INCONTRI/FORD che portavano allo scioglimento finale. Tutte le caratteristiche che erano state ricavate dall'osservazione della narrativa degli anni Trenta e Quaranta, all'improvviso non avevano più senso e tutto il nostro bagaglio critico non riusciva più a essere applicato al nuovo tipo di narrativa che si stava sviluppando. Ma è proprio perché avevamo un bagaglio critico, anche se di tipo tradizionale, che siamo· poi riusciti a capire qualcosa di quei racconti. Certo, non riuscivamo ad analizzarli allo stesso modo di come ne analizzavamo uno scritto da Robert Penn Warren, però riuscivamo a leggerli perché in fondo la tradizione ci aveva fornito degli strumenti per leggere la narrativa anche perché Warren, Randall Jarrel e gli altri padri del New Criticism, John Crowe Ransom, ecc. non erano soltanto critici, ma scrivevano racconti loro stessi. È questo che ci ha permesso di scomporre, isolare e ricompòrre parti di quei racconti e in definitiva di applicare i nostri strumenti critici anche a materiale che programmaticamente rifiutava di essere analizzato secondo quei criteri. Ho l'impressione che fosse una maniera complicata di fare quello che spesso gli scrittori sono costretti a fare e cioè tentare di trasformare in vizio una virtù o viceversa, cioè trasformare in virtù un vizio. In fondo, la tradizione per me è sempre stata una virtù: ho letto Eudora Welty quando avevo vent'anni, viveva a un passo da casa mia; ho letto Faulkner quando ne avevo diciannove e mi sono innamorato dei suoi romanzi; la tradizione diventa un vizio, un ostacolo solo quando si tenta di scrivere in maniera diversa da scrittori come quelli, quando si tenta di scrivere in uno stile proprio: è allora che la tradizione comincia a essere d'impaccio, e quindi si è costretti a combatterla, a superarla, per liberarsi e scrivere solo quello che si sa scrivere, solo quello che si vuole scrivere. Nelle tue opere c'è una tensione diffusa tra vitafamiliare e vita avventurosa, un'oscillazione continua tra un'esigenza di stabilità dei rapporti familiari e una di libertà assoluta da ogni legame. È una tensione che attraversa ciascuno dei tuoi romanzi, ma che si avverte anche tra iprimi e quelli più recenti. Un'altra caratteristica diffusa e collegata a questa mipare sia quella dello sradicamento: i tuoi personaggi sono sempre in movimento, seguono i flussi capricciosi dei mutamenti economici, soffrono ripetuti traumi da trapianto, ecc. Come spieghi la centralità che questi temi hanno assunto nel tuo lavoro? Be', questo è senz'altro uno degli impulsi che spingono alla narrativa non solò me ma anche molti altri scrittori americani, uomini e donne, perché riguarda uno dei terni principali della storia americana: negli ultimi due secoli, niente ha affascinato di più gli americani del modo in cui il continente è stato conquistato e colonizzato. La terra ha sempre costituito un tema drammatico per gli americani, molto più della speculazione filosofica. Perciè quando descrivo gente che lascia un posto e si trasferisce in un altro, non faccio altro che descrivere quello che gli americani fanno in continuazione. È certo un tema che è sempre stato alla base dell'esperienza letteraria americana. Quello che cerco io, anche a livello microscopico, è il conflitto drammatico: in un racconto mi sforzo di inventare dei momenti in cui accade un evento dopo il quale niente sarà più come prima. Può darsi ricordiate quel racconto di Frank O'Connor, intitolato Guest of the Nation, che si chiude con queste parole: "In tutto quello che mi è successo dopo, non mi 28 sono più sentito lo stesso". Mi piacerebbe scrivere questo alla fine di ogni di ogni mio racconto, perché è la cosa che mi interessa di più. Secondo me non è che la vita ci regali molti di questi momenti, certo non in modo esteso. Che questi momenti si presentino nella vita di ognuno è in realtà una convenzione letteraria. E se, dopo aver letto Gente di Dublino, andiamo a cercare quel tipo di piccole epifanie nella vita di tutti i giorni, non le troviamo di certo e allora, tra noi e noi, pensiamo "Ecco, vuol dire che non sto vivendo. La mia vita non è abbastanza impegnata e sensibile". Be', quei racconti di Joyce in un certo senso confermerebbero questa ipotesi, perché quello che tutti i racconti, perlomeno i racconti realistici, vogliono dire ai propri lettori è: "Fate attenzione, fate attenzione, vi sta sfuggendo qualcosa!". Sì, i racconti sono momenti di attenzione concentrata e anche se i momenti in cui tutto cambia e le cose si stagliano nette e la vita diventa diversa sono solo immaginati, vi costringeranno a concentrarvi, a fare più attenzione alle vostre decisioni, non importa se poi quei momenti così intensi non si presenteranno nella realtà della vostra vita. Ma per tornare al tema dei continui spostamenti ... Quando cerco nodi drammatici intorno a cui intrecciare un racconto, uno dei più efficaci che mi si presenta è proprio quello di lasciare un posto e andare in un altro nella speranza di sfuggire a una situazione negativa e di migliorare la propria vita, forse perché è una cosa che in effetti si è verificata spesso nella mia vita e in quella della maggior parte degli americani. C'è un verso molto bello, all'inizio di una poesia di Richard Hugo, che dice "Mettiamo che la vostra vita un giorno si spezzi ..." È il punto di partenza della poesia ma anche il punto di partenza di molte situazioni drammatiche americane: un giorno la vostra vita si spezza e allora reagite così... "Be', me ne vado in un altro posto, un posto dove non conosco nessuno, dove non ho debitori, non ho creditori, dove non riconosco il paesaggio". Però questo comporta delle conseguenze: sì, gli individui si adattano a posti dove non sono mai stati ma che comunque mantengono degli elementi familiari: è sempre lo stesso paese, forse perfino lo stesso stato e comunque la lingua è sempre la stessa, ma il processo di adattamento è pur sempre un processo drammatico: quando vai in una nuova città non sai dove vanno a finire le strade, devi reimparare il percorso per raggiungere la scuola. Vai in ima città nuova e tuo padre trova un lavoro ma poi lo perde perché non ha conoscenze, perché qui nessuno si preoccupa per lui e lo protegge. Tua madre non trova lavoro e allora cosa fa? Be', finisce in un posto dove incontra un uomo di cui si innamora. Ecco, questi sono alcuni nodi drammatici standard nella vita americana. Un paio di anni fa, un giornalista americano che lavora in Francia mi ha detto: "Sai, queste son cose che in Francia non potrebbero neanche accadere, perché, prima di tutto, per andare da Nizza a Marsiglia ci si mette tanto poco che non si fa neanche in tempo a sviluppare una storia e poi non c'è nessuno che voglia veramente trasferirsi ..." Ecco perché, dunque, penso che lo sradicamento sia una fonte di éonflitti drammatici nella vita americana, ma in genere non credo che gli americani manchino del tutto di radici. Le città americane non sono, in fondo, dei nonluoghi. Secon<;lome c'è una sorta di contraddizione in termini: gli americani che io descrivo nei miei racconti e nei romanzi è gente che cerca un luogo in cui radicarsi, sono sempre animati dalla speranza di stabilirsi da qualche parte, ma poi ci sono delle forze
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