ILCONTESTO Nessuno sa quanti s-iano i curdi in fuga. Quattrocentomila (dicono) oltre i confini turchi. Seicentomila qui, negli ultimi chilometri di territorio iracheno. Ottocentomila (dicono) in salvo in Iran e altrettanti che aspettano alla frontiera. In tutto (dicono) due milioni e mezzo di uomini, donne, bambini che si sono mossi in pochissime ore, in pochissimi giorni inseguiti e mitragliati dalla Guardia repubblicana di Saddam Hussein che lo scorso primo aprile ha dato il via a una micidiale offensiva contro le città e i villaggi curdi nel Nord e nel Sud del Paese. Dicevano i primi messaggi mandati in Turchia dai combattenti peshmerga: "Saddarri sta facendo un massacro. Bisogna fermare. Saddam. Chiedere a George Bush di intervenire. Perché non ci aiuta? Non abbandonateci". Dicevano le prime testimonianze: "Le truppe entrano con i tank, sparano, radono al suolo le case. Rastrellano e fucilano gli uomini, stuprano le donne, tagliano la testa ai bambini. Bruciano tutto". È l'inizio (o la fine) del genocidio voluto dal regime di Baghdad: uccidere e fare scomparire i tre milioni di curdi che abitano (per malaugurato destino) sopra al mare dipetrolio iracheno. Liquidarli o almeno farli fuggire, sbarazzarsene una volta per• tutte,. sping~ndoli, a Nord, oltre i 300 chilometri di confine con la Turchia e a Sud verso l'Iran. L'unico nemico di Saddam è il tempo. Gli americani hanno firmato il cessate il fuoco. Si ritirano. Bush dice: "Non ci immischieremo nelle questioni interne dell'Iraq". Baker .allarga le braccia, vola qui e là in Medio Oriente a tessere la tela del 'nuovo ordine' che si disoccupa dei tre milioni di curdi. Saddam Hussein ha gli elicotteri, i mortai, i tank e i reparti della Guardia repubblicana tenuti distanti dalla guerra del Golfo, tenuti in salvo, pronti per l'uso interno. Ma nessuna sua 'arma può opporsi al tempo. Ci si è chiesti perché i reparti della Guardia siano entrati con tanta ferocia nel villaggi e perché siano arrivati a mitragliare con gli elicotteri le colonne dei civili in fuga sulle montagne per accellerarne l'esodo e la pressione ver~o la Turchia. Avevanofretta. Sapevano che ogni serata passata dal ·primo mondo davanti alla Tv in compagnia delle immagini dell'orrore curdo avrébbe avvicinato la fine delle operazioni. Perché le opinioni pubbliche del Nord del mondo, per quanto svagate, hanno l'immenso potere di commuoversi. Il tempo (della sofferenza) è.stato l'unico alleato dei curdi. Per salvare la propria esistenza di popolo, bisognava fuggire e guadagnare tempo~ Resistere ai cento, duecento, trecento chilometri di marcia con il solo conforto delle greggi e di quel po' di cibo e coperte che le donne riuscivano a trasportare. Resistere al freddo, valicando i passi che a 3 mila metri d'altezza conducono verso la Turchia, resistere alla pioggia, alle malattie, alla denutrizione. È una volta al di là del confine, una volta entrati nell'inferno dei campi profughi, parlare, mostrarsi alle telecamere, ai giornalisti, raccontare la propria storia, quella del villaggio, quella della fuga, chiedere aiuto, un minuto di attenzione (Tv). Turchia al confine, superata la città di Uludere. Un giornalista inglese, scarpe da trekking, berretto, impermeabile, giacca a vento ·ai:zurra, bloccato con il suo operatore in un punto qualsiasi del campo di Isikveren - 100 mila profughi ai bordi del confine, arrampicati sui pendii scoscesi della montagna, in mezzo al fango, sotto alla pioggia, senza cibo, acqua, coperte, medicine e tende, mentre passano bulldozer gialli che vanno su a sbancare nuovi sentieri,jeep che arrancano lasciandosi dietro asfissianti nubi nere di gasolio, in mezzo ai soldati turchi con fucile mitragliatore e bastone, tra ragazzini che assaltano i camion del pane, bambini che piangono, donne che cucinano sotto ai teli di plastica, donne che allattano, donne che cullano, uomini che tagliano rami e tolgono pietre, uomini che stanno accucciati a guardare il disordine lasciandosi distrarre dal rumore dei camion cisterna lucidi di pioggia che traballano sulle buche e a ogni botta perdono secchiate d'acqua 6 potabile, tra carcasse di animali morti, cespugli di rovi, vecchi