CONFRONTI che significato, convinzioni e verità non possano essere definiti separatamente l'uno dall'altro. Ma in questo caso la verità non può essere semplicemente una funzione dei nostri poteri d_i scoperta o dei nostri metodi di verifica (come suggerivano le vecchie teorie epistemologiche) o indipendente dalle convinzioni (come avrebbero voluto le vecchie teorie della corrispondenza) .. "Ciò che salva la verità dall'essere 'radicalmente non epistemologica"', secondo Davidson, è che "le convinzioni, attraverso i loro rapporti con il significato, sono intrinsecamente veritiere". La convinzione che p è esattamente questo, la convinzione che p. Charles Taylor, nella stessa antologia, insiste su questo punto. Per Rorty "capire che i nostri pensieri non corrispondono alle cose-in-sé significa concludere che essi non corrispondono a nulla". Ma egli fraintende i suoi stessi mentori. Filosofi come Heidegger e Wittgenstein hanno dimostrato che le rappresentazioni non erano l'unica connessione possibile esistente con l'iò e con il mondo. Essi "hanno decostruito accuratamente il quadro epistemologico che 'ci teneva prigionieri' e ci hanno permesso di vedere meglio ciò che compiamo in realtà e come stanno davvero le cose. Còn ciò, essi hanno screditato l'intero procedimento di arrivare ex ante a un'idea di ciò che dev'essere.la conoscenza, e poi di dare ordine alla realtà da quel punto di vista." Hanno chiarito che "il grande difetto" della tradizione epistemologica che Rorty vuol farci rifiutare era "che essa permetteva all' epistemologia di comandare l'ontologia". Ma Rorty stesso rimane prigioniero di quella tradizione: se nessuna epistemologia è accettabile, sostiene, non può essere accettabile nessun senso della realtà ..Ma noi abbiamo delle convinzioni su ciò che assumiamo come reale. Esse derivano, come soprattutto un pragmatista dovrebbe capire, dalle nostre "concrete esperienze del conoscere e del nostro essere nel mondo". Quindi la scienza. "Il problema", come lo imposta Bernard Wlliams in Reading Rorty, "non è che gli scienziati hanno una autoevidente conoscenza di quel che fanno, ma soltanto che le loro affermazioni li aiutano ad andare avanti - e questo, per un pragmatista, è l'unica cosa che conta". In realtà ci si domanda se un pragmatista possa anche solo dire molte delle cose che dice Rorty. Qui c'è un problema che fu colto più chiaramente da Wittgenstein che non da tutti gli altri filosofi che Rorty ammira ... Se è impossibile fornire dei fondamenti, o andare oltre a ciò che, a un livello molto generale, noi diciamo naturalmente; e se la filosofia, tradizionalmente intesa, ha sempre cercato di andare oltre a questo, per cui ora dovrebbe finire; perché non dovrebbe semplicemente finire, sì che tutto quello che dovremmo dire è ciò che diciamo comunque naturalmente? Perché dunque gli scienziati non dovrebbero continuare a dire che migliorano le loro spiegazioni di com'è realmente il mondo? Se la risposta è che, in questo modo, essi si ingannano, questo non può essere perché siano ingannati dalla filosofia. Ci viene detto che non c'è alcuna filosofia che abbia l'autorità per dire questo. Né è possibile che gli scienziati siano ingannati dalla loro stessa natura. Non c'è alcuna filosofia che possa dare ordini alla natura. Certamente non esiste alcun pragmatismo che possa coerentemente dire che la nostra natura ci inganni. Queste critiche colpiscono nel segno. Possiamo certo ammettere che sia ozioso continuare a chiederci perché ci rappresentiamo le cose così come sono. Possiamo anche concordare che "la verità" non possa essere ridotta a null'altro, che le si possa dare tutt'al più un significato semantico, e che questo significaro non sia sufficiente per null'altro all'infuori della semantica. Ma 14 questo non significa dire che la semantica e gli altri "discorsi" siano in sé sufficienti