IL CONTESTO ranno a capire abbastanza presto quello che avveniva in URSS senza averci mai messo piede, ma solo osservando il comportamento dei comunisti in Francia, in Germania poco prima dell' avvento di Hitler e in Spagna durante la guerra civile). Ma significativo è anche un caso, molto diverso come quello di çéline. Il suo virulento disgusto per la realtà russa degli anni Trenta (dopo un breve viaggio in Unione Sovietica nell'autunno del 1936), coglie la coincidenza sostanziale tra il sogno e il mito della Russia di Stalin e il sogno della borghesia capitalistica (come dice Flores, "L'anticomunismo di Céline ... era inestricabilmente legato al suo anticapitalismo" pag. 293). Il che gli permetteva di capire la ragione per la quale l'URSS affascinava tanto, non solo il proletariato occidentale, ma anche gli intellettuali e i borghesi, ingegneri, tecnici, economisti. "È il dominio della macchina che fa apparire a Céline l'Unione Sovietica come un. concentrato di alienazione analogo e forse peggiore di quello del capitalismo. la sua invettiva contro la meccanizzazione, la disumanizzazione, l'illusione di libertà che essa porta con sé, l'abbrutimento in cui riduce l'uomo" porta Céline a un accecamento diverso, al suo filo-fascismo paranoico. Orwell e Simone Weil, di fronte allo scontro tra fascismo e stalinismo, scriveranno le pagine politiche pensando ad un socialismo non tòtalitario (Orwell) e magari ad una riformulazione generale dei diritti e dei doveri in una riconsiderazione critica di tutta la tradizione occidentale moderna della politica (le pagine di Simone Weil su Hitler nell 'Enracinement). Chiunque, invece, restasse convinto della bontà intrinseca e illimitata del progresso come sviluppo industriale, con tutta la "poesia delle cifre e delle statistiche" che questo comporta, non poteva che avere un atteggiamento più ambiguo, oscillante, possibilista e relativista nei confronti della Russia di Stalin. Negli Stati Uniti, con gli i11niTrenta, non erano solo le critiche del capitalismo, ma anche i dubbi sul suo buon funzionamento che spingevano gli intellettuali a simpatizzare per il comunismo sovietico. È il caso, ricorda Flores, di economisti (Lorwin, Soule, Chase) che "condividevano l'idea che l'espansione produttiva fosse di per sé progressiva ed erano convinti che il prezzo pagato in termini di sacrifici o di illibertà sarebbe stato comunque vantaggioso. Il fascino dell'URSS, per loro, risiedeva anche nella capacità di 'azione' e di 'potere'. che le istituzioni sovietiche sembravano possedere, a differenza dell'impotenza e dell'immobilismo che caratterizzavano le scelte economiche e sociali negli Stati Uniti. Essi videro nella Depressione non già la fine dell'American Dream, ma la conclusione del suo realizzarsi per via individualistica. Pensarono quindi plausibile una sua ripresa e estensione una volta che le ambizioni e gli interessi personali potessero venir subordinati agli obiettivi di una crescita collettiva ordinata e controllata" (p. 146). Sto cercando, quasi involontariamente, di isolare dei punti del libro per dare un'idea di posizioni estreme e contrapposte. Ma questo è falsare un po' il carattere di questo lavoro. Che si può anche usare come fonte, repertorio di informazioni, antologia di citazioni spesso eccezionalmente chiarificatrici: non solo chiarificatrici dei momenti di rivelazione di un punto di vista netto in favore o contro il grande laboratorio URSS, ma anche, più spesso, chiarificatrici dell'intreccio di ambiguità e oscillazioni. Questa che il libro di Flores ricostruisce pazientemente e racconta è una delle vicende più appassionanti, forse la più sconcertante in assoluto, del rapporto fra cultura e politica nel novecento: perché ci permette di passare in rassegna le capacità di autoinnganno, la tenace volontà di sperare in un mondo diverso ma reale, di credere non solo nella pensabilità di un futuro come superamento-conservazione della storia sociale e politica di tutto l'occidente: non solo pensabilità, ma realizzabilità presente, di questo futuro: