FINE DEL CORTEO Reinaldo Arenas traduzione di Laura Gonsalez A La.zara G6mez, testimone Ora mi scappa. La perdo di nuovo. Una marea di gambe così fitte che si confondono, in questa mescolanza di stracci e corpi, sulle pozzanghere di orina, merda e fango, tra i piedi scalzi che affondano nella poltiglia di escrementi. La cerco, continuo a cercarla come se si trattasse (com'è vero che si tratta) della mia unica salvezza. Ma la maledetta riprende slancio. Eccola là, che s'infila per miracolo, sguscia tra le scarpe infangate, tra i corpi che non possono cadere, nemmeno quando svengono (tanto sono ammassati), tra i pianti, l'orina, sfuggendomi ogni volta con un guizzo che riesce, per non so quale incredibile intuito, a evitare il tacco assassino. La mia vita dipende da te, dipende da te, le dico, strisciandole dietro. E la inseguo, continuo a inseguirla aprendomi con gesto meccanico un varco tra pance, culi, piedi, braccia, cosce, un fetido ammasso di carni ed ossa, un arsenale di fagotti vociferanti che si muovono, che vogliono, come me, circolare, spostarsi, e provocano soltanto contrazioni, colpi d'anca, spallate, stiramenti, contorsioni incapaci di risolversi in passo, iricorsa, in movimento, in qualcosa che realmente si sposti, proceda, come se tutti fossero impigliati in una stessa ragnatela, che si stira da un lato, qui si contrae, lì si solleva, ma non ce la fa in nessun punto a rompersi. Così oscillano, indietro, avanti, indietro, avanti, tra ginocchiate, calci, sollevando le braccia, la testa, il naso, contro il cielo, per poter respirare, vedere oltre la calca dei corpi puzzolenti. Ma proseguo, non l'ho ancora persa di vista e insisto spintonando, strisciando, p~endendomi calci e imprecazioni, senza arrendermi, a inseguirla. · Neva, mi dico, ne va della mia vita ... La vita al di sopra di tutto, nonostante tutto, la vita quale che sia, senza ormai più niente, senza più te (e malgrado te), tra il frastuono che ora cresce, i lamenti e i canti, perché cantano, cantano di nuovo, e niente meno che l'inno nazionale. La vita, ora mentre t'inseguo carponi nella merda, al suono delle note (o grida) dell'inno nazionale, la vita come giustificaziol!e e rifugio, come soluzione immediata, come sostento, il resto (cos'è il resto) si vedrà. Ora m'importa solo di questa lucertolina, di questa maledetta lucertola che continua a sfuggirmi, coperta di escrementi, tra migliaia.e migliaia di piedi affondati anche loro nella melma. Un'altra volta, come tanfranni fa, era in quel punto finale in cui la vita non è più nemmeno una ripetizione inutile e umiliante, ma il ricordo ininterrotto di quella ripetizione che fin dall'inizio è stata, a sua volta, una ripetizione; stava in quel punto, in quel luogo estremo, ultima spiaggia, in cui il fatto di essere vivo ormai non conta, ed è impossibile persino esserne certi; dritto, per meglio dire con le spalle incurvate, perché la tettoia non gli consentiva di sollevare la testa, guardava dentro quella vecchia stanza di ex albergo in disuso, occupato da gente come lui o peggio ancora, creature vociferanti, senza altra idea, principio o sogno che non fosse il riuscire a sopravvivere a qualsiasi _prezzo, per sé e per gli altri - a non morire, cioè, definitivamente di fame- guardava, contemplava, non il passato o il futuro, tutti e due senza spiragli, e per giunta irrisori, guardava, insomma, il tratto della scaletta improvvisata che conduceva all"'attico", quella stretta sopraelevazione dov'era costretto a camminare non curvo, ma carponi, per evitare di sbattere la testa contro il soffitto; se ne stava così, tra la parete della facciata che dava sul ballatoio e il murò contiguo a quello dell'edificio accanto. Si fece un po' più avanti e i suoi occhi colsero in pieno gli occhi d~lla sua figura riflessa nello specchio fissato (con delle viti) sulla porta del ballatoio che restava, provvisoriamente; sempre chiusa. Ma ormai non era più lui, quello. Non correva più sui prati o in campagna. Correva a volte, in mezzo al tumulto isterico, cercando di prendere un autobus strapieno, o per fare la coda del pane o dello yogurt. Con uno sforzo distolse lo sguardo dalla sua immagine - quella attuale - attraversò in due passi il cubicolo, il suo regno, e si lasciò cadere sul sedile anch'esso improvvisato grazie a un connubio di miseria e necessità, una specie di panchetto ricoperto da una parodia di cuscino o imbottitura che fosse. Allora, prima ancora di poter pensare a una soluzione, lo strofinio di una pentola raschiata con violenza, il pianto, lo strillo di un bambino (bisognava pur chiamarlo in qualche modo),. il volume mostruoso di un televisore, di varie radio, qualcuno, come se non bastasse, che picchiava contro la porta dell'ascensore bloccato, un tale che dalla finestra si ostinava Disegno di Franco Matticchio. c., e, _.. ...._ '- 53
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