Linea d'ombra - anno IX - numero 63 - settembre 1991

IL CONTESTO mondo. Alla fin fine è quella che Benedict Anderson, in uno dei migliori libri sull'argomento, definisce "una comunità immaginaria". Insomma, i baathisti immaginavano una comunità di tutti gli arabi, con le minoranze che facevano parte ed entravano nel processo di unificazione. Ma l'ideologia baath ha un elemento di miopia: la minoranza deve cioè entrare nel quadro di riferimento della maggioranza. Previsioni chiare, secondo me, non ne furono fatte, perché l'idea non e(a di prendere in considerazione i diritti delle minoranze. Esse erano protette in un modo molto bizzarro durante il periodo ottomano grazie al sistema dei millet, che divideva e decentralizzava intere comunità in gruppi settari. Adesso con l'avvento del moderno stato-nazione essi vogliono unificare tutto. La posta in gioco è un progetto di proporzioni quasi bismarckiane. Se consideriamo la storia del Baath, d'altra parte, vediamo che in Siria esso governa per mezzo di una minoranza, il partito dominato dagli alawi. In Irak governa per mezzo dei sunniti. Non si tratta quindi di sunniti contro sciiti o di sunniti contro curdi. Dipende da quale gruppo è andato al potere e perché. In fin dei conti il Baath è arrivato al potere grazie all'esercito o alle conseguenze della politica tribale degli inglesi di cui ho parlato prima: per esempio in Irak:i baathisti, che formano il nerbo del gruppo che ha preso il potere nel 1968 (e quindi anche Saddam Hussein e Hassan al-Bak:r,il precedente presidente irakeno ), sono venuti da una zona particolare, il Tak:rit. I sunniti sono infatti una minoranza in Irak, no? Sì, sono meno del 50 per cento. Naturalmente, quando diciamo sunniti, comprendiamo anche tutti i curdi. Il resto sono sciiti. Ma, ancora una volta, io non punterei su un'estremizzazione. Non accetto l'idea che che è stata espressa a partire dalla guerra secondo cui ciò che abbiamo ora in Irak è una guerra tra sciiti, curdi e sunniti. Proverò a spiegare perché secondo me questo è lontano dalla verità. Gli sciiti, in quanto maggiore comunità, non hanno risposto come sciiti durante otto anni di guerra tra l'Irak e l'Iran. Erano iracheni che combattevano contro gli iraniani. Rimanevano altrettanto sciiti, ma irakeni. Quindi l'identità nazionale è molto forte. Gli oppositori, in Irak, siano essi sciiti, curdi e/o sunniti o irak:eni dissidenti contro l'oppressione del regime di Saddam Hussein, combattono essenzialmente in quanto irak:eni che tentano di scacciare un regime oppressivo e di mantenere l'unità dell 'Irak:e la sua integrità statale. Non vogliono uno stato sciita o uno stato curdo o uno stato sunnita. Vogliono un Irak in cui la democrazia prevalga per tutti i membri della società in quanto cittadini con dei diritti. Potrebbe analizzare un po' più a fondo i luoghi comuni sbagliati che sono tanto di moda oggi sull'Irak? Sono provocati dai media o da ragioni politiche? Da tutt'e due, credo. E i luoghi comuni non riguardano solo l 'Irak, ma il Medio Oriente in generale. Per esempio, la politica del dipartimento di stato in Medio Oriente si basa sulla convinzione aprioristica che al Medio Oriente sia culturalmente preclusa la possibilità di una transizione alla democrazia. Quando prendiamo in considerazione tutti coloro che hanno scritto su questo argomento, che è stato molto importante nel decennio passato a livello accademico, specialmente nel campo delle scienze politiche, vediamo che nessuno ne analizza seriamente tutti gli aspetti. Sto conducendo un'indagine, proprio in questo periodo, sul confronto tra le transizioni alla democrazia in Egitto, in Giorélania e in Algeria, e uno dei professori con cui ho parlato mi ha detto: "Crede davvero che la teoria della transizione alla democrazia si possa applicare al mondo arabo?". Insomma, c'è una convinzione aprioristica che è stata resa dominante e importante dai Bernard Lewis dell'Occidente, e adesso anche da gente del Medio Oriente, 18 come Fuad Ajami, che afferma che l'area, semplicemente, non predispone alla democrazia. Così questa è la prima convinzione politica che alla fine produce cose come quelle che si vedono sulla copertina di "Atlantic", "Le radici della rabbia musulmana", o della "National Review", "Arrivano i musulmani! Arrivano i musulmani!" di Daniel Pipes. Pazzi che non possono capire la democrazia, insomma, che vivono in una sorta di Medioevo. C'è una seconda cosa che riguarda più specificamente l 'lrak, ed è il fatto che lo si considera un paese naturalmente destinato, in caso di guerra, a disintegrarsi in sette concorrenti: sciiti contro curdi contro sunniti. Questo è lontano dalla realtà e dalla verità. Naturalmente ci sono, per esempio, dei partiti sciiti, ma sono fioriti proprio perché il regime autoritario ha distrutto l'opposizione laica e l'unico partito politico sopravvissuto era quello in grado di usare le moschee per organizzare e perpetuare le proprie idee, cioè il partito Dawa, connesso ideologicamente con gli Hezbollah del Libano e molto vicino alle articolazioni ideologiche uscite dalla rivoluzione iraniana di Khomeini. La seconda idea sbagliata sull'Irak, quindi, è che sia un paese diviso in sette. Io sostengo che non è un paese diviso in sette. Esistono una società civile irakena e un popolo irak:enoed essi vogliono liberarsi di un governo autoritario che è stato estremamente brutale - uno dei governi più brutali della zona, che ha perpetuato, per così dire, lo stalinismo dell 'esperienza sovietica. Il problema allora non è se l'Irak tornerà a essere balcanizzato come dopo la prima guerra mondiale, quando l'intera area era stata balcanizzata da parte dei francesi e degli inglesi, ma piuttosto: che cosa vuole la gente? Vogliono, in quanto irakeni, un governo non oppressivo. · È importantissimo chiarire questi due errori quando si parla del Medio Oriente oggi e dell'Irak. Ce ne sarebbero altri, ma per ora fermiamoci qui. Lei ha parlato di alcune componenti politiche di questi errori. Io direi che c'è anche una grande componente culturale. Edward Said ne ha parlato e scritto diffusamente. Il libro di Edward Said, Orientalismo, pubblicato nel 1978 (trad. it. Bollati Boringhieri 1991), ha scosso l'intero establishment degli studi sul Medio Oriente. La parola "orientalismo" è diventata una parola sporca. Nessuno ormai ama dichiarare di essere un orientalista, anche quando potrebbe obiettivamente collocarsi in quest'ambito. L'orientalismo, ridotto all'osso, consisterebbe nel considerare l'area, il Medio Oriente in questo caso, o il mondo islamico, come se esistesse davvero la categoria "mondo islamico" - un mondo statico, studiabile senza fare il lavoro empirico. È semplicemente un guardare aprioristico a idee statiche e immobili. La realtà rende falso tutto questo. Nella regione abbiamo avuto uno dei più dinamici processi di cambiamento sociale: negli ultimi vent'anni una popolazione prevalentemente rurale è diventata prevalentemente urbana; le donne hanno un ruolo centrale nella forza lavoro di molti paesi a cui ci si riferisce come a parte del mondo musulmano. Non esiste una cosa come l'Islam e il mondo islamico. C'è una società in cui esiste l'Islam. Pur comprendendo la necessità di un inquadramento teorico, credo che se assumiamo l'Islam come categoria interpretativa generale per la regione, semplicemente non teniamo conto delle differenze interne. In che modo l'Islam può gettar luce su una monarchia come quella dell'Arabia Saudita, con un sistema m.onopartitico in Algeria che nel 1988-89 è stato costretto ad aprirsi ed è finito con elezioni municipali che hanno sfidato il governo centrale e l'autorità del partito dominante? Il concetto di Islam non è una categoria di analisi in· grado di spiegare queste due realtà. Credo che l'orientalismo tentasse un approccio riduttivo, considerando l'intera regione come unificata da un'astrazione che è l'Islam. La

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