Linea d'ombra - anno IX - n. 60 - maggio 1991

L'INCROCIO DI CULTURE Tzvetan Todorov traduzione di Saverio Esposito Accostandomi all'argomento annunciato da questo titolo, L'incrocio di culture, e cioè le forme che assumono l'incontro, l'interazione, la mescolanza di due società particolari, mi prende un dubbio: quale statuto· avrà il mio discorso? Quello del1o studioso? Sarebbe una scelta possibile e indubbiamente legittima. Come sociologo, studierei gli effetti della coabitazione di più gruppi culturali sullo stesso suolo o le forme di acculturazione subite da una popolazione di emigrati. Come letterato, stabilirei l'iQfluenza di Sterne su Diderot o l'effetto del bilinguismo ambientale sulla scrittura di Kafka. Come storico, constaterei le conseguenze dell'invasione. turca sull'Europa del Sud Est nel XIII secolo o quelle delle grandi scoperte geografiche sull'Europa dell'Ovest nel XV. Infine, come epistemologo, mi interrogherei sulla specificità della conoscenza etnologica o sulla possibilità generale di capire l'altro da me. Quest'atteggiamento è ben consolidato e perfettamente difendibile. Ma si avverte anche la sua incompletezza, se esso rimane tal quale. Non si sta discutendo, infatti, in queste ricerche, di sostanze fisiche o chimiche, bensì di esseri umani; e razzismo, antisemitismo, lavoratori immigrati, soglie di tolleranza, fanatismo religioso, guerra ed etnocidio sono nozioni cariche di un grande peso affettivo, nei cui confronti è vano fingere indifferenza. Forse nella storia ci sono stati momenti in cui è stato possibile parlarne con distacco e imparzialità (benché io non ne conosca); ma oggi, in Francia, sarebbe alquanto risibile tenersi su un tono puramente accademico quando così tanti individui soffrono quotidianamente, nel corpo e nell'anima, a causa dell' "incrocio di culture". E se mi facessi uomo d'azione? Questa è una posizione esistente e certamente utile. So allora da che parte della barricata mi colloco; partecipo alle manifestazioni e firmo appelli; oppure, se ho un temperamento meno bellicoso, dedico parte del mio tempo libero a corsi di alfabetizzazione per lavoratori stranieri. Ma è proprio questo il problema: che me ne oçcupo solo nel tempo libero, a fianco e al di fuori della mia attività principale. Posso prender parte come qualsiasi ad azioni in favore di questo o quel gruppo maltrattato; ma ciò che faccio nel resto del tempo non c'entra: e non è perché, nel privato, se così oso dire, sono storico o sociologo che la mia militanza è minimamente diversa da quella degli altri. Due attività di una stessa persona,-quella dello studioso e quella del politico, che soffrono allo stesso modo a venir isolate l'una dall'altra: ma le si può concepire in una relazione altra che di alternanza (studioso dalle nove alle cinque, militante dalle cinque alle nove)? Sì, a condizione di riconoscere che a fianco di queste due funzioni possa esisterne una terza, che indicherò con il termine ambiguo, quando non svalutato, di intellettuale. E vorrei che grazie a questa parola si senta come per lo specialista dello spirito umano e delle sue opere esiste la necessità di render conto dei valori soggiacenti al proprio lavoro e del loro rapporto con i valori della società in cui vive. In quanto tale, l'intellettuale non è un uomo d'azione: anche se "milita", non è per il suo lavoro a servizio del governo o per la sua lotta clandestina che egli è intellettuale. L'uomo d'azione parte dai valori che lascia sottin40 tesi; l'intellettuale ne fa, al contrario, l'oggetto della sua riflessione. La sua funzione è essenzialmente critica, ma nel senso costruttivo del termine: egli confronta il particolare che tutti viviamo con l'universale, e crea uno spazio in cui possiamo dibattere sl:llla legittimità dei nostri valori. Rifiuta di veder ridotta la verità sia al puro adeguarsi ai fatti cui pretende lo studioso che alla verità Tzveton Todorov (Archivio Seuil) , rivelata, alla fede del militante; aspira piuttosto a una verità riconoscibile verso la quale si procede accettando l'esame e il dialogo. Riesco dunque a intravvedere uno scopo comune per le arti e le scienze umane (che peraltro manovrano forme e discorsi così diversi tra loro): rivelare ed eventualmente modificare il complesso di valori che servono da principio regolatore della vita di un gruppo culturale. Gli artisti e gli studiosi di "scienze umane" non possono fare la scelta di collocarsi oppure no in rapporto a questo complesso, nella misura in cui rientra nel loro progetto mettere in 1uce qualche aspetto sconosciuto dell'esistenza umana, che a sua volta non può venir pensata fuori del rapporto ai valori; ma, resi consci di questa relazione inevitabile, essi possono assumerla con più responsabilità che se ne ignorassero l'esistenza. Czeslaw Milosz racconta nel suo libro La mente prigioniera che certo nazionalismo polacco d'anteguerra scopriva con paura come i discorsi antisemiti che aveva fatto per bravata si trasformavano, sotto l'occupazione nazista, in fatti materiali, in altri termini in ossarii umani. È per evitare questa tardiva presa di coscienza e l'orrore che può accompagnarla che gli artisti e gli studiosi hanno interesse ad assumere subito la loro funzione di intellettuali, il loro rapporto ai valori; di accettare insomma il loro ruolo sociale. Ma ecco sorgere su questo una difficoltà supplementare, propria al campo delle relazioni interculturali: e cioè che tutti sembrano già d'accordo sulla condizione ideale. È un fatto che sorprende: mentre pullulano i comportamenti razzisti, non c'è nessuno che si richiami a una ideologia razzista. Tutti sono per la pace, la coesistenza nella comprensione reciproca, gli scambi equilibrati e giusti, il dialogo efficace; così affermano le conferenze internazionali, su questo si dichiarano d'accordo gli specialisti a congresso, questo ripetono le trasmissioni radiofoniche e televisive; e tuttavia si continua a vivere in mezzo all 'incomprensione e alle guerre. Si direbbe cnelo stesso accordo su cosa sono i "buoni sentimenti" in materia, l'universale convinzione che il bene è preferibile al male tolgano a quest'ideale ogni efficacia: la banalità esercita un effetto paralizzante. Dobbiamo dunque debanalizzare il nostro ideale. Ma come? Non finiremo comunque, pur di essere originali, per abbracciare un credo oscurantista o razzista. Per conto mio, vedo la possibilità

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