Linea d'ombra - anno IX - numero 63 - settembre 1991

· STORIE/ JABRA II Il senso di smarrimento, in un esule, è diverso da tutti gli altri sensi di smarrimento. È la sensazione di aver smarrito una parte del proprio io interiore, della propria essenza interiore. Un esule si sente incompleto anche se ha a portata di mano, fisicamente, tutto quello che può desiderare. È ossessionato dall'idea che solo il ritorno in patria potrebbe liberarlo da tale sensazione, porre fine alla perdita, reintegrare l'io interiore. Tornato in patria, in pochi anni avevo visto prender forma una nuova società araba, specialmente a Gerusalemme, la cui assenza, o la cui lontananza, mi riempiva di un senso di dolore. Gente della mia generazione aveva dato a quella società un certo colore, un certo significato e una certa coesione che dopo il suo smembramento scoprimmo essere diversi, quasi unici, arabi. In parte tutto questo rinacque anni dopo, in maniera stranamente ibrida, a Beirut, la città che vide riunito il maggior numero di palestinesi in gamba e intraprendenti .. Ma anche a Beirut era una società in esilio, per quanto brillanti fossero i suoi membri. Distrutta, benché in qualche modo salva. Contribuiva in mille modi alla vita locale, ma sempre soffrendo. Non era una semplice questione di alienazione, un gruppo formato da molti individui sradicati: il malessere era profondamente collettivo e profondamente individuale nello stesso tempo. Si era sradicati come persone e come gruppo, e le due cose sembravano oscillare in base a un impulso misterioso. I palestinesi come individui erano diventati erranti. Li si trovava, nel loro errare, in Egitto, in Iraq, in · Kuwait, lungo le coste del Golfo arabo, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in India, dappertutto. Nel giro di pochi anni la dispersione era stata assolutamente globale. Si raggruppavano, si dividevano, tornavano a raggrupparsi e si dividevano di nuovo. La sensazione di essere alla ricerca del proprio io interiore smarrito li ossessionava, li spingeva a muoversi in continuazione. E ogni palestinese era esule a modo suo, anche all'interno del mondo arabo. Tawfiq Sayigh, che andò in esilio negli Stati Uniti, ripeteva un détto famoso: "Peggio dell'esilio in terra straniera è l'esilio in patria" - intendendo con patria il mondo arabo. Il tema dominante della sua poesia era infatti l'esilio. (È morto esule a Berkeley, ìn California, ed è stato sepolto là, in un grande cimitero, con un cinese a destra e un giapponese a sinistra:. straniero fino alla fine.) Nell'universale tragedia dello spossessamento, della cacciata e del massacro che ha sommerso un intero popolo, ciascuno di noi ha naturalmente i suoi dolori personali causati dalla perdita violenta di amici e parenti. Nel pieno della sommossa del maggio 1948, la morte di un caro amico, colpito a Gerusalemme da una pallottola ebrea, simboleggiò per me almeno un aspetto della comple·ssa tragedia. Albert Atallah era un giovane il cui amore aveva abbracciato il mondo intero: era membro del comitato dell' Arts Club (di cui ero presidente) e vedeva sempre che le letture e i concerti organizzati dal Club erano seguiti da ebrei quanto da arabi. Una pallottola lo colpì e gli perforò l'intestino. Shock di questo tipo arrivavano in rapida successione. Si continuavano a raccogliere notizie sui propri amici: uccisi, dispersi, perduti. Col tempo la sensazione di appartenere alla terra palestinese, invece di diminuire, negli esuli andò intensificandosi. Gli israeliani avevano fatto un grave errore di calcolo pensando che i profughi, che al tempo erano per la maggior parte contadini analfabeti o 54 semi-analfabeti, avrebbero ridotto il loro problema a quello della semplice sopravvivenza a ogni costo. Intellettuali palestinesi spuntarono improvvisamente dappertutto: scrivendo, insegnando, parlando, facendo cose, influenzando l'intera società araba in molti modi imprevisti. Affrontavano il loro senso di smarrimento rendendo il loro esilio un elemento di forza, creando una mistica dell'essere palestinesi. Bisognava essere ciechi per non vedere che prima o poi l'intera faccenda si sarebbe evoluta in direzione di · un'azione violenta. Anche nell'esilio, i palestinesi divennero un motivo di preoccupazione: e ogni volta che vennero compiuti dei tentativi per stroncarli, la forza della loro motivazione sembrò crescere ancora di più. I palestinesi erranti, come ho detto, andarono dappertutto. Io, per esempio, nel giro di pochi anni mi recai in molti paesi, oltre all'Iraq: Francia, Stati Uniti, Inghilterra. Mentre un gran numero di miei amici si stabiliva in questi paesi, e molti di loro vi si distinguevano nelle loro professioni, io. insistevo a tornare nel mondo arabo. Se esilio dev'essere, pensavo, che sia almeno, per me, esilio in un mondo che, dopo l'esperienza irachena, sentivo come un mondo del domani. Negli anni Cinquanta il mondo arabo mi sembrava il "paese delle occasioni", quello a cui meglio si adattava l'idea dell'Ottocento americano di "spingere le frontiere verso Ovest": il terreno, a dispetto dell'apparente instabilità, sembrava offrire la prospettiva di un popolo che spingeva con forza le proprie frontiere intellettuali, economiche e sociali, verso un benessere e un potere che, per quanto tempo dovesse essere necessario, avrebbero portato con sé la rigenerazione della nazione. E i palestinesi, benché spesso molestati, criticati, imprigionati, deportati, erano sempre all'avanguardia con i pionieri. Fin dall'inizio i palestinesi avevano dichiarato che il loro destino e quello della nazione araba erano legati, erano in realtà uno solo. I palestinesi non potevano fallire, a meno che falÌisse l'intera nazione araba. Ma essi sapevano anche quanto dipendeva da loro stessi: dalla loro efficacia come forza capace di far lievitare un futuro significativo per gli arabi ovunque. La maggior parte del lavoro creativo della mia generazione dovrebbe essere visto sia nell'ottica dell'esilio. Era una mistura di nostalgia e anticipazione: una mistura di passato e futuro, con pochissimo presente di cui parlare. La letteratura palestinese moderna, di fatto, nacque all'estero nel corso del ·primo decennio della diaspora, in questa agonia di passato e futuro. Fino al 1948, sul piano intellettuale, noi eravamo più o meno un'appendice dell'Egitto. Avevamo due o tre buoni poeti e quattro o cinque buoni prosatori, i quali però non avrebbero mai trovato posto, allora, in un'antologia della letteratura araba. Ma dal 1960 la scena letteraria è completamente cambiata. Negli.anni Sessanta i poeti palestinesi che vivevano in patria sotto l'occupazione israeliana, avendo assorbito l'influenza degli scrittori in esilio, esplosero sulla scena con voci di fuoco. Nel 1970 la poesia e la narrativa palestinese avevano dato alla letteratura araba nel suo complesso un colore, una forza, uno stile loro propri. Per me, fino al 1967, l'esilio da Gerusalemme era il fatto centrale della mia vita, per quanto intensamente partecipassi ali' attività letteraria e artistica di Bagdad, e anche di Beirut. I miei racconti (l'ultimo dei quali fu scritto nel 1956) parlavano sostanzialmente delle mie esperienze pre-1948 a Betlemme e a Gerusalemme. I romanzi che ho scritto dopo quella data, mi sembra

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