PURAMENTE SOGGEfflVO W. H.Auden traduzione di Domenico Scarpa Questo saggio di Auden, che qui si pubblica per la prima volta in i_taliano,fu scritto nel 1943 e uscì su una rivistina americana, "Chimera"; non è mai stato raccolto in volume. Auden si trovava a New York dal '39, la sua presa di distanza dalla sinistra e il suo ritorno al cristianesimo erano già definitivi. Nel '46 sarebbe diventato cittadino americano. Il saggio è scritto da un inglese che parla in falsetto americano a un pubblico americano, fingendo cioè di adottate forme di discorso piane e colloquiali, un linguaggio basic in cui le ripetizioni di termini elementari (vedere, dire, comandare, chiedere, perdonare) e le domande retoriche danno volutamente un tono autoironico-predicatorio da parabola evangelica dei giorni nostri, resa con la matter-of-fact di una prosa degli oggetti e dei comportamenti. In realtà si tratta di un saggio filosofico assai complesso, la cui difficoltà non sta nel singolo capoverso (benché Auden ricorra a periodi lunghissimi, sinuosi di coordinate e incisi) ma.nel senso complessivo, che affronta lo stare al mondo dell'individuo coinvolgendo arte, etica, scienza, lavoro, politica, religione. Auden costringe il lettore a gare di salto in lungo concettuale tra un capitoletto e l'altro, a risfogliare ansiosamente il già letto per rintracc"i"arenessi, spezzature, ana_logie, simmetrie nel discorso. Un'ulteriore difficoltà sono le sfumature di termini come subject, individuai, objective, che mutano aihnterno dell'opera di Auden e di questo stesso scrittq. . Di solito (vedi "Linea d'ombra" n. 43) i saggi di Auden sono concentratissimi: capaci di riassumere una storia della letteratura in un paragrafo, una teoria politica in due righe; spesso in verso.come in prosa svetta l'aforisma, per il quale i suoi maestri sembrano essere il Nietzsche precursore della psicoanalisi, Karl Kraus e una tradizione molto anglosassone di poesia (e poesia in prosa, e saggismo divagante) tra il sacro, lo gnomico e la filastrocca. Auden si divertì a essere il Voltaire, il Marx; il Brecht cristiano: il suo è il caso più unico che raro di un'intelligenza che, padrona di tutto lo scetticismo etico, politico, estetico, ontologICo del mondo contemporaneo, svolge un'argomentazione che ridà lustro a un'identità di stampo nobilmente ottocentesco tra il vero, il bello e il buono. E tuttavia, nella sua studiata inattualità, riesce a non ·essere plateale: col divagare sempre e.onla coda dell'occhio alla meta, con la capricciosità dei suoi esempi, con l'understatement che fa da basso continuo al discorso proprio mentre esso si veste di toga e coturni. Il lettore potrà divertirsi a rintracciare gli innumerevoli echi filosofici - a cominciare da Kierkegaard - disseminati in questo saggio: la colonna s'onora, il montaggio, la fotografia, la regia sono tutti di Auden, del quale si aspetta di vedere stampati (e ristampati: Garzanti 1968 e 1972) altri saggi. (D. S.) Chi? Mi sveglio alla vita per trovare me stesso e poi il mondo che non è me stesso e che ~ già lì, e simultaneamente mi sento responsabile di questa mia scoperta. Posso, devo chiedermi: "Chi sono? Voglio essere? Che cosa voglio diventare e che cosa dovrei diventare?" Sono, difatti, una persona ansiosa. È questo il mio problema religioso. Avverto una necessità soggettiva, vale a dire una necessità la cui sorgente non posso identificare con niente che si possa definire un oggetto, e che coinvolge il significato e il valore che la mia esistenza ha-per me stesso. Questa è la mia più immediata esperienza religiosa, che non mi darà requie finché mi sarò convinto di averla compresa. Cominciamo col provare a rispondere da un punto di vista estetico alle mie domande, dicendo: "Io e la mia natura, me stesso come soggettività e me stesso come individuo, sono la stessa cosa. Si erge contro di me un mondo di altri esseri sociali responsabili, non della mia esistenza, ma della mia ansia in proposito. Quando saprò convincerli ad amarmi e servirmi, non dovrò più essere ansioso". Fin quando continuerò a fare questa identificazione estetica tra la mia soggettività e la mia individualità, non potrò distinguere tra "Mi si chiede di farlo per la mia salvezza" e "La mia natura mi spinge a farlo per essere felice e in salute". Certo, sono consapevole del conflitto tra imperativi inconciliabili e della .mia impotenza a ottemperare a tutti, ma attribuisco questo conflitto e questa debolezza a un'origine che si trova fuori di me. Credo in tanti dei quante sono le esigenze che provo, e credo in un Fato che, dietro tutti gli dei, suggerisce che perfino gli dei sono provvisori. E comunque, quando mi accorgo di poter trattare il mio carattere come un oggetto al par:idi tutto il resto dell'universo, mi accorgo anche che il mio politéismo non era altro che un mito antropomorfico, un soggettivizzare dei bisogni oggettivi. Mi accorgo che il mio carattere m' induce in tentazione: "Voglio fare · così" significa "È il mio carattere a volere che io faccia così. Se lo faccio, sono in balia del mio carattere"; e "Bisogna che faccia così e così" significa "Mi viene comandato di fare così e così, e io posso farlo solo se sono io a dominare il mio carattere". La domanda è adesso: "Comandato da chi, da che cosa?" Allora rinuncio alla soluzione estetica e provo con quella etica. Dico: ''Non sono io ad essere ansioso ma il mio carattere. Quando avrò imparato a conoscermi completamente come se , fossi un oggetto, non sarò più ansioso". Avendo scoperto che l'identificazione della mia soggettività con la mia individualità era falsa e mi portava a credere che tutto quanto facevo mi era soggèttivarriente comandato, mentre non accadeva niente del genere, passo a identificare soggettività con ignoranza, e a ipotizzare che ogni vera esigenza sia obiettiva, che depolezza e · conflitti siano causati dalla mia soggettività. Il mio nuovo Dio, la Verità Scientifica, la Dialettica, l'Assoluto o comunque io lo voglia chiamare, non lo si può accusare di essere un essere umano, perché è. inconcepibile pensare di Lui come di un soggetto. Comunque, ciò non lo rende meno antropomorfico. Egli . è l'immagine dell'idea soggettiva che ho di me stesso come Io puramente epistemologico, privo di parti o di passioni. Il mio problema religioso resta tate perché ho a disposizione due risposte incompatibili, di cui ciascuna svergogna l'altra. Il me stesso estetico odia la scienza perché vuol rispondere alla domanda "Chi sono?" con un semplice "Io sono io" mentre la scienza gli fa notare che la mia individualità non è assoluta, che la sola cosa che posso dire è: "Sono un mammifero con la parte anteriore del cervello assai sviluppata. Sono figlio dei miei genitori, ecc. ecc.". D'altro canto il me stesso etico detesta l'arte perché essa gli fa rilevare eh~, per quanti predicati la scienza gli possa appiccicare, l'io soggettivo non si riduce mai a unmero soggetto epistemologico, ma resta caparbiamente coinvolto nella sua esistenza. Sono costretto ad ammettere che non posso risolvere da solo questo problema. Posso ancpra, in alternativa, tentare d'ignorarlo, o 39
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