per ciò che vogliamo fare. Abbiamo bisogno di_possedere delle convinzioni, e di pensare e di .agire come se la semantica delle nostre convinzioni avesse un referente reale. Altrimenti, non potremmo "accoppiare i segnali e i rumori" che fanno gli altri, e neppure trovare il modo di usare il nostro stesso linguaggio. Rorty sottovaluta questo punto. Anche se è facilmente condivisibile l'idea che dobbiamo essere ironici verso i nostri mondi possibili. Per apprezzare l'ironia, sostiene Rorty, dobbiamo innanzitutto essere consapevoli di ciò che significa essere auto-consapevoli. "La tradizione filosofica occidentale considera la vita umana un successo solo nella misura in cui essa passa dal "rpondodel tempo, dell'apparenza e dell'opinione in un altro mondo - il mondo della verità eterna." Ma quella tradizione è oggi morta e sepolta. Non è che nessuna verità abbia resistito. È piuttosto che non vi sono verità di questo tipo da possedere. Noi siamo le nostre descrizioni e ridescrizioni. Prendiamo in considerazione, per esempio, le nuove metafore ai Freud, senza le quali noi non saremmo stati in grado di apprezzai-eNietzsche, WilliamJames, Wittgenstein o Heidegger, "o di leggere Proust con tanto gusto". Queste metafore non veicolano una nuova realtà. Si limitano a fornirci "un vocabolario per l'auto-descrizione radicalmente diverso da quello di Platone, e radicalmente diverso anche da quella parte di Nietzsche che Heidegger giustamente condannò come ennesimo esempio di platonismo capovolto - il tentativo romantico di esaltare la carne sullo spirito, il cuore sul cervello, una mitica facoltà chiamata 'volontà' su un'altrettanta mitica facoltà chiamata 'ragione'". Freud stesso, possiamo supporre, non capì ciò che stava facendo. (Egli diceva che stava facendo un'altra cosa.) Il linguaggio, dopotutto, cambia davvero "ciecamente". Ma nel fornirci un modo di parlare del nostro io in cui possiamo vedere la forza del linguaggio stesso per l'io, secondo Rorty, ci fornisce un modo di parlare della speranza. Freud, insomma, era un poeta. Come tutti i veri poeti, egli rifiutava di accettare ogni precedente descrizione. E, insiste Rorty, sono i poeti che danno il segno alla nostra nuova cultura. Questo spiega perché "l'ascesa della critica letteraria a una posizione di'preminenza nell'alta cultura delle democrazie - la sua graduale e solo in parte consapevole assunzione del ruolo culturale un tempo reclamato (successivamente) dalla religione, dalla scienza e dalla filosofia - è andata di pari passo con l'aumento in percentuale, tra gli intellettuali, degli ironici rispetto ai metafisici". (In questo Rorty riecheggia Harold Bloom. Non tutti. i critici, però, ammettono questa ascesa. "La letteratura", lamenta Michael Fischer in Reading Rorty, "non supera i limiti della filosofia". Non è "che la letteratura sia seria, cognitiva, potente e responsabile, ma che la filosofia", per Rorty, "è come la letteratura: imprecisa, capricciosa e metodologicamente arruffona".) · Nondimeno, Rorty pensa che i poeti dovrebbero essere tenuti al loro posto. Vanno bene per la vita privata. Invero, in quella che egli chiama "post-filosofia" ne abbiamo bisogno. "Autori come Kierkegaard, Nietzsche, Baudelaire, Proust, Heidegger e Nabokov sono utili come esempi, come illustrazioni di ciò chè può essere la perfezione privata - qna vita umana autonoma e indipendente." Ma non vanno bene per la politica. "Autori come Marx, Mill, Dewey, Habermas e Rawls sono concittadini più che esempi. Essi sono impegnati in uno sforzo sociale collettivo- lo sforzo per rendere più giuste e meno crudeli le nostre istituzioni e i nostri costumi. Dobbiamo considerare questi due tipi di scrittori semplicemente come opposti", spiega Rorty, "se pensiamo che una visione filosofica più ampia ci permetterebbe di
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