adesso che fossero un'espressione dell'ansia del bandito: mi ag- • grappavo al tema infinito dell'esule palestinese in un mondo arabo · che amava e osservava, di cui si preoccupava e che voleva cambiare. Come Wadi ',Assaf nel mio romanzo AL-Safina, il palestinese si allontanava solo per soffrire più intensamente per il desiderio del ritorno, per soffrire più amaramente per il suo sradicamento. Nello stesso tempo si adirava vedendo il mondo arabo agonizzare goffamente - ansimare per uscire dal suo deserto, e perdersi di nuovo. Non solo in senso politico, ma soprattutto in senso psicologico. La salvezza era difficile: E così lenta ad arrivare. Il giugn,o 1967 sembrò mettermi per qualche mese un coperchio addosso. Anche i miei occasionali passaggi a Betlemme, finora possibili come un rituale rigeneratore, divennero impossibili. L'essenziale, finora così gelosamente salvaguardato, sembrava fosse stato colpito. Dovevo assicurarmi che venisse curato fino alla guarigione. Ma i palestinesi, in vent'anni, benché esuli, benché dispersi in tutto il mondo, hanno superato il battesimo del fuoco e sono stati rigenerati: per quanto possano sembrare frammentati, sono diventati una nazione. E, come ogni nazione, devono essere presi in considerazione, per la prima volta forse da quando hanno iniziato la loro lotta contro il Sionismo, cinquant'anni fa. Alla fine il disastro aveva fatto il suo danno. Il suo unico effetto, paradossalmente, adesso poteva essere quello di rompere la diga e di lasciar uscire la marea che era andata crescendo per vent'anni. Ma questa è un'altra storia. Il palestinese può ancora essere un esule e un errante, ma la sua voce si leva con rabbia·, non con lamenti. Altre tragedie l'hanno colpito, altri tentativi malvagi per contenerlo sono stati fatti, ma il suo senso della nazione, così incrollabile, è sostenuto adesso dà una capacità di azione più ricca di risorse e versatile che mai. Il deserto ha dato frutti? Certamente, ma pochi di loro sono lisci al tatto o dolci al gusto. Continuerà a essere così finché l'esule troverà, o si aprirà, la strada per tornare alla sua terra. . LA PORTA DI MANDELBAUM Hemil Habibi traduzione di Isabella Camera d'Afflitto (1978) Nato ad Haifa nel 1922, Hemil Habibi è stato uno dei fondatori dell'organo del Partito comunista palestinese "al Ittihad" (L'Unità). Da quel partito è nato poi l'attuale Partito comunista d'Israele Rakah, che Habibi ha rappresentato come deputato alla Knesset per diverse legislature. Egli vive e lavora a Haifa, come pubblicista: La sua opera narrativa è già nota· al lettore italiano per due volumi: Lasestinadeiseigiomi(Ripostes, Salerno 1990) e soprattutto il romanzo·ardito e vivacissimo Le straordinarie avventure di Felice Sventura il Pessottimista (Editori Riuniti, Roma 1990). Il racconto che pubblichiamo è del 1954, quando Habibi, con tanti altri, poteva ancora sperare in una soluzione della questione palestinese fondata sui valori della generosità e comprensiÒne umana. È dunque assai diverso, nel tono di fondo, dalle due opere.citate, più recenti. La "porta di Mandelbaum" è stata a Gerusalemme, tra il 1948 e il 1967, l'unico passaggio tra la parte della città occupata da Israele e quella rimasta in mano alla Giordania. STORIE/HABIBI - Senta, lei non· avrà mica intenzione di uscire da questa . parte? - gridò il poliziotto israeliano che se ne stava con le braccia incrociate davanti alla porta di Mandelbaum. Gli. dissi che eravamo venuti con nostra madre. la quale "avendo ricevuto l'au-torizzazione, aveva intenzione di entrare proprio da quella parte"; e indicai il lato giordano della porta. Eravamo alla fine dell'inverno, e il sole preannunciava la primavera là dove le rovine avevano lasciato che la terra si_ ricoprisse un po' di verde: rovine dappertutto, a destra e a sinistra. Alcuni bambini con le treccioline sulle tempie, che si divertivano tra le rovine e il verde, avevano stuzzicato la curiosità degli altri bambini, venuti con noi a salutare la nonna: - Ragazzini con le trecce? Ma com'è possibile! In mezzo alla grande piazza asfaltata e polverosa, che noi conoscevamo come al-Musrara, c'erano due porte fatte di lamiera imbottita di pietra e dipinta di calce bianca: quella "di qua" e quella "di là", che consentivano il passaggio di una sola macchina alla volta, in entrata o in uscita. Il poliziotto pronunciò la parola "uscire" tra i denti, come se volesse darmi una lezione. Sembrava che per lui significasse: "uscire dal paradiso". Era questa la cosa straordinaria, e n·on il ' fatto di "entrare di là". Il doganiere non voleva che ci sfuggisse questa sfumatura, perché __.: quando ci scambiammo i baci d'addio con nostra madre - ci disse: - Chi esce di qua non ci ritorna più! Credo che nostra madre sia stata perseguitata da un pensiero simile negli ultimi giorni trascorsi con noi. La sera prima della partenza per Gerusalemme, quando la famiglia e gli amici si erano riuniti in casa sua, aveva detto: "E così sono arrivata a vedere con i miei occhi quelli che fanno le condoglianze per il mio funerale". E al mattino, quando scendemmo giù per il vicolo verso la macchina, lei si voltò indietro per salutare con la mano gli ulivi, l'albero di albicocche secco, la soglia di casa ed esclamò: "Sono vent'anni che vivo qui, chissà quante volte sono passata per questo stesso vicolo, su e giù!" Quando la macchina passò vicino al cimitero, alla periferia della città, lei si mise a chiamare ad alta voce i nomi dei morti che aveva conosciuto: quelli della sua famiglia e quelli della sua generazione. Poi, rivolgendo un saluto alle loro tombe, disse: "Perché non ho avuto la fortuna di essere sepolta anch'io qui? E ora, chi porterà i fiori sulla tomba della mia nipotina?" Quando era andata in pellegrinaggio a Gerusalemme, nel 1940, un veggente le aveva predetto che sarebbe morta nella Città Santa; vuoi vedere che alla fine quella profezia si stava avverando? Ormai aveva settantacinque anni e non si era mai sentita il cuore così lacerato. Una sensazione che lasciava un vuoto nel1'anima e una angustia al, petto, proprio come il rimorso di coscienza, la nostalgia per la patria. Ma se si fosse interrogata sul significato della parola "patria", le cose le si sarebbero confuse in testa come le lettere di una parola sconosciuta trovata in un libro di preghiere: forse era la casa, la tinozza del bucato, o il mortaio, ereditato da sua madre, che serviva a preparare la kubba'. Tutti l'avevano presa in giro quando aveva detto che voleva portarsi dietro quella vecchia tinozza. Quanto al mortaio, non ebbe neanche il coraggio di pensare a prenderlo! Forse la patria poteva essere anche il richiamo matt_utinodi quella che vende il Laban2 , o il campanello del venditore di cherosene, oppure la tosse di suo marito tisico; e che dire delle notti di nozze dei suoi figli, tutti 55
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