seduti immobili con la kefiah grigia e nera in testa e la fascia colorata in vita, tra rivoli d'acqua che portano via le zampe delle pecore macellate, giocattoli di plastica, schiuma, sporcizia, s~sce d'acqua che corrono tracciandò complicati percorsi tra il fango, aggirando gli alberi senza foglie, ma carichi di stoffe, maglioni, coperte, camicie, stracci, tutto grigio di pioggia, tutto gocciolante compresi gli asini che il peso dei basti tiene immobilizzati sotto la pioggia, nel fango morbido e scivoloso, marrone, freddo, che copre, allaga, appesantisce tutto quello che ha a che fare con la terra e sulla terra, coperti di bende sporohe, i feriti dell'esodo, mutilati dalle mine, tagliati, colpiti dai proiettili, bruciati dal fosforo, con ferite rosse, gialle, bianche, viola, nere e occhi tutti uguali, pieni di terrore e stanchezza, lucidi, luminosi, lenti nel girarsi sulle cose, e insensibili alle traiettorie fulminee delle mosche- il giornalista, dicevo, assediato dai profughi che vogliono farsi intervistare e mostrarsi così come sono, tiene le mani aperte, la faccia di traverso e un sorriso imbarazzato mentre ripete in un inglese elementare: "Calma, prego. Noi facciamo le riprese. Stasera trasmettiamo via satellite. Televisione. Il mondo vede. Domani arrivano gli aerei con il cibo. E coperte. E medicine. La Tv f11vedere. Loro vengono". Iraq del Nord, valle di Sinat, verso Zakho. È·solo all'ultimo momento che ti accorgi di essere arrivato in un campo peshmerga, quando ti si sono già affiancati due uomini con kefiah rossa in testa, pantaloni e giacca mimitica, kalashnikov in spalla, cintura con i caricatori ricurvi e Colt 45 automatica nella fondina. Peshmerga significa: colui che guarda la morte in volto. Nessun combattente può avere una donna o dei figli. Da una dozzina çi' anni vivono alla macèhia, sono pastori con la barba, le mani grigie, il passo instancabile, che hanno imparato al fare la guerra. Sadek Mohammet, 31 anni, scarpe da ginnastica, ha appena finito di mungere una capra: "Volete milk? Oh, oh, milk!". Ride della astrusità inglese, scarica il kalashnikov e comincia a smontarlo: "Certo che ho paura. La guerra fa paura e m9rire fa paura. Anche vivere fa paura. Se i soldati mi prenderanno vivo, so che finirò crocefisso. Mi terranno inchiodato a due pezzi di legno sino a che non-morirò. Questa è la guerra". C'è il sole, la valle inzuppata di pioggia è verdissima. Il campo non è altro che una grotta di roccia chiara sotto a cui si è accampata l'intera unità: venti combattenti, un ufficiale, quàlche scatola di munizioni, due cannocchiali, tre lanciagranate anticarro Rpg di fabbricazione cecoslovacca, un agnello sC'Uoiato su un cartone, un sacco di tela con il pane e le olive nere. Stanotte vanno al fronte con il compito di raccogliere notizie e tornare. Hamrnar Youssuf, l'ufficiale, parla accucciato e fuma pescando in continuazione dal pacchetto rosso delle sigarette Alhama. Dice: "Distribuire gli ordini e raccogliere le informazioni sono i nostri principali problemi. Dobbiamo tenere i collegamenti. Le truppe di Saddam hanno le radio, noi abbiamo le scarpe". Questa parte delle montagne sono sotto il loro controllo. "Ci sono 1600 peshmerga qui intorno"'-Piccole unità in cima alle gole d'accesso e poi il grosso nellt!"'strade di Zakho". . ·Tutto quello che si muove in queste valli è agli ordini di lsmet Din Sindi, per 5 anni consigliere di Stato per il Kurdistan, ora comandante politico militare dell'opposizione in armi organizzata dal Pdk, il Part~to democratico curdo di Massoud Barzani. Ha 65 anni, è alto, la voce rauca, vive, per ragioni di sicurezza, in mezzo agli accampamenti dei civili, distante dalle unità combattenti. Arriva a metà mattina con una giovane guardia del corpo e ha fretta di tornare. L'ufficiale fa le presentazioni, i peshmerga portano due coperte per sedersi e parlare: "Ogni giorno muore un pezzo del mio popolo. Vivere è la nostra vittoria, ma da soli non possiamo farcela. Cosa vogliamo? Essere riconosciuti come popolo, avere il diritto elementare all'esistenza, parlare la nostraJingua, ottenere l'auto-
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