Linea d'ombra - anno IX - n. 60 - maggio 1991

neando R1vecenon è di questo tipo. Io constato che non esiste alcuna idea chiara del modo in cui apprendiamo i concetti. Non sto presentando una tesi empirica, una congettura alla quale certi dati potrebbero dare una risposta. Ciò che in realtà suggeriscono è che se si esaminano i model_lidisponibili di apprendimento concettuale, non solo i modelli razionalisti e innatisti, ma anche i modelli empiristi, vediamo che tutti hanno sempre presupposto che imparare un concetto, o una parola, è in realtà imparare a rappresentare il suo significato in qualche veicolo di rappresentazione. Hume pensava che imparare la parola "albero" consistesse nell'apprendere che essa esprime una idea, l'idea "albero", che è un certo singolo particolare mentale - per Hume una immagine, o qualcosa di simile. L'unico motivo per cui egli era in grado di sostenere che per imparare la parola "albero" non abbiamo bisogno di accedere a una idea innata è che egli pensava che l'idea di albero fosse definibile, grosso modo, in termini di proprietà sensoriali. A me sembra che ciò non sia molto plausibile Così lei aggiunge qualcosa alla tesi humeana che noi abbiamo idee. Sì, il fatto che non vi sono concetti complessi. Hume era un innatista radicale, pensava che tutti i concetti sensoriali fossero innati: su questo era molto esplicito. Ma pensava anche che vi fossero molti concetti non innati, perché credeva in una distinzione di principio fra concetti semplici e concetti complessi, e nella possibilità di definire i complessi a partire dai semplici. Questo gli permetteva di essere innatista per i concetti sensoriali ma non per altri concetti, come quello di albero. Se lei abbandona questo aspetto, se pensa che il progetto che cerca di giungere a dare analisi definitorie dei concetti complessi non riesce a svilupparsi - è io penso che questo sia evidente - allora la tesi di Hume, la tesi empirista, porta essenzialmente a concludere che tutti i concetti sono innati. Se tutti ·iconcetti sono strutturalmente semplici, allora è necessario che siano innati. Questa è in realtà l'idea di Hume, l'idea di un empirista: i concetti semplici sono innati, determinati dalla nostra struttura percettiva, e i concetti complessi sono definibili a partire dai concetti semplici. Ora, supponga invece che tutti i concetti siano semplici. Allora l'empirista dovrà arrivare a questa conclusione: "Bene, allora _sonotutti innati". Se veramente abbiamo questo ricco linguaggio nella nostra mente, lei ha dunque trovato una soluzione elegante per rappresentare in modo uniforme processi cognitivi di alto livello e processi "primari", come la percezione. Tuttavia molti studiosi di intelligenza artificiale e di teorie della percezione sostengono che ciò non è possibile. Essi affermano che ciò che faccio quando, per esempio, cerco di risolvere un problema di matematica, può effettivamente essere rappresentato come una manipolazione sequenziale di simboli. Però i processi percettivi, e, in generale, il modo in cui raccolgo quella ricca e confusa serie di conoscenze che forma l'immagine del mondo di ogni giorno, non sono sequenziali. Sono processi che si svolgono in una "macchina", il cervello, che ha un'architettura parallela. Sicché, se voglio spiegare quali sono i processi mentali di un matematico che dimostra un teorema, allora un.buon modello è il modo in cuifunziona una macchina di Turing. Però, quando mi SCIENZA/FODOR rivolgo allo studio della percezione, devo abbandonare la classica architettura proposta da Van Neumann per i calcolatori. Questi sono processi, si sostiene, che possono essere studiati solo elaborando adeguati modelli connessionisti e possono essere implementati solo su "connection machines". Se questa tesi è corretta, allora la sua ricostruzione è in qualche modo sbagliata, sia nel supporre che ilfunzionamento di una macchina di Turing offra un buon esempio di come i processi cognitivi potrebbero aver luogo, sia nel suggerimento pratico che l'architettura di un calcolatore classico è adeguata per simularli. Vi sono due questioni indipendenti, ed è importante sottolinearne l'indipendenza. La prima è: i processi mentali sono, in genere, seriali o paralleli? L'altra questione può essere così posta: è o no plausibile pensarli come processi definiti su simboli? Qualcuno potrebbe sostenere-del tutto ragionevolmente- una specie di teoria modulare. Si può pensare che sia ragionevole decomporre la mente in una gran quantità di parti inferenziali, differenti e autonome, che obbediscono a qualche precisa condizione su come possono scambiarsi informazioni. Se questa è la sua teoria, allora può sostenere che_una immagine ragionevole della mente, o perlomeno di una classe di processi mentali, è fornita da una gran quantità di macchine classiche-macchine di Turing, macchine di Von Neumann, o simili - che funzionano contemporaneamente e si scambiano infofl)1azioni o seguendo precise 'regole o del tutto liberamente, oppure ancora in qualche modo intermedio fra questi due estremi. Il punto è che si può sostenere che la mente è una specie di comunità di macchine classiche e, nello stesso tempo, affermare che ciascun membro di questa comunità è un calcolatore esattamente nel senso tradizionale, cioè è una macchina che manipola simboli. Non ho un'opinione veramente precisa su questo aspetto del dibattito seriale-parallelo. Non mi è affatto chiaro se la questione contenga qualche elemento davvero importante per comprendere la mente, ma assumiamo pure che molti processi mentali si svolgano contemporaneamente. . Quale ragione mi porta a dire che essi sono simbolici, cioè che sono processi definiti su un codice di computazione, in un linguaggio computazionale? La ragione è che sono processi inferenziali. Di questo nessuno dubita seriamente, tranne forse alcuni skinneriani o criptoskinneriani, come gli psicologi della scuola di Gibson. Fondamentalmente, la conclusione più importante della psicologia della percezione degli ultimi anni - e in realtà degli ultimi due secoli - è che la percezione è un processo profondamente inferenziale. Bene: supponiamo che sia vero. Se è così, allora disponiamo di una sola teoria dell'inferenza che è sviluppata in un modo sufficientemente soddisfacente, ed essa considera le inferenze come processi su oggetti strutturnti. È esattamente per questo che introduciamo un linguaggio come sistema di rappresentazioni: queste rappresentazioni sono i veicoli adatti perché su di esse si possano definire inferenze. Tutte le teorie dell'inferenza che sono state elaborate sono sensibili alla forma delle rappresentazioni, alla loro struttura. Ma se lei suppone che i processi mentali non siano classici, neppure nel senso di essere computazionali - cioè definiti su simboli - allora perde la possibilità di usare la teoria sintattica dell'inferenza per caratterizzare quei processi mentali. Dunque, i due problemi, 81

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