Linea d'ombra - anno IX - n. 60 - maggio 1991

IL CONTESTO vogliono venir meno; loro dramma è la sfida costante a questa fedeltà. Ripeto che qui siamo di fronte a una discriminante più grande di quella fra uomini religiosi e non religiosi; si tratta di una linea che attraversa gli uni e gli altri e che ci ricorda che la "fede" (diversa dalla "credenza") non è patrimonio esclusivo dell'uomo religioso. Condizione per tutti, ed è Krishna che nella Bhagavad Gita lo ricorda ad Arjuna, è aspirare non alla vittoria, né alla regalità, né ai piaceri (I, 32), ma la coscienza di es~ere chiamati ad agire senza godere dei frutti delle proprie azioni. Il frutto del proprio agire non può mai essere il movente dell'azione. Siamo di fronte a quella sapienza che è anteriore alla filosofia (alle filosofie). In questo tempo di declino di una cultura la sapienza, come ricorda G. Colli in quel preziosissimo volumetto che è La nascita dellafilosofia 3 , è più vitale della filosofia stessa. La concezione della verità, così come è arrivata a noi, è troppo astratta, lontana dalla ricchezza che la storia di aletheia ci offre. Ciò non sig.nificache, nonostante l'impossibilità di uno sviluppo omogeneo fra sapienza e filosofia si debba rinunciare a "filosofare". · Piuttosto l'attenzione per ciò che sta prima della filosofia, non può mai essere data per scontata, ma anzi deve essere sempre ricercata. La "non-necessità" di Dio Coerente con questa direzione sono alcuni risultati di quella teologia cristiana che più si è fatta carico della crisi conseguente alla caduta del concetto di Dio fondato metafisicamente. Quella crisi, per spiegarmi più chiaramente, che ha avuto il suo punto di partenza nell' "io penso" cartesiano e il punto d'arrivo nell'annuncio nietzschiano della "morte di Dio". Basti riferirsi in questa sede alla riflessione che, al seguito delle suggestioni delle lettere dal carcere di Bonhoeffer, ha cercato di pensare al mondo "etsi deus non daretur". L'assenza di Dio -che è a parer mio espressione più adeguata della morte di Dio - è ciò a cui Dio ci costringe a pensare. "Dio stesso" scrive Bonhoeffer4, "ci obbliga a questo riconoscimento. Così il nostro diventare adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione di fronte a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio.( ...). Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l'ipotesi di lavoro Dio è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo. Davanti a Dio e con Dio viviamo senza Dio". "Non sarebbe possibile" scrive il teologo E. Jungel5 esprimere in modo più acuto la scoperta della non-necessità di Dio, di fronte alla quale sarebbe anacronistico provare al mondo "che non potrebbe vivere senza Dio". Pensata in modo positivo questa scoperta significa: "In ciò che conosciamo dobbiamo trovare Dio , ma non in ciò che non conosciamo; rion nelle domande senza risposta, bensì in quelle che hanno trovato una risposta Dio vuol essere compreso da noi" (Bonhoeffer). Questo compito dei credenti, che fonda una differenza, non annulla la scoperta che "Dio dal punto di vista del mondo non è. necessario"6 • Il problema di Dio non, si pone come necessità o meno; va al di là di queste categorie; riguarda il gratuito e ciò che esso può rivelare. Ed è con queste acquisizioni che la teologia cristiana oggi deve confrontarsi. Dire questo significa anche, riprendendo la tradizione giudaica, riscoprire quella fedeltà alla terra, alla finitezza che comporta "cura", passione, sentirsi a casa propria.Una esperienza che il tipo di escatologia dominante (ridotta, cioè, all'attesa dell'aldilà), ha fatto perdere.L'esperienza del divino è possibile solocon l'accettazione totale della propria finitezza, che permette 24 a sua volta di abitare e non semplicemente usare la terra. Ma a sua volta questa accettazione diventa possibile e reale se appoggia su qualcosa di stabile, di solido che è appunto ciò che credenti e non credenti chiamano "fede". Il superamento di un tipo di razionalità che tendeva a cancellare quella "sapienza" di cui è intessuta non solo la fede cristiana, ma qualsiasi tradizione autenticamente religiosa, togliendo alla teologia quella arroganza tipica di un razionalismo che vuol tutto dimostrare (per tutto sottomettere) le ridanno quella "debolezza" e quel senso del limite che deve caratterizzare ogni espressione della fede. Partiti da Unacritica al teismo-alla concezione di Dio come sommo ente e persona trascendente - che rischiava di appiattire e vanificare Dio stesso, la teologia si è potuta confrontare liberamente, senza tuttavia troncare il discorso su Dio, con gli esiti dei Feuerbach, Nietzsche, Freud, Bloch .... Anche se diventa più "debole" perché cosciente che il suo discorso manterrà sempre possibilità di esiti diversi per l'inseparabilità delle realtà Dio-uomo-mondo che la riflessione metafisica aveva distinto (troppo) nettamente, essa tuttavia non si è distaccata dal suo oggetto. Ha piuttosto scoperto una nuova libertà nel rapportarsi ai discorsi filosofici, cosciente che le possibilità della ragione sono molto più ampie delle vie finora seguite. Lo "stato d'emergenza" C'è un altro dato che accomuna tutti questi uomini che osano sperare "contro ogni speranza": il rifiuto dello stori~ismo nella concezione della storia. Benjamin ce lo ricorda con forza non comune quando contro gli storicisti rifiuta la logica della lotta per la vittoria storica. I frutti di questa lotta per la potenza sono destinati a diventare un cumulo di macerie. Vince infatti solo chi ha una idea positivista della storia, chi pretende di possedere la verità. Un convincimento che non è solo dei religiosi fondamentalisti, ma anche di tanti laici che rinnegano in questo modo ciò che li dovrebbe caratterizzare. Per costoro non c'è spazio per la pietà, per i vinti, per gli oppressi, per tutti coloro che con la loro esistenza sono una denuncia costante della situazione di ingiustizia in cui l'umanità si trova e che fondano quello "stato d'emergenza" che deve caratterizzare il modo di vivere di chi mantiene quella "fede" di cui si è parlato. Una fede che si regge sulla capacità di tenere costantemente uniti, pur .nella contraddizione, miseria e grandezza dell'uomo o, per esprimermi con Eliot, una fede che dona la capacità di recitare , sia pure male, la preghiera dell'annunciazione, nonostante il lamento dei senza voce, l'appassire dei fiori, la deriva del mare ... Ma per questi uomini non è il "continuum", l'organicismo, l'idea che sorregge la misura del tempo, ma la frammentarietà, il discontinuo, l'incompiutezza, non come dati amorfi e silenziosi, ma come momenti attraverso cui la storia parla e di cui è possibile cogliere, lungo il tempo, il tenue filo rosso. Il ricupero in tutta la loro pienezza dell'unicità degli eventi che si susseguono è condizione per porsi in questo modo di fronte alla realtà. L'istante deve essere colto in tutte le sue potenzialità; è dalla sua piccola porta, come ci ricorda ancora Benjamiil, che passa il Messia. Anche Eliot nei Quattro Quartetti esprime con forza non comune questa ricchezza di contenuti del]' istante, colto come punto di intersezione dei vari fili attraverso cui la vita si dipana: "Qui è. l'impossibile unione di sfere dell'essere, in atto, qui sono il passato e il futuro conquistati e riconciliati (...).Per molti di noi è questo lo scopo che qui non si può raggiungere mai; noi che non siamo sconfitti solo perché continuiamo a cantare, contenti alla fine che il nostro ritorno nel tempo (...) dà vita a un suolo che ha senso"7 •

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