Ma non per poi trasmettere i propri ricordi agli altri; poiché esistono cose che l'uomo, a cui è stata risparmiata l'esperienza dell'inferno, non dovrebbe conoscere. L'essenza del grande istinto della vita era il bisogno di conservare dentro ali' anima tutte le sofferenze patite, di conservarle fino all'ultimo respiro, pena la perdita della propria identi_tà. L'essenza del grande istinto della vita era la vita stessa, foss'anche la più terribile, foss'anche pesante come la croce. portata sul Calvario. Quando, dopo vent'anni, era tornato a Mosca, la moglie lo aveva lasciato e la figlia lo aveva rinnegato. A Kolyma gli era sembrato spesso di aver toccato il fondo della solitudine; tuttavia la conobbe veramente soltanto alle soglie della libertà. C'è un limite al di là del quale l'uomo completamente solo ha paura di stesso e si sforza di fuggire a se stesso. Nel suo caso questo poteva significare soltanto fuggire dal suo passato a Kolyma. Si era allenato ed era arrivato così lontano nella sua fuga che, in certi momenti, non era sicuro di dove e come avesse passato metà della sua vita. Allora s'impadroniva di lui il vuoto, la sterile leggerezza dello stordimento e dello svuotamento interiore. Finçhé una notte, mentre fissava il soffitto, sentì un violenta pressione al petto. Cercò di liberarsene, ma il senso di oppressione aumentò, gli salì alla gola e divenne soffocante. Alla fine si sbloccò scoppiando in un pianto senza lacrime, unito alla sensazione di cadere dolcemente, intessuto della parola "no, no, no". Più tardi il Grande Scrittore lo descrisse in uno dei suoi racconti: "Ad un tratto mi resi conto che ero pronto a dimenticare tutto, a cancellare vent'anni della mia vita; e quali anni! Quando lo capii, riportai una vittoria su me stesso. Sapevo che non Disegno di Selçuk (da "Le Monde diplomatique") , .~- ~ 79
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