Linea d'ombra - anno IX - numero 63 - settembre 1991

PER UNA STORIA DELLA LEffERATURA PALESTINESE a cura di Isabella Camera d'Afflitto Secondo gli specialisti del ramo, la letteratura palestinese nasce nel 1920 quando Khalil Baydas pubblicò il romanzo al-Warith (L'erede) in cui, per laprima volta nella produzione araba, si descrive L'attaccamento del contadino della Palestina alla sua terra. Un altro classico di questa produzione letteraria è Mudhakkirat dagiagia (Memorie di una gallina), un romanzo allegorico sull'immigrazione ebraica in Palestina, scritto nel 1946 da lshaq Musa al-Husaini. Oggi Laproduzione letteraria palestinese è - cosa del tutto comprensibile - strettamente legata alle vicende storico-politiche della regione: è una prosa (ma anche una poesia) che parla di guerre, profughi, esodo, tende, resistenza, intifada, e così via. Ma è fin dal 1948 ~data dellafondazione dello stato d'Israele e dell'inizio della diaspora palestinese, eventi che nella comune coscienza araba sono riassunti dalla parola nakba, vale a dire catastrofe - che si nota una prima netta differenza in seno a questa produzione Letteraria: da una parte ci sono scrittori e poeti palestinesi rimasti in patria e diventati volenti o nolenti cittadini d'Israele, e dell'altra quelli della diaspora, che scrivono le proprie opere dai "paesi arabi fratelli" dove sono ospitati non sempre di buon grado. E con la morte nel cuore di chi haperduto lapropria terra, Lapropria casa, ilproprio paradiso, da lontano ingigantito e idealizzato, e di chi si trova ad affrontare una nuova vita in casa d'altri, o in casa propria diventata casa d'altri, inizia il percorso umano e letterario del poeta e scrittore palestinese.· Non deve così sorprendere una certa ripetitività delle tematiche, un comune ricorso alla simbologia, un esasperato desiderio di far conoscere la propria storia ai lettori di mezza mondo, nella convinzione che la letteratura possa superare ogni confine e ogni barriera politica o ideologica, e nello stesso tempo sia un mezzo efficace per far conoscere le buone ragioni dei palestinesi. Non a casa Moshe Dayan diceva, a proposito delle liriche di Fadwa Tuqan, che una singola poesia si poteva trasformare in venti fida'yyin. Tra lafine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta si impongono sulla scena letteraria araba poeti e narratori come Mahmud Darwish, Samih al-Qasim, Ghassan Kanafani, Giabra Ibrahim Giabra, Hemil Habibi, oggi conosciuti e tradotti anche in molte lingue occidentali. Ma prima che lafama di questi autori potesse uscire dh.ll'ambito Localesi è dovuto aspettare il 1967, quando la guerra di giugno ha di nuovo imposto all'attenzione internazionale il problema mediorientale. E da questo momento lo scrittore arabo in genere, e quello palestinese in particolare, si accanisce con rabbia e disperazione contro quella che ritiene un'ingiustizia subita e trasferisce nei propri scritti tutta l 'amarezza, la solìtudine, L'incomprensione, lafrustrazione-quel sentimento di qhurba, per dirla con parola araba - che sente dentro di sé. Capolavoro della narrativa palestinese è Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani, che è anche il romanzo palestinese più noto in Europa (in Italia è di prossima pubblicazione presso Selleria). Qui è raccontata la triste storia di tre palestinesi sfuggiti alla miseria di un campo profughi della Cisgiordania non ancora occupata da Israele per cercare di raggiungere L'allora fiorente Kuwait. Considerato tra i massimi narratori arabi contemporanei, Ghassan Kanafani rimane Legato all'insoluto problema palestinese su cui ha scritto con grande talento, partecipazione e umanità (è recente la