all'albero maestro di una nave non ha mai tollerato d'esser stata issata invano? Comé può esserci ancora qualcuno capace di immaginare che le 40.000 tonnellate di acciaio di una corazzata o le 80.000 di una portaerei non bastino da sole a rendere improponibile la possibilità di ammainare quella bandiera senza aver prima scaricato tutta la tempesta di fuoco, ferro e morte che la nave ospita in grembo? [...] E chi, infine, conoscendo la superbia militare anglosassone e l'ottocentesco orgoglio patriottico nordamericano - pura anticaglia screditata per -glieuropei - ha potuto pensare che 200.000 soldati statunitensi come quelli che già alla fine di settembre s'erano accampati in Arabia Saudita non supponessero già una compromissione per l'onore della bandiera delle stars and stripes sufficiente a far sì che il conto di qualunque disputa diplomatica fosse elevato a tali livelli di esigenza da far risultare un disonore per la nazione e un affronto per il suo esercito ogni accordo il cui livello di intolleranza non comportasse un grado di umiliazione del nemico equivalente in pratica a una vittoria? D'altro canto, già in quei lontani giorni di fine settembre, PatrickTyler, corrispondente del giornale "The Washington Post" da Riad, aveva osservato, con maliziosa lucidità, come proprio una subitanea ritirata dal Kuwait da parte di Hussein, con la liberazione di tutti gli ostaggi, fosse lo sconvolgente incubo che tormentava sonno e veglia di occidentali e sauditi. Una simile vittoria sarebbe - aggiungeva Tyler - quella che i membri dell'Amministrazione Bush e a dirigenti sauditi e kuwaitiani meno vorrebbero assaporare [... e] alcuni americani e sauditi arrivano addirittura ad affermare che quest'eventualità significherebbe una sconfitta. [...] Talediscordanza . tra ciò che si desidera in privato e ciò che si dice in pubblico riflette il desiderio fervente che c'è tra membri dell'Amministrazione statunitense, esponenti del congresso, dirigenti arabi e leader di Israele affinché l'attuale situazione serva ad annientare la macchina bellica irachena in una guerra ... È dunque evidente che la distruzione dell'esercito iracheno, e - si noti bene - con priorità rispetto allo stesso recupero del Kuwait, era già in vista almeno due mesi prima della risoluzione 678 dell'ONU, che è del 29 novembre. Quello che si è detto e fatto nei due mesi che precedettero tale risoluzione e nei 47 giorni intercorsi tra essa e l'attacco rivela la sua verità alla luce del fatto che già almeno a fine settembre la semplice ritirata dal Kuwait da parte di Hussein veniva considerata dagli alleati come una sconfitta. Gli Stati Uniti offrirono a Hussein di lasciare immune l'Iraq solo quando, per la presenza di 400.000 soldati nordamericani e a soli sei giorni dalla scadenza dell'ultimatum, la ritirata dell'esercito iracheno dall'emirato annesso avrebbe acquistato in pieno il carattere di una umiliazione o resa strappata con la forza e pertanto del tutto equiparabile a una vittoria militare. V. Già nel 1984 il grande giornalista nordamericàno James Reston scriveva sul "New York Times": "Gli europei conside-- rano la diplomazia come un esercizio del compromesso per cercare una via d'uscita dai problemi·; il signor Reagan è invece convinto che sia una lotta dove c'è un vincitore e un vinto. Gli europei pensano che l'obiettivo sia l'accordo e che nessuna delle due parti dovrebbe vincere, mentre l'obiettivo di Reagan è vincere". Tale caratterizzazione vale probabilmènte per lo stile SAGGI/SANCHEZ FERLOSIO generale della diplomazia nordamericana, benché sia sempre meno esclusiva di essa: già l'allora presidente del Guatemala Mejfa Victores, alla domanda se pensava di negoziare con la guerriglia, rispose di no e aggiunse: "Chi tratta, perde". [... ] Da tale stile diplomatico discende la perversa servitù secondo la quale nessuna azione viene valutata di per se stessa, bensì sulla base del fatto che le si possa o meno attribuire il valore di punto da segnare come trofeo di vittoria. Perciò, pur essendo la detenzione di ostaggi estranei al conflitto un'infrazione del diritto internazionale di gran lunga più grave della stessa invasione del Kuwait, la liberazione di essi da parte di Hussein, essendosi verificata in un modo che impediva di presentarla come un cedimento di questi alla pressione delle armi nemiehe e convalidarla di conseguenza come punto a favore, fu ritenuta un'azione di un valore diplomatico, politico e persino umano - perché tale è l'ordine di subordinazione e dipendenza - asso1 utamente nullo. Ma lo stesso Hussein sembrò, da parte sua, voler dare al gesto un carattere di regalo al tempo stesso generoso e dispregiativo, fino all'estremo che la reazione del presidente Bush lasciò intravedere una maggior dose di ìrritazione che di gradimento, forse per il timore - che si dimostrò subito totalmente infondato - che tale liberazione potesse sminuire agli occhi dei tiepidi le dimensioni della malvagità del Malvagio, tanto necessaria per santificare la Causa Occidentale. VI. Niente dimostra la funzione di mero alibi (per azioni che seguono il proprio corso indipendente) a cui si vede relegato l'uso dell'etica meglio del fatto che l' "etica della responsabilità" si fa avanti in situazioni distese, controllabili, poco pericolose, mentre l' "etica della convinzione" suole corrugare le sue inesorabili sopracciglia e gridare il "Cascasse il mondo!" del suo motto precisamente in situazioni tese e minacciose. Quando "i princìpi", per chiamare in qualche modo i contenuti propri della convinzione hanno davanti a sé una strada relativamente aperta, il loro impulso si vede frenato da raccomandazioni di cautela o da velate incriminazioni di irresponsabilità davanti a un sempre indefinito e solo eventuale pericolo di brutte conseguenze; quando, al contrario, la situazione è realmente e immediatamente pericolosa, si invoca la supremazia dei princìpi, che devono prevalere senza riguardi, senza paura e senza fiacchezza al di sopra di sangue e catastrofi. [... ]Così, quando il pericolo di scatenare una nuova e incontrollabile tempesta di ferro, fuoco, morte e sofferenza reclamava a gran voce un' "etica della responsabilità" capace di arrestarsi di fronte alle spaventose conseguenze dell'ostinazione a impedire ad oltranza l'impunità del reo e raggiungere a qualunque costo il ristabilÌmento del diritto, si è ricorsi, invece, alla più incondizionata e temeraria· forma di "etica della convinzione": quella che innalza come vessillo il tenebroso segno escatologico che disconosce i figli degli uomini[ ... ] e si occupa solo dei due spettrali opposti che chiama Il Bene e Il Male. La risoluzione 678 dell'ONU restaurerà il Diritto Internazionale, inala sua norma "Sia fatta la Giustizia anche se dovesse crollare il mondo" sarà anche lo stigma della sua follia e della sua infamia. Copyright Rafael Sanchez Ferlosio, 1991 45
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