IL CONTESTO una tozza casa impastata di ciqa e erba mentre una figura alta avvolta in un gabi di cotone sdrucito trattiene a voce e gesti le ante che si richiudono e i cani che corrono festosi per permettere alla macchina di entrare con foga mentre una mano abbassa lentamente il panno bianco dalla testa canuta liberando due occhi accesi e un sorriso mesto scavato dagli anni. . ÈRahmato Oromo, settanta anni, lo zabagna. AAddis Abeba il guardiano notturno è obbligatorio per tutti. Guardiano di case e di proprietà, più fiduciario che vigilante armato, lo zabagna è antica professione, tra le più salde e le meno pagate di questo paese. Abituati in ogni stagione e epoca a escludere gli altri dal proprio altrui, accucciati in giacigli provvisori posti accanto alle entrate a segnalare la loro presenza, essi crearono problemi per così dire etici a molti volonterosi nuovi arrivati, dai peace corps americani ai ·consiglieri sovietici, che ne rifiutarono la logica e ne sottovalutarono il ruolo in un paese in cui il furto è sventato da accordi e complicità più che da leggi e guardie, con conseguenze spesso nefaste per il loro prestigio più che per i loro beni. Vennero subito riassunti, tacitando coscienze e convenienze, riaffermando antichi valori e contribuendo ai giudizi di estraneità e distanza che in Etiopia da sempre isolano iferenji, gli stranieri, dalla popolazione locale. Il mio ospite, un cooperante italiano, mi spiega che il suo predecessore teneva due guardiani, uno studente delle scuole serali per il giorno, e Rahmato, più fidato e ''.professionista", di notte. Lui, da vecchio "africano", non ha voluto cambiare e ha tenuto tutti e due. Il quartiere è sicuro, mi tranquillizza, anche se lontano dal .centro, ma in altri posti, aggiunge, ormai gli zabagna sono armati di fucili e la criminalità, non solo notturna, ha raggiunto il limite di guardia. Un collega etiopico dell'università me lo conferma giorni dopo. "Qui non solo gli zabagna sono armati, lo siamo tutti, mi dice. La fame, gli esodi rurali, l'insicurezza politica e il disordine sociale sono tali che nessuno si sente più garantito da nulla. Ognuno per sé e un fucile per tutti. Non più idee, passioni, fedi, progetti, questi ormai non li ha più nessuno; una volta si combatteva per questi e per questi anche si moriva. Oggi sono gli uomini, non le idee, a combattersi e morire. Le idee sono già morte. Si combatte per tutto, un pezzo di pane, un foglio di carta, pochi birr (dollari etiopici) in più, un posto a scuola per il figlio, un letto di ospedale':--Voiferenji non potete capire. Qui in Etiopia, in Africa, è finita un'epoca, una generazione, quella coloniale, iniziata e conclusa da voi, per voi; quella postcoloniale non ha avuto nemmeno il tempo di cominciare che si è già conclusa, uccisa da noi prima ancora di nascere. Lo sai l'unica cosa che è cresciuta a dismisura in Etiopia? Le sigarette. Un boom straordinario: centosessanta per cento, da un miliardo di pezzi nel 1978 a 2.6 nel 1986, ottantatre sigarette per ogni cittadino etiopico sopra i dieci anni. Straordinario, no? Da voi è il contrario: grazie non fumo. Questa è l'Africa di oggi. Qui non c'è economia, non c'è Stato, non c'è politica. Se ci sono, sono come voi dite, informali. Qui è tutto informale, il lavoro, i guadagni, la moneta, sì persino la moneta. Quando il cambio ufficiale è uno a due e quello effettivo è uno a sette, l'economia salta, anzi è già saltata. Perfino in banca ti chiedono se hai valuta in più." · Aula affollata gremita attenta. Un vecchio professore di geografia dell'università, Ato Mesfin Wolde Mariam, chiede e ottiene l'attenzione della comunità accademica etiopka e di quella internazionale. Davanti a un'aula di due-trecento persone, parla con foga, a braccio, e trascina l'uditorio nella sua analisi della "corruzione morale" che attanaglia il paese e non gli concede più vie di uscita se non attraverso un' altrettanto urgente 12 ribellione morale per la costruzione di una società civile