Linea d'ombra - anno IX - numero 63 - settembre 1991

INCONTRI/ JABRA , e nella parola. Bisognava assolutamente cambiare. Ci siamo resi conto di esser stati ingannati. Il vecchio non ci è stato utile, ci ha illusi. Per questo bisogna rifiutarlo. E trovare qualcosa di nuovo. Cosa e come, concretamente ? È su questo punto che ruota tutto quello che ho fatto dal 1948 fino a oggi. Non solo in Iraq, ma nel quadro del mondo arabo più in generale. Tutto quello che ho scritto, che ho detto, tutto ciò che ho intrapreso, nell'ambito dell'arte, della pittura, delle arti figurative, ha fasciato un segno profondo sia in Iraq sia nel resto del mo11doarabo. Quando arrivo al Cairo e trovo che la gente sa qualcosa di quello che ho fatto sono felice. Quando sto con gli scrìttori parlo di letteratura, quando sono fra gli artisti discuto di arte. I miei interessi si riflettono in quelli di molte categorie di persone, peraltro diverse, che si ·occupano di arte. È così che la vita si fa ricca: nelle sue molteplici possibili forme di creazione. L'esilio in questo senso può essere quasi un vantaggio: per molti palestinesi è così. È occasione - certo non scelta, e pagata a caro prezzo ~ anche di confronto con l'altro, il nuovo. È rottura, uscita dal contesto che è loro proprio. È approfondimento (in maniera diversa) del legame con una terra assente e quindi ancora più amata. L'egira (la migrazione) non è solo una calamità ... No, certo. È sperimentazione dello sradicamento, dell'essere i divelti alle proprie radici. Il fatto fondamentale è però che il palestinese è sì sradicato ma non sottomesso. È stato strappato, spedito in un campo, in una città che non conosce, ma fa funzionare il suo cervello, mette in moto la fantasia, sfrutta le sue capacità. Studia, notte e giorno ... Ecco perché nei paesi arabi coloro che si distinguono nel campo intellettuale, nella letteratura, sono spesso palestinesi. Forse è proprio vero, la necessità fa virtù. L'egira è cosa dolorosa per l'uomo. Il palestinese però è riuscito a dominare il suo dramma è le sue sofferenze, rendendo servizio alla società araba, attraverso la sua conoscenza, il suo . agire, la sua abnegazione. I palestinesi sanno cos'è una tragedia, sanno cosa vuol dire soffrire. Per questo nel loro agire c'è sempre qualcosa in più che nelle azioni di chiunque altro non conosca il significato tragico dello sradicamento. La condizione palestinese è particolare anche dal punto di vista religioso. C'è una forte presenza cristiana esemplarmente integrata nella rivendicazione nazionale che accomuna ipalestinesi tutti: i cristiani (come lei) e i musulmani ... Parlo proprio per esperienza personale: non penso ci sia nessuna differenza fra il palestinese cristiano e il palestinese musulmano. Firi dall'inizio del secolo la questione palestinese si è definita come una questione puramente politica. Sia il cristiano sia il musµlmano hanno resistito ali.o stesso temibile nemico. Entrambi convergevano su un punto: la loro comune arabità. E l'essere arabi è un fattore che unisce cristiani e musulmani fin dai tempi più remoti. Non è un fatto nuovo. I cristiani sono anch'essi arabi. Come lei sa, la maggior parte degli arabi, prima dell' avvento dell'islam, erano cristiani. Cristiani della penisola arabica, dello Yemen, della mezzaluna fertile, la Siria e la Palestina. Solo successivamente si sono 1slamizzati: c'è chi si è convertito ma anche chi è rimasto cristiano. La storia è molto ch.iara.Tutti sono 50 però prima di tutto arabi. In Palestina è un dato che resta tuttora fondamentale. Non si può riconoscere un cristiano da un musulmano. E la Palestina è forse l'unico paese dove per esempio l'accento non permette di distinguere l'uno dall'altco, mentre in altri paesi la parlata spesso varia un poco fra cristiani e musulmac Ili. È una grande fortuna la nostra, e dobbiamo renderne grazie a dio! Non bisogna mai dimenticarlo, anche quando talora si ravvivano i movimenti islamici, nel nome del jihad o nel nome della questione palestinese. Bisogna ricordare che anche i cristiani avanzano a modello una delle più eccelse forme di martirio, nel loro modo di concepire il "fidà", il sacrificio, e nel loro modo di leggere e interpretare la figura del Cristo crocifisso per redimere l'umanità. Anche i cristiani parlano in questo senso di martirio per il paese che amano e a cui non rinunceranno mai. Jabra Ibrahim Jabra, un'ultima domanda. Cosa vuole dire per lei "ebreo" ? Piuttosto:. qual è stata l'evoluzione del senso della parò la "ebreo" nel corso della sua vita ? Quando ero piccolo l'ebreo era l'ebreo, un'altra comunità. Non potevamo capirli: sono cresciuto in un ambiente povero, dove regnava l'analfabetismo ... E solo ogni tanto ci si rendeva conto che c'erano degli ebrei. ,Quando ci siamo trasferiti a Gerusalemme invece gli ebrei li vedevamo tutti i giorni. Apparivano sempre come qualcosa di altro, che non si mescolava a noi. Anche se ricordo benissimo che.in un quartiere di Gerusalemme ebrei e arabi vivevano assieme. E gli ebrei parlavano arabo. Quando però ha cominciato a svilupparsi il movimento sionista, gli ebrei hanno preso a separarsi, a distinguersi dagli arabi come culturalmente diversi. Il palestinese ha così cominciato a sentire, anzi a avere la certezza, del fatto che l'ebreo non si differenzia da lui semplicemente per la sua fede. Cosa questa che gli arabi avevano sempre accettato. E la miglior prova è che è stato proprio all'interno del contesto culturale arabo che gli ebrei hanno vissuto il loro rinascimento, che hanno creatò pensiero e filosofia partecipando al momento di massimo splendore della lingua e della cultura araba. L'effetto del sionismo è stato che gli ebrei hanno cominciato deliberatamente a differenziarsi dal resto degli abitanti della Palestina. Hanno iniziato a fare riferimento a coloro che arrivavano in Palestina provenienti dall'Europa, dalla Russia, dalla Polonia eccetera. È così diventato difficile distinguere l'ebreo dal sionista. Questo processo di trasformazione da ebreo quanto a fede a sionista quanto a dottrina - perché il sionismo non è un credo religioso bensì politico- ha fatto sì che il conflitto arabo sionista fosse un conflitto culturale e non un conflitto religioso. I palestinesi non sono in conflitto religioso contro nessuno. Sono in conflitto culturale contro il sionismo. Io credo che esistano ebrei che desiderano abbandonare le tentazioni sioniste, sfuggire loro per tornare a co~vivere con gli arabi. È un fatto sempre più evidente in Palestin'a: sono in molti a pensare in questo modo. Per i palestinesi però l'ebreo resta ancora. quasi sempre il sionista che è venuto a occupare la sua casa, colui che vuole impedirgli di vivere. Ma non sarà C.OSÌ, se dio vuole! Intervista realizzata per la Televisione della Svizzera Italiana · (Lugano) che ringraziamo.

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