Linea d'ombra - anno IX - n. 60 - maggio 1991

di agire in due direzioni. Da un lato, l'ideale è efficace solò se non perde il rapporto con il reale; questo non significa che occorra sminuirlo per renderlo accessibile, ma che non bisogna separarlo dal lavoro della conoscenza. Non devono esserci da un lato degli studiosi-tecnici neutrali e dall'altro dei moralisti che ignorano le realtà umane; devon9 esserci ricercatori coscienti della dimensione etica della loro ricerca e uomini d'azione al passo con i risultati della conoscenza Non sono sicuro, d'altra parte, che l'accordo sui "buoni sentimenti" sia così perfetto come a prima vista potrebbe sembrare. Ho invece l'impressione che ci si riferisca spesso a esigenze contraddittorie, amalgamate in uno stesso slancio di generosità; come si volesse, come suol dirsi, salvare capra e cavoli. Per debanalizzare, occorre accettare di conservarsi logici nei confronti di se stessi; e se queste strade portano all'assurdo, bisogna allora ripartire da zero. Tutto questo andava detto per spiegare le particolarità del discorso che segue; e parlo evidentemente della sua direzione, senza nulla presumere sul livello del suo successo. Affronto l'argomento alla luce dell'esperienza che mi è propria, quella di uno storico e interprete della riflessione sull'incrocio delle culture, ma anche quella di un soggetto particolare che, come tante altre persone, ha vissuto e continua a vivere la pluralità culturale nella· sua personale esistenza. Organizzerò la mia carrellata su questo vasto settore attorno a due temi centrali: giudizi sugli altri, interazione con gli altri. Giudizi sugli altri Sono cresciuto in un piccolo paese posto a una delle estremità dell'Europa, in Bulgaria. Nei confronti degli stranieri, i bulgari hanno un complesso di inferiorità: ritengono che tutto quello che arriva da fuori è migliore di quel che si trova in casa propria. Vero è che non tutte le parti del mondo di fuori, dell'estero, si equivalgono e che il miglior estero si incarna per loro nei paesi dell'Europa occidentale; a questo estero i bulgari danno un nome paradossale ma che spiega la loro situazione geografica: esso è "europeo", tout court. I tessuti, le scarpe, le lavatrici o le macchine da cucire, 1 mobili e perfino le scatole di sardine sono migliori quando sono "europei". Di conseguenza ogni rappresentante delle culture straniere, persona o oggetto, gode di un pregiudizio favorevole, iricui le differenze tra un paese e l'altro si stemperano, quelle stesse che invece formano i clichés dell'immaginario etnico nell'Europa occidentale: per noi, allora, ogni belga, italiano, tedesco, francese appare come aureolato di un sovrappiù di intelligenza, di finezza, di distinzione, e gli votiamo un'ammirazione che può venir alterata solo dalla gelosia e dell'invidia che si impadronivano di noi ragazzi quando uno di questi belgi di passaggio da Sofia faceva girar la testa alla ragazza dei nostri sogni; e quando il belga se n'era andato, poteva succedere che la ragazza continuava a guardarci dall'alto in basso. Per tutti questi motivi, i bulgari sono dunque piuttosto ricettivi nei confronti delle culture straniere: non soltanto sognano in continuazione di recarsi ali' estero (di preferenza in "Europa", ma possono andar bene bene anche gli altri continenti), ma imparano anche volentieri le lingue straniere, e si buttano, pieni di benevolenza, su romanzi e film stranieri. Quando sono venuto a vivere in Francia, a questo pregiudizio favorevole nei confronti degli SAGGI/TODOROV stranieri, se ne è aggiunto un altro: costretto a far la coda per ore davanti alla prefettura per il rinnovo della carta di soggiorno, non potevo che sentirmi solidale con gli altri stranieri che avevo vicini: maghrebini, latino-americani o africani che subivano le stesse penose costrizioni; e d'altro canto gli impiegati agli sportelli o, altrove, le guardie, i portinai e altri tipi di poliziotti, per una volta egualitari, non facevano certo molte distinzioni: tutti gli stranieri erano trattati allo stesso modo, quantomeno in un primo tempo. Anche stavolta, dunque, lo straniero era buono: non più come oggetto d'invidia ma come compagno di sfortuna-anche se, nel mio caso, questa sfortuna era molto relativa. Una volta messomi a ragionare su questi,problemi, mi sono reso conto che questo atteggiamento era assai criticabile: non solo in quei casi caricaturali nei quali questo è del tutto evidente, ma proprio nel suo principio. Il giudizio di valore che io davo era basato su un criterio puramente relativo: si è stranieri soltanto agli occhi degli autoctoni, non si tratta di una qualità,iritrinseca; dire di qualcuno che egli è straniero è evidentemente dirne molto poco. Io non cercavo di sapere se un certo comportamento era in sé giusto e degno di ammirazione; mi bastava constatare che era di origine straniera. C'era inoltre in questo un·paraiogismo che la xenofilia divide con la xenofobia o con il razzismo (anche se parte da un'intenzione più generosa), e che consiste nel postulare una solidarietà tra le diverse proprietà di una stessa persona: anche se Tizio è allo stesso tempo francese e intelligente e Caio insieme algerino e analfabeta, non è un dato che permetta di dedurre i tratti morali da quelli fisici, e ancor meno di allargare la deduzione a tutta la popolazione. · La xenofilia ha due varianti, a seconda che lo straniero appartenga a una cultura sentita globalmente come superiore o inferiore alla propria. I bulgari ammiratori dell' "Europa" illustrano la prima, che potremmo chiamare malinchismo ricorrendo al termine utilizzato dai messicani per indicare la cieca adula:i;ione dei valori occidentali (nel loro caso spagnoli, oggi angloamericani), un termine che viene dal nome della famosa Malinche, l'interprete indigena di Cortés. Il caso della stessa .Malinche è forse meno deciso di quanto non lasci pensare il peggiorativo malinchismo, ma il fenomeno è assai consolidato in tutte le culture in cui si conserva un sentimento di inferiorità in rapporto a un'altra cultura. La seconda variante è familiare alla tradizione francese (e alle altre tradizioni occidentali): è quella del buon selvaggio, e cioè delle culture straniere ammirate esattamente in ragione del loro primitivismo, della loro arretratezza, della loro inferiorità tecnologica. Quest'ultimo atteggiamento è presente anche ai nostri giorni e si può individuarlo chiaramente attraverso certi discorsi ecologisti o terzomondisti. , Ciò che rende questi comportamenti di xenofilia non antipatici, ma poco convincenti, è dunque quanto hanno in comune con la xenofobia: la rnlatività dei valori sui quali si fondano; è come se dichiarassi che vedere una cosa di profilo è intrinsecamente superiore a vederla di fronte. Direi lo stesso del principio di tolleranza, cui oggi ci si richiama molto spesso. Si è soliti opporre la tolleranza al fanatismo e giudicarla superiore; ma in queste condizioni il gioco è vinto in partenza. La tolleranza è considerata una qualità solo se gli oggetti nei cui confronti si esercita sono davvero inoffensivi: perché condannare gli altri, come è stato 41

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