dove il dibattito politico e la libertà di stampa, di opinione e di riunione siano riconosciuti e garantiti. Una società dove le idee, e non gli uomini, tornino a combattersi, i governi a confrontarsi in libere elezioni, la società à ritrovarsi intorno a principi e valori non più esterni ma riconosciuti e sanzionati dalla tradizione. Propone una fine della guerra civile, una tregua delle armi, un consiglio degli anziani democraticamente eletto che dovrebbe nominare un governo di transizione e proporre al paese una nuova forma di stato che non sia più quella fortemente centralizzata dell'Etiopia di oggi. Segue una lunga e appassionata discussione in cui analisi e diagnosi si accavallano e si annullano in un serrato gioco intellettuale di interventi che si indovinano nascondere vecchie proibizioni e nuove ansie di libertà. Pochi manifestano il loro accordo sull'iniziativa proposta pur condividendo nelle grandi linee l'analisi di Mesfin. Alcuni si allontanano polemicamente. Aleggia un senso di paralisi e di sfiducia per un meccanismo politico che si sa bloccato al di fuori dell'atmosfera irreale di un convegno di studi. La gente scuote la testa. Il governo farà sapere giorni dopo che non crede all'iniziativa dei professori. Intanto l'università è solo formalmente aperta. Gli studenti sono stati inviati a più scaglioni in centri di addestramento militare. La patria è in pericolo: il paese è diviso in due. I ribelli del nord assediano Assab sul Mar Rosso e sono arrivati a Ambo, meno di cento chilometri a sud della capitale. Che cosa succederà ora? Si combatterà tra fazioni rivali nella capitale etiopica come è avvenuto in quella soma1a? Se lo chiedono in molti, aAddis Abeba, mentre la "sindrome di Mogadiscio" richiamà qui non solo lo spettro della guerra civile, ma la caduta della stessa struttura sociale e societaria. Come in Liberia. Come in Somalia. Sarà lo stesso in Etiopia? Se lo chiedono angosciati etiopi e non etiopi della capitale, se lo chiede la locale comunità internazionale, se lo chiedonoferenji, cooperanti e rifugiati, i molti e vari "insabbiati", di epoche, esodi e esili diversi. Ma soprattutto se lo chiede la popolazione urbana di Addis Abeba, due milioni di abitanti, con forti nuclei del nord (tigrini) insediati in mezzo a una popolazione per lo più di origine Oromo e Amhara, insieme a molti altri gruppi e etnie e genti di lingua, cultura e religione diverse. Un melting pot urbano che copre a stento vecchie divisioni e antichi rancori accumulati negli anni, pronti a esplodere alla prima occasione, in agguato perché a lungo minacciati, discriminati, impauriti. È su questo sostrato sociale, sulle sue divisioni e risentimenti, ma anche sulle sue gerarchie interne e alleanze e protezioni, che si basa quel misto di paura e di vuoto che è la "sindrome" attuale. Che è anch~ difficoltà di capire realmente quello che sta succedendo all'interno di questi paesi che appaiono, oggi più che mai, i veri dannati della terra, quel sessanta e più per cento di popolazione mondiale che ha un reddito medio al di sotto dei 500 dollari l'anno, e che non ha più nemmeno una speranza, per quanto ideologica o messianica, di cambiamento. E dunque ,combatte e muore, oltre ,che per fame e siccità, per guerra e conflitti e lotte di predominio che avvicinano pericolosamente intere società sull'orlo della catastrofe. Come i guerriglieri del nord, i woyane, che attualmente accerchiano le truppe governative poste a difesa della capitale. Woyane è un termine amarico che vupl dire predone. È una parola che alla popolazione di Addis Abeba, gente del sud, incute timore. Qui non si tratta dei soliti ribelli eritrei, gli shifta della stampa governativa, gente che lotta per l'indipendenza della propria regione, che in trenta, anni di continua guerriglia ha logorato l'impegno annessionista del potere centrale contribuendo all'attuale sbandamento militare nel resto del paese, ma tutto sommato
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