IL GIOCO DEL PALLONE Giorgio Falcidia Tutto cominciò al termine di una partita, decisiva e combattutissima, tra la nostra "nazionale" e una squadra emergente centroafricana: una partita che aveva già visto trascorrere senza. esito i "tempi supplementari" e che si stava risolvendo nella serie rituale dei calci di rigore. Per l'ultimo di essi, ormai determinante, gli africani avevano impegnato un formidabile atleta, alto e snello, scalpitante e però controllatissimo, sul cui volto di tenebra, di rara nobiltà, le camere televisive evidenziavano le leggere, simmetriche cicatrici di·un tatuaggio per noi privo di significato ma in qualche modo, nella sua totale estraneità, affascinante e minaccioso. Tutto cominciò, dunque, in quella notte di metà luglio, allorché il "cannoniere" negro sparò il suo colpo micidiale: un pallone velocissimo, roteante su se stesso e insieme misteriosamente zigzagante, che dopo un primo tratto raso terra si innalzò inaspet-. tatamente in una diagonale calcolatissima fino all'angolo superiore sinistro della rete. Il gioco era fatto. E quel tiro mai visto fino allora, incredibile nella sua bizzarra traiettoria e nella sua implacabile precisione, sembrò lasciarsi dietro una sorta di stria di fuoco e di zolf9, una luminescenza e un afrore percepibili da tutti gli spettatori accalcati nel grande stadio; e, chissà come, anche da quelli protesi verso migliaia di schermi televisivi. Sullo stadio si addensò improvviso un silenzio assoluto, teso e inerte ad un tempo. Nessuno si mosse, nessuno levò un grido o un suono, mentre la nostra squadra nazionale, alla spicciolata, si avviava mestamente e scompariva nei vani degli spogliatoi. Intanto i calciatori africani, anch'essi lentamente e silenziosamente, come assorti in se stessi, si andavano raggruppando a centro campo; e là si disposero in circolo, accovacciati, le teste recline in avanti e le mani allacciate in catena: al centro, sul dischetto bianco, posava, anzi sembrava quasi levitare la tonda forma pezzata della palla da gioco. Tutto durò pochi minuti, o forse molto più a lungo; e solo quando gli atleti neri furono anch'essi scomparsi, il pubblico bianco cominciò a lasciare ordinatamente le gradinate. Ho detto "pubblico bianco" perché durante quella memorabile partita non si era visto sugli spalti un solo tifoso di pelle scura; anzi - come si seppe più tardi - nei giorni immediatamente precedenti, la nostra polizia di frontiera aveva segnalato un insolito, massiccio flusso in uscita di immigrati negri che evidentemente, e certo temporaneamente, rientravano nei propri paesi di origine, diretti verso il cuore oscuro del loro sterminato continente. Fu solo all'esterno dello stadio che si compì del tutto la metamorfosi di quella calda notte estiva, rispetto a quelle in cui erano state giocate le precedenti partite del campionato.L'aria era ancora opprimente e agli occhi della folla che defluiva tristemente riapparve la forma luminosa - come un pallone celeste - della luna piena, fino a quel momento cancellata dall'accecante illuminazione artificiale del campo e delle tribune. Ma la luna non era nitida e splendente: l'atmòsfera sovraccarica di umidità, e le vampe accensionali del calore sprigionato dalla città arroventata, l'avevano enfiata oltre misura e quasi deformata - rendendola insieme pallida e smorta-come lafacciadi unmalato d'idropisia; e il pianeta avvizzito emanava una sorta di maligno fluido 88 deprimente e al tempo stesso eccitante: un influsso che poté avere non poca parte in quello che di lì a poco doveva scatenarsi. Remoti ormai, nella memoria, i fragorosi entusiasmi, le baldanzose, arroganti intemperanze delÌe sere di vittoria, dalla massa ondeggiante e incerta cominciò a levarsi un cupo mugolio, ora fievole e disperso, ora addensato in boati cupi e soffocati come quelli che annunciano il terremoto. Il tono di questo irreprimibile sfogo sonoro era quello della più fonda e desolata lamentazione, di uno sconforto meravigliato e impaurito, ben presto rotto sempre più spesso da veri e propri ululati o da acuti, disumani gridi inarticolati. Le bandiere apprestate all'incitamento e alla celebrazione, ora stancamente reclinate e trascinate al suolo, seguivano i moti ancora indeterminati di quella folla improvvisamente orbata di progetti e di idee; il suono delle innumerevoli trombette a gas assumeva inevitabilmente il carattere di un commento rauco e rabbioso a quel generale "compianto" da antica tragedia greca. Ben presto, tuttavia, si distinsero nelle direzioni di moto e nei riti, gruppi e correnti variamente orientati, ancora intersecantisi disordinatamente come un mare sferzato da venti contrastanti. Molte voci superarono il tetto di quell'informe muggiare di armento impazzito, e in esse cominciarono a precisarsi lamenti, esecrazioni, scongiuri, ira profonda e fino a quel momento repressa dalla coltre pesante dello stupore e dello scoramento. Invocavano o bestemmiavano la sorte, iddio, i loro genitori; maledivano il germe e il giorno della loro nascita, il destino malevolo che li aveva inaspettatamente e inesplicabilmente rovesciati dal cielo all'inferno, senza speranza alcuna di remissione. · Tutto ciò aveva coinvolto, pressoché contemporaneamente, l'intera città fino alle estreme periferie; fosse l'onnipresente lucore di quell'astro avverso e deforme, fosse anche - come alcuni, sempre più numerosi, cominciavano a temere - la potenza distante ma incontrastabile di oscuri riti che si andavano celebrando nel fitto delle grandi foreste equatoriali: fatto sta che le medesime manifestazioni di cordoglio avviatesi intorno allo stadio insorgevano spontanee ·nel chi uso di una miriade di appartamenti - dinanzi allo schermo prudentemente accecato dei televisori - , nei bar di ritrovo delle "tifoserie" di quartiere, nelle sedi dei clubs sportivi, davanti ai megaschermi collocati a dozzine nei luoghi aperti della metropoli per canalizzare il più diffusamente possibile la grazia beatificante del campionato del mondo. Anche quella notte le strade della capitale furono percorse, ma lentamente, da centinaia di macchine strombettanti quegli stessi clacsons, però, che per l'innanzi avevano burbanzosamente quanto irriverentemente plagiato i ritmi scanditi dalle rivoluzioni montanti (tà tà tatatà tatà ...) venivano ora nervosamente colpeggiati a caso dall'eccitazione di mani frementi· di rabbia, tremanti di paura, o esercitati in lugubri cadenze funerarie. Anche quella notte si formarono cortei rumorosi: ma in lamentose melopee, in strida querule e disperate e andarono·vagando tristemente fino al primo chiarore dell'alba, strascicando bandiere e vessilli sportivi al pari di un esercito sconfitto e prigioniero, mentre il tricolore fasciava i corpi di molti giovani non a mo' di rassicurante corazza taumatugica, bensì a guisa di sudario stretto intorno a "zombi" vacillanti e allucinati. ·
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==