Linea d'ombra - anno IX - n. 62 - lug./ago. 1991

IL FIUME CHE ·BEVVE L'UOMO e altri racconti Mia Cauto traduzione di Enza Barca Il giorno in cui fucilarono il portiere della mia squadra . · Noi eravamo quelli del muretto, i seduti. Gli altri bambini rincorrevano palloni, dispensa"'.ano sudori. Noi no. Le ragazzine passavano coi loro grembiulini bianchi, sembravano grazie scolastiche. Gli altri le inseguivano a caccia di simpatia. Noi restavamo sul muretto, a sgranocchiare con gli occhi le ombre femmibambine. Il nostro football era lì, al biliardino del Bar Viriato. Il tavolo da gioco dormiva fuori del bar, passava la notte nel cortile. Era così .pesante che nessun ladro vi riponeva le sue mire. I mariuoli dell'epoca avevano dita tremorose, erano gente di piccolo calibro. Era in quel cortile del Bar Viriato che si fermava lo stadio del nostro incantamento. Era lì che vibravano le nostre folle quando la pallina di legno scorrecadeva nel buco della porta. Ma noi, senza età e di razze alla rinfusa, potevamo frequentare l'immaginario prato di gioco solo nell'intervallo degli altri. Il biliardino era nostro solo alle volte. Per il resto, apparteneva alla truppa, ai soldati che frequentavano quei paraggi. Il "Viriato" si situava alla frontiera dei mondi, suburbio dei suburbi. · Ogni volta che ci son O caserme, i quartieri perd<;moi loro nomi civili. E il nostro quartiere veniva ora chiamato Zona delle Caserme. Col nuovo nome erano arrivate le prostitute e avevano riempito i bar con le loro grandi gambe incrociate. Nei nostri sogni quelle gambe si disincrociavano, sotto le lenzuola che traspiravamo. Per questo i nostri genitori non ci consentivano di sostare a lungo nei paraggi del bar. I loro timori non avevano fondamento. Noi entravamo soltanto nella parte esterna. All'interno, i no~tri occhi davano solo una sbirciata. Ma il gioco del biliardino aveva il suo prezzo. Le monete le rubavamo in casa, sport~fogliando, io da mio padre e Nandito non si sa da dove. La monetina apriva il momento magico. La mettevamo nella fessura e la macchina spedi va le sue nove palline, consumate già al punto da difettare di rotondità. All'inizio, si divertirono: uno dei pupazzetti apparve un giorno dipinto di nero. Il centravanti della mia squadra aveva cambiato razza, dal giorno alla notte. I soldati portoghesi ci fecero su quattro risate e soprannominarono il nuovo giocatore Eusébio. Poi, altre tre punte improvvisamente trascolorarono. Ci imbastirono ancora scherzi e battute. Distribuirono altri nomignoli Coluna, Vicente, Matateu. Solo il padrone del bar ventilò minacce: se scopro quello stronzo del pittore, passa un guaio! Un giornoil biliardino si svegliò con tutti suoi giocatori ormai di razza negra. Nel Bar Viriatò, lusitanissimo per nome e proprietà, figurava~o le prime sagome di calciobalilla africane del mondo. Io e Nandito ci presentammo sul presto, al debutto della neonata aurora. Non toccammo il gioco, spettatori. Restammo a guardare le goccioline di nebbia che luccicavano sugli scarponi dei pupazzetti. Finché comparvero i soldati, rumorosi, padroni. Si avvicinarono al biliardino e si scambiarono la loro sorpresa. Stavolta nessuno rise. Al contrario, c'era una rabbia condivisa che multicresceva. D'improvviso, uno dei soldati si mise a sbraitare salivando rabbia .. Gli altri tentavano di calmarne la furia. Ma niente, l'uomo a~eva fatto fede d'odio. Estrasse repentino dalla cintola una pistola e mtomo si rinserrò il silenzio, solenne. Sembrava cinema, Nandito 54 pieno di spavento guardava: quello non era più il Bar Viriato, era il "saloon". E quel soldato che accennava con la pistola era Clint Eastwood, il Rambo dell'epoca. Fu forse per questo stato di stupefazione che Nandito non sentì gridare quando il soldato pazzo puntò sul portiere della mia squadra. Il colpo risuonò e il pupazzetto volò, schizzando schegge. Ancor oggi quel colpo continua a risuonare nella mia vita, insieme al grido che, ingannato da un lampo, mi sembrò esalare dal pupazzetto centrato. Il l~cciofatale dell'amore impossibile E un ricordo che non ho per intero. Ma il fatto è accaduto nella sua forma più veridica. Av.vennea Beira, sul finire del Sessanta. Io ancora un bambinetto, poco evoluto in sapienza. Così me lo raccontarono: due giovani innamorati si erano, suicidati mortalmente al Beira Terrace Hotel. Avevano legato i loro polsi con corda e fil di ferro e si erano lanciati nel crepitare delle onde. Il motivo della disperazione era il loro amore impossibile: erano di razze differenti. Le famiglie non autorizzarono, proibirono, minacciarono. Con tanta gente della stessa razza, perché loro avevano varcato la frontiera della somiglianza e scelto la differenza nel colore della pelle? La notizia di quella morte doppia fu, per così dire, l'atto inaugurale del lutto della mia infanzia. Quella notte, insonnia e incubo mi disputarono il sonno. Sognai che il mare si era scisso in due acque, separate da un solco nero, asciutto e profondo. In quell'oscura fenditura luccicava un laccio di fil di ferro e di corda che, a poco a poco, cresceva e si moltiplicava in nuovi lacci. Come un gigantesco bracciale vivo, il fil di ferro volteggiava sulla città, intrecciandosi agli edifici. Finché la città fu inghiottita, scomparve negli abissi. Allora le due parti del mare tornarono a legarsi, sposandosi in un tranquillo e sonnolento azzurro. Al mattino, decisi di andar n, nel luogo in cui i due corpi si erano consegnati al nulla. Nell'ombra porpora delle acacie, la strada mi costava fatica, come se l'pcqua in cui i due erano affogati si rovesciasse nella mia anima. Ma era il laccio quello che più mi tormentava. Quel laccio si era installato in me, avvincendo tristezza e pensiero. Perché il laccio autenticava il desiderio assoluto di morire. Non c'era simulazione, né gesto di appello. Nel timore di quell'ultimo pentimento che assale i suicidi, i due giovani si erano condannati al giuramento pronunciato. Non si erano suicidati; ciascuno aveva cucito la morte addosso ali' altro, alla maniera di Romeo e Giulietta. Ma guelfi rimanevano nella lontananza dell'irrealtà, mentre i nostri giovani erano lì, carichi di realtà. La loro memoria raschiava la città come un'accusa. Quando finalmente raggiunsi il Beira Terrace, guardai il mare in quella sua finta quiete. Il mare.andava e veniva, fermo. Le onde, di respiro breve, accarezzavano la vecchia muraglia. Discesi la scalinata e misi a sedere la mia angoscia, i miei piedi sfioravano l'acqua. Così, in quella conversazione con le brezze, ebbi a sognare che il laccio fatale si disfaceva nel fondo delle acque prima che gli innamorati fossero soffocati. E che questi, viaggiando per scorciatoie sommerse, avessero trovato una via d'uscita in un altro tempo, un tempo_dove a niente sarebbero valse le razze e dove il loro amore sarebbe felicemente scoccato. Cullato in quel- !' illusione, presi a percorrere la riva in cerca di un pezzo di corda o di un frammento di fil di ferro. Se l'avessi trovato, avrei potuto

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