prova concreta a favore 10 del proprio rifiuto e della propria critica del mondo borghese e capitalistico. In questo senso, direi che le testimonianze pit'i significative storicamente, ma anche le più sconcertanti da un punto di vista intellettuale e morale (riusciamo a conoscere quello che vogliamù conoscere ...) sono le testimonianze bifronti, quelle che oscillano fra la visione dei fallimenti sovietici e la certezza che qualcosa di buono è avvenuto e può ancora avvenire nel paese per eccellenza del futuro. Il che dimostra quanto tutta la cultura europea e americana avesse bisogno di una alternativa, quanto credito fosse disposta a concedere a un tentativo, comunque fosse, che mostrasse di procedere verso l'abolizione degli egoismi individuali, verso una più profonda solidarietà collettiva, una socializzazione più aperta, controllata e integrale, verso il superamento della disoccupazione e dell'ingiustizia, ecc. Così questo libro diventa quasi senza volerlo un trattato sui modi della conoscenza del presente come storia: ed è, questa, una vicenda in cui possiamo vedere, in ogni caso esaminato, (lettere, dichiarazioni ufficiali, reportages, a volte poesie ,e romanzi) come funzionano diversi linguaggi e culture di fronte a una realtà da percepire, esplorare, valutare. L'ottica titanica e insieme solidaristica degli americani, l'ottica individualistica, fra desiderio moderato di non conoscere il peggio e imprescindibile stile della sincerità, in Gide. L'ottica surrealista, sempre rriolto sfocata, in una direzione o nell'altra, con Bretone con l'atroce Aragon: capolavoro di enfasi insieme cinicamente propagandistica e fantasiosa. Le testimonianze degli operai e dei militanti comunisti che vissero e lavorarono per anni in Unione Sovietica, e che fecero esperienza diretta, personale del lavoro e della repressione stalinista. È qui che si toccano le verità più limpide e più dure. E poi il gruppo francese: da Boris Souvarine, Pierre Pascal a Victor Serge, Yvon, Citrine: la loro lucida elaborazione (che faceva risalire le degenerazioni non all'ascesa di Stalin, ma alla repressione di Kronstadt nel '21, voluta e attuata da Lenin e Trockij): a loro si rifece Gide quando rispose alle accuse al suo Ritorno dall'URSS e finì per approfondire il distacco critico poco prima ancora attenuato. Del resto è ancora al rapporto con loro che si deve la precoce e geniale capacità di Simone Weil di ridiscutere a fondo la teoria marxista dell'oppressione e la concezione leninista del partito. Pierre Pascal aveva parlato presto di "americanizzazione" dell'URSS, come del resto anche Joseph Roth nei suoi articoli, brillantissimi, ma anche molto acuti e realistici, scritti dalla Russia come corrispondente della "Frankfurter Zeitung", nell'autunno del 1926. È nel confronto con il Benjamin del Diario moscovita che si può misurare il vantaggio di Un'ottica più empirica e perfino più disinvoltamente giornalistica, come quella di Roth. Mentre Benja- · min (molto preso dal suo amore per Asja Lacis, è vero) tende a commentare la realtà sovietica come un teologo cornn1entaun testo sacro, animato da una disperata volontà di credere, Roth riesce a dare un quadro straordinariamente concreto di quello che definì già allora "l'imborghesimento della rivoluzione russa": "questa crudele rivoluzione bolscevica ha creato il proprio borghese( ...) Tutti sono impiegati. Ogni persona che passa per la strada porta un distintivo. Ogni individuo è una sorta di agente pubblico. Tutti sono mobilitati (...) Ironie della storia ce ne sono sempre state. Ma · che la storia del mondo si riveli una beffa è qualcosa che si sperimenta di rado( ...) Non esiste un tipo peggiore del rivoluzionario piccolo borghese, del carrierista, del burocrate arrivato. Davanti alle strette porte del partito comunista c'è-ressa, una fila di raccomandati come se ne trovano soltanto nella borghesissima Francia ..." (Viaggio in Russia, 1927, pp. 9-12, ed. Adelphi). Non solo leggendo Roth a confronto con Benjamin, ma anche
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