SAGGI/ AUDIN viceversa. Perciò mi si chiede di cancellare la mia superiorità dividendo con te quella verità, e se poi mi supererai dovrò tentare di nuovo di raggiungerti. La superiorità estetica tenta in due modi chi è inferiore. Lo istiga a esagerarla, in modo da negare affatto di possedere alcun dono del quale egli inferiore sia responsabile - e a esigere quindi che solo chi è superiore sia responsabile della propria esistenza. E lo tenta a sforzarsi di minimizzarla e distruggerla. Una tra le forme più comuni d'invidia è quel tipo di lussuria che tratta l'autorità estetica da autorità etica, per trasformare l'atto sessuale in. atto di possesso, nel quale s"'impara" dall'altro la bellezza come s'imparerebbe lina tabellina. Anche chi è superiore è doppiamente tentato - a esagerare l'importanza dei suoi doni e pretenderne da ciascuno il riconoscimento, o a trattarli non come doni che gli sono capitati e per mezzo dei quali potrebbe trovare la verità, ma come la verità stessa che è stato lui a trovare. La prima forma di orgoglio lo rende un tiranno, la seconda gli fa trascurare il suo talento fino a farlo atrofizzare e sparire. ·Invidia e orgoglio, le tentazioni dell'autorità etica, spingono in direzione opposta e trattano lii superiorità etica come estetica, o la verità universale come dono del singolo individuo. Come la lussuria prova a cancellare la superiorità estetica col possesso, lo "scaricabarile" esagera la superiorità etica atteggiandosi ad un'ammirazione supina, che rifiuta· l'obbligo di conquistare, prima ancora della verità, l'uguaglianza. All'orgoglio estetico che batte sempre sul riconoscimento universale fa riscontro quello etico che rifiuta ogni condivisione della verità.ela considera suo privato appannaggio, mistero ermetico, fino a non saper più distinguere il vero dal falso. L'autoritàestetica-chenascedall'ineguaglianzaconnaturata a individui limitati in reciproca relazione_:_ e l'autorità etica - nascente da casuali ineguaglianze nei rispettivi rapporti di ognuno con la verità universale - sono così chiaramente manifeste che il riconoscerle non è articolo di fede. Possiamo esagerarne o svalutarne l'importanza, prenderne atto o maledirle, ma non possiamo evitare di riconoscere che esistono. Esiste comunque una terza specie di autorità; riconoscerla è un atto di fede perché essa non nasce da nessuna. ineguaglianza manifesta, né il Tutto-o-Niente estetico né il Più-o-Meno. etico, ma dalla contraddizione religiosa tra innocenza e colpa all'interno della soggettività. Tu non hai fatto del male; io te ne faccio; tu mi perdoni. Se arrivo a credere che mi hai perdonato, potrò riconoscere la tua autorità religiosa e sarò costretto a pentirmi. Il mio problema non è più esagerarla, minimizzarla o ribellarmi, ma essere capace di credere alla sua esistenza. Se però ci riesco non posso trasgredire. Ma credere è talmente difficile, addirittura quasi impossibile, a meno che io mi creda superiore a te esteticamente o eticamente. Ti rubo cinque dollari: se sei ricco e non mi denunci, potrò credere che sei generoso, ma non che mi hai perdonato. Potrò pensare che non mi denunci perché mi consideri indegno della tua attenzione e, nonostante tu pensi in astratto che il furto è male, ritieni che io come individuo non posso farti alcun male. Solo se io sono un milionario e i cinque dollari che ti rubo sono i risparmi di tutta la tua vita; solo se c'è un poliziotto all'angolo 42 e tu non fai nulla, allora posso facilmente credere che mi hai perdonato. Analogamente, se sono uno scugnizzo ignorante e tu un famoso psicologo che mi dà uno scappellotto e dice: "Povero ragazzino, non spaventarti, ho capito. Rubi soldi perché i tuoi non ti vogliono bene", potrò ammettere che mi hai capito, ma non penserò che mi perdoni, perché ogni cosa che dici mi suggerisce che se anche la mia azione ti avesse fatto soffrire, tu non me ne riterresti responsabile. Se rovesciamo le parti, e io sono uno psicologo esperto di cleptomania e tu lo scugnizzo ignorante, allora può darsi che io creda, se riesco a non disperare. Perché è proprio se succede che io sono superiore, ti .faccio del male, eppure sono perdonato, che sono costretto a vedere che la tua autorità è religiosa, perché non saprei immaginarmi capace di perdonare me stesso se io fosse te, in tutte le ocèasioni in cui mi vedo superiore a te. Non posso credere che tu mi perdoni perché ciò porta in sé questo paradosso, che tu ammetti che ti ho arrecato un male, che è notevole e ti ha procurato dei fastidi, male che tu consideri un mio atto deliberato ma nello stesso tempo irrilevante. Come posso credere che tu vedi la mia colpa con tanta chiarezza quanto me, ma ti comporti come se io fossi innocente come vedo che lo sei tu? Esso e me Finché considererò isolatamente la mia esistenza, me stesso posto in un universo in atto, le mie decisioni coinvolgono solo il problema della percezione, dell'impegnarsi o disimpegnarsi, di dire il vero, "Questo è Questo" o dire il falso, "Questo è Quello". La mia libertà di scelta è libertà di essere onesto o disonesto con me stesso, non di fare ciò che mi pare della mia esistenza in atto. La condizione per essere è il riconoscimento estetico: "Qualunque cosa è, è giusta". Mal' esistenza immediata non è la mia esistenza intera. Proprio perché posso impegnarmi in me stesso, sono un esssere al quale è chiesto di divenire, di trascendere ogni situazione data di se ·stesso e rendersi conto di possibilità che travalicano il dato e rendersi conto di possibilità che travalicano il dato e il presente. In questo caso il comando . concerne non la percezione mal' azione, e porta al riconoscimento etico: "Nulla è buono. Tutto dev'essere mutato". In contraddizione con l'imperativo estetico di accettare tutto e non rifiutare nulla, l'imperativo etico è realizzare qualcosa ed escludere tutto il resto. • Non ci sono, come è logico, due specie di decisione, ma ogni decisione è mia e implica questi due aspetti, in modo che io possa servirmi delle ansietà collegate a ciascuno di essi; l'ansia estetica sul certo e sul dato e l'ansia etica sull'incerto e il possibile - e !'un'ansia contro l'altra per sfuggire entrambi i comandi. Così io dirò che "Qualunque cosa è, è buona" non quando dovr~i dirlo, e cioè quando soffro e tutti, paragonati ame, mi sembrano felici, ma solo quando sono felice e non mi va di dire "Devo cambiare" perché pavento la sofferenza che un tale cambiamento porterebbe con sé. Non sto rispondendo, come potrei credere, all'imperativo estetico, ma sto cedendo alla mia ansia etica. Viceversa, quando sono felice (o così credo) rispetto ad altri, non dico "Tutto dev'essere cambiato"; lo dico solo quando soffro e vorrei evitarlo. AIJcorauna volta la mia ansia estetica è mascherata da imperativo etico.
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