pubblicazione, per Le Edizioni Lavoro, di un altro suo romanzo_: Ritornoa Haifa;-di Lui"Linea d'ombra" ho pubblicato nel n. 58 il racconto Solo dieci metri). Ma la tragedia palestinese può fare anche sorridere come nel caso dell'ironico romanzo (pubblicato dagli Editori Riuniti). II pessottimista di Hemil Habibi, oggi cittadino israeliano. Resa più problematica dalla costante incertezza per il proprio futuro è, infine, Laproduzione letteraria dei territori occupati (la Cisgiordania e la Striscia di Gaza occupate da Israele nel 1967) che trova in Sahar Kaalifa, autrice della Svergognata (pubblicato da Giunti/Astrea), una delle sue più significative rappresentanti. L'ESULE PALESTINESE COME SCRlffORE Jabra Ibrahim Jabra traduzione di Alberto Cristo/ori I Nel lontano 1952 scrissi che il Palestinese errante aveva sostituito l'Ebreo errante. Un orrore storico, che nei secoli aveva assunto la forza di un mito, sembrava rivivere dopo il 1948. Era paradossale che i nuovi erranti dovessero essere spinti nel deserto proprio dai vecchì erranti. Ogni volta che, in quei giorni, lasciavo il mio rifugio di Betlemme per andare nelle capitali del mondo a guadagnarmi da vivere, si intensificava la sensazione che il mondo fosse un deserto. Se qualcuno usava nei miei confronti la parola "profugo", mi imbestialivo. Non stavo affatto cercando asilo. Nessuno dei miei compagni palestinesi erranti cercava asilo. Offrivamo tutti i nostri talenti e le nostre conoscenze in cambio della possibilità di vivere, di sopravvivere. Eravamo venditori ambulanti di conoscenza a un'altra tappa del loro viaggo apparentemente infinito. Nell'autunno del 1948, quando i doganieri, al mio arrivo a Bagdad, mi chiesero di aprire i bagagli, offrii loro una valigia rovinata pieria di libri e di carte, una scatola di colori e pennelli e mezza dozzina di disegni su compensato. Non ero un profugo, e ne ero orgogliosissimo. In quei giorni mia madre, i miei fratelli e io avevamo trovato un paio di stanzette all'ultimo piano di una casa sgangherata a Betlemme - ma con una vista stupenda sulla Valle dei Pastori. Dovemmo lasciare la nostra casa di Gerusalemme agli invasori la mattina dopo che loro avevano fatto saltare il Semiramis Hotel - quasi di fianco a noi - nel pieno di una fredda notte di tempesta, uccidendo tante persone, alcune delle quali conoscevo personalmente, tra cui un mio carissimo amico. Innocentemente, pensammo che stavamo per lasciare la nostra casa solo per due o tre settimane. È sorprendente l'effetto che cinque o dieci miglia possono avere sul-nostro senso delle distanze, quando la nostra casa è occupata e noi non possiamo farvi ritorno. A Betlemme mi · sembrava. di essere a diecimila miglia dalla città che potevo vedere al di là della valle. Le armi sioniste puntate verso di noi non erano una semplice barriera fisica: ci ricordavano che la nostra città, per noi, doveva essere d'ora in poi solo una memoria, un sogno, che dovevamo ripartire da zero. Godetevi il panorama, se potete, in mezzo a migliaia di senzatetto. Ma siete stati strappati dalle radici. I vostri libri, le vostre idee, le vostre•prospettive: sono cartelli assurdi in un mondo in cui l'assurdo regna supremo. Aggrappatevi alla vostra fede e godeteveli, se potete, quando non sapete da dove verrà il prossimo pezzo di pane. Lo stesso giorno in cui venne fondato lo stato di Israele, sapevo che la popolazione scacciata sarebbe stata deliberatamente chiamata "i profughi", che il tremendo probl~ma politico e umano sarebbe stato distorto in modo tale che la reazione che ci si poteva aspettare da un mondo allora stanco sarebbe stata al massimo 51

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