del tutto indiana (anche perché il Pakistan era un'idea astratta appena abbozzata), i caratteri stilistici e psicologici ne fanno opere ben diverse, nella sostanza e nel contenuto, dalle coeve narrazioni di Raja Rao, Anand e Narayan. Appare diverso l'uso dell'idioma inglese e delle tecniche narrative, ambedue legate a soluzioni e stilemi tipici della tradizione occidentale. Mentre gli scrittori indiani della prima generazione individuano nell'uso 1ibero dell 'Indian English il fattore modernistico di rinnovamento che permette loro di restringere al minimo lo spazio tra esperienza quotidiana di massa e lingua scritta, il senso innