STORIE/ JABRA qualche atto di carità. I profughi della seconda guerra mondiale riempivano ancora i campi di passaggio in Europa, in attesa di essere "sistemati" al di fuori dei loro paesi d'origine, e noi saremmo stati messi con loro, al massimo un problema demografico in più per le Nazioni Unite, in modo da non aggiungere un altro peso a una coscienza mondiale già molto gravata. La simpatia universale era già stata compromessa in modo da favorire i nuovi Giosuè che abbattevano le mura di Gerico, se non coi loro rauchi comi, con la distruzione pianificata di una nazione che doveva essere immediatamente salutata come un eroico "ritorno" dai romanzieri mestieranti e dai propagandisti europei e americani. Da olocausto a olocausto. In un mondo come quello del XX secolo, pieno di giornalisti, film, trasmissioni radiofoniche eccetera, noi avremmo potuto essere gli abitanti di una Gerico di tempi immemorabili. Voi schiacciate gli abitanti disarmati, in un certo senso, li terrorizzate con pallottole e gelatina, gettate due dozzine di cadaveri dei loro uomini, donne, bambini assassinati in un pozzo e li scacciate: loro manderanno un SOS ai loro cugini confinanti (gli antichi amoriti e gebusiti devono aver fatto la stessa cosa, con gli stessi risultati) e i loro cugini, già più sottilmente terrorizzati, invieranno pochi soldati e volontari sgangherati solo per dimostrare che non si poteva davvero far nulla. Adesso dite alle vittime: "Siete profughi, non date fastidio: faremo qualcosa. Tra qualche mese arriveranno gli aiuti per i profughi: sarete numerati e ospitati in tende stracciate e in baracche di lamiera. E cercate di dimenticare, per favore. Restate lì, dovunque siate, e cercate di dimenticare". Ma una società non è solo un mucchio di uomini e di donne che sopravvivono insieme in un posto qualsiasi. Un uomo appartiene a un insieme di relazioni complesse difficilmente definibile che, una volta distrutto, ha bisogno di molto tempo per essere ricostruito, magari secondo un nuovo modello. E molti degli uomini e delle donne che, come me, erano stati strappati al loro "modello" originario, sembravano catapultati nello spazio: da qualche parte, alla fine, sarebbero atterrati senza dubbio, in cattive condizioni, magari, rna non necessariamente distrutti. Colpiti, ma non sempre e non del tutto rovinati. C'è un'essenza, a quanto pare, che non è facile distruggere, per quanto la si danneggi. Dimenticare, comunque, era semplicemente impossibile. E lo stato di profughi era una cosa che rifiutavano. Era impensabile. Attaccati con forza alla loro ragione, avevano incominciato la traversata dell'assurdo cosmico. Così iniziarono i trent'anni (finora) dell'esilio palestinese. Betlemme fu lo scenario della mia infanzia fino ai dodici anni - uno scenario che da allora ho sempre ricordato con affetto particolare e di cui ho scritto molto. Ma ritornarvi provenendo dalla Gerusalemme del 1948 non era esattamente un ritornare alle proprie radici. Io arrivavo da un massacro: un luogo di tregua con le caratteristiche dell incubo. Era un enorme confusione di gente che fuggiva dalle città e dai villaggi vicini, in un orribile sbalordimento. Il posto era semplicemente invivibile. Non si poteva lottare, non si poteva lavorare, non si poteva vivere in nessun modo. La gente chiedeva di lottare, ma non arrivavano armi da nessuna parte. Parlavano, gridavano, si riunivano e si disperdevano senza senso. Eppure, quando i nostri soldi furono finiti, con . quale riluttanza l'abbandonai in cerca di un lavoro. 52 Ma lasciarlo fu un diverso tipo di orrore. Andando in Transgiordania, io ero uno delle migliaia di giovani con una certa cultura che cerfavano una sistemazione di qualche tipo per sé e per le proprie famiglie. La Transgiordania era allora un altro stato, e una guardia di frontiera vicino all' Allenby Bridge di quei giorni mi chiese una mancia per vistare il mio passaporto. Mi rifiutai: semplicemente, non avevo i soldi. Ad Amman avevo bisogno di un visto libanese per· poter andare a Damasco o a Beirut - pensavo di poter ottenere un posto di insegnante all' American University di Beirut, se fossi riuscito ad arrivare in Libano. Ma il Consolato libanese non era accomodante. Non si poteva superare la scrivania di un impiegato di basso livello che diceva solo: "Niente visti. Abbiamo già abbastanza gente come lei a Beirut". Per fortuna incontrai per-la strada uno dei miei vecchi studenti della Transgiordania, diventato un influente uomo d'affari. Grazie alle sue risorse, mi procurò un documento da mercante che persuase qualche addetto all'Ufficio Stranieri a inviare una lettera in mio favore al consolato libanese, chiedendo che mi fosse rilasciato un visto. E così ottenni il visto. Andai dunque a Beirut, e rimasi con un amico palestinese, Ali Kamal, che insegnava medicina all' AUB. Capivo che non stava bene. Lottava contro un grave esaurimento nervoso causato dal fatto che aveva perso la casa e non sopportava il lavoro. L' American University, intuii, non era esattamente in attesa del mio arrivo. Fui ricevuto molto gentilmente dal Vice-presidente, che guardò le mie credenziali accademiche con genuino interesse, ma disse: "Ahimè! Troppo tardi per l'anno accademico in corso, e troppo presto per il prossimo. Inseriremo il suo nome nel nostro schedario". Una settimana dopo dovevo andare a Damasco, ma prima di lasciare Beirut fui avvertito che se volevo tornare in Palestina (cioè, quello che ne era rimasto), dovevo procurarmi un visto per il passaggio in Transgiordania, che non aveva consolato a'Damasco. · Le mie due settimane aDamasco, squallide e disperate all' inizio, finirono improvvisamente in maniera decisiva, quasi fatale. Non c'era nessun lavoro per me in Siria, anche se alcuni dei miei colleghi e compagni che mi avevano preceduto sembravano più fortunati. La città era bellissima: ricordavo che due estati. prima ero stato, da turista, all'Orient Palace, allora il suo miglior albergo, in relativo 1usso. Niente del genere adesso, naturalmente. Mi sentivo indesiderato, di troppo, e piuttosto sciocco tentando di vendere le mie credenziali accademiche in un mercato saturo. Gli insegnanti palestinesi, compresi i vecchi che erano stati miei insegnanti, erano dappertutto. Fu a Damasco che sentii alla radio che il conte Bemadotte era stato assassinato da terroristi sionisti. Il mattino dopo accompagnai un amico ali' Ambasciata irachena, dove un addetto culturale intervistava coloro che avevano fatto richiesta di lavorare come insegnanti in Iraq. Per alcune settimane avevo opposto resistenza all'idea di andare a lavorare a Bagdad: sembrava così lontana da Gerusalemme. Avevo detto che non sarei andato a Bagdad neanche se le sue strade fossero state lastricate d'oro. L'addetto culturale era gentile. Benché poco più che trentenne, essendo pelato, con grandi occhi chiari e una pipa Peterson che fumava in continuazione, aveva un aspetto molto accademico. Inizialmente non prese in considerazione la mia domanda: disse
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