Linea d'ombra - anno IX - n. 62 - lug./ago. 1991

SAGGI/PALAZZESCHI In alto: Francesco Golisano e Brunello Bovo in Miracoloa Milano di De Sica ( 1951 ). In basso: Elena Varzi in // cammino dellosperanzadi Germi ( 1950). dove non hanno più una casa; altri invece, più tenaci, vogliono continuare sulla via della speranza che li attende alle sue tappe con le più svariate sorprese. Finché, giunti alla frontiera, quelli che riescono ad arrivarci, trovano finalmente un sorriso sulla bocca dei doganieri delle due parti che dopo averli rimproverati a dovere, li lasciano andare. In un finale un po' melodrammatico la compagnia si allontana sulla neve. Valore sociale? Se di opere come questa ne fossero state create una o due, e con spirito più obiettivo, si potrebbe credere, ma l'abuso esclude una tale possibilità. Si tratta ormai di un genere che dobbiamo giudicare esclusivamente dal punto di vista dell'arte. E diremo senza indugio che l'arte c'è. Il regista, Pietro Germi, che ci ha dato una buona prova con In nome della legge, con questo film ci offre la conferma. La potente d[ammaticità è resa con evidenza e misura al tempo stesso. Germi è sobrio, una volta trovata la bella inquadratura non ci si smammala su, ha senso dei tempi e procede con un ritmo da signore. Non viene voglia di cercare le incrinature in questo film. Le critiche che si possono muovere riguardano il soggetto che il regista è il primo a denunziare. Quel duello rusticano sulla neve, abbozzato e concesso di malavoglia, era meglio che non ci fosse, e vi figura come puro ingrediente di esportazione. Si capisce che in paesi dove simili vertenze si risolvono diversamente produce un certo effetto vedere due uomini che si sbudellano per una donna. Anche l'intrusione del bandito resta confusa e stride. Ma sappiamo che avversare la moda significa favorirla e siamo decisi a crear disgraziati per le nostre ore di ricreazione. Lo stesso accade in America col film polfaiesco dove non si fa che sparare dietro ipotetici assassini e briganti, e dopo tanti anni piace sempre. Ma • quello oramai appartiene al puro giuoco e ci rifiutiamo di classificarlo nel campo dell'arte. Ricordo, quando ero giovinetto, che le signore recandosi a Parigi avevano per suprema aspirazione di vedere gli apaches, vivere un'ora vicino a loro, respirare la loro aria nei locali da loro frequentati durante la notte, rasentarne le persone passando con le loro sete; e preparavano a tale scopo toilettes scollatissime, fulgidi gioielli e voluttuose pellicce per quelli che, fatti apposta per esse, stavano lì ad aspettarle. Questo Favara vorrebbe essere un nipotino di Aci Trezza, ma in Verga tutto è sorretto da un senso di superiore, invincibile fatalità, per il quale l'opera attraversa il tempo tranquillamente, questi sembra vogliano individuare un responsabile nel quale va a estinguersi l'opera d'arte. Opera sinfonica questo Cammino della speranza, nella quale tutte le figure hanno un medesimo valore e vivono nel quadro armoniosamente, anche Saro e Barbara, ai quali è affidata la vicenda sentimentale, si muovono con discrezione: Raf Vallone, un bell'attore che ha per destino artistico quello di non farsi più la barba, eElena Varzi, sulla cui faccia pare stampata un'orientale fatalità, Saro Urzì, l'ottimo carabiniere di In nome della legge, e gli altri per la massima parte attori d'occasione. In America gli attori giungono alla spontaneità attraverso l'arte; da noi, invece, gli attori più spontanei sono quelli che non conoscono l'arte. (n. 8, 2-12-50) Lucia Bosè in Cronacadi un amore di Antoniani. Il Cristo proibito Un'affrettata valutazione potrebbe far giudicare questo film il prodotto di quell'egocentrismo così facile a riscontrarsi negli artisti in generale e che ebbe sempre' fieri campioni nel nostro paese. Non è così. Malaparte, divenendo regista, s'è proposto di nuovo il problema del cinematografo rifacendosi alla sua origine. Dice: Il cinema diverrà un'arte autonoma e perfetta quando il regista sarà il solo autore del film. Pensando, forse, alla lezione di Charlot che, attraverso le inevitabili esagerazioni, rimane il risultato più genuino che 'il cinema abbia dato. Ma Charlot creò un tipo, per non dire addirittura una maschera, i suoi film sono un film solo dove agisce il personaggio creato d_alui nella forma e nello spirito: un monologo, il resto è indispensabile cornice. Cosicché riscontriamo nel Cristo proibito un fatto davvero nuovo: Malaparte regista. La regia è quanto di meglio c'è nel film. La scena fondamentale tra Bruno e Mastrantonio perde la sua efficacia per la lunghezza e lentezza a cui la conducono le parole. E così dicansi per le altre del genere, dove si grida o si discute: la teoria deve risultare dall'azione. Mentre invece è bellissima quella di Bruno con la madre del compagno caduto: non c'è una parola di più. Anche la scena d'amore con la giovane che si è prostituita, per quanto in dose minore risente del medesimo difetto che il finale del film addirittura consacra denunziando una testa troppo più grande del corpo. E c'è una parte dove l'autore dà piena misura del proprio ingegno: la processione macabro-carnascialesca, in quella è stato sobrio, nessuno può cavarcela dalla mente, si viene via con la voglia di vederne ancora. Per quello che riguarda la toscanità dell'opera, le belle pietre di Montepulciano si assumono la responsabilità di gabellare anche qualcosa di verghiana memoria; e per la sua morale, invece, debbo fare a Malaparte una domanda e al tempo stesso una confessione: a me la guerra non piace, non è mai piaciuta e, ormai, non può piacermi più, non sento il bisogno di proclamarlo né mi perito a confessarlo, ma lui è proprio sicuro che alla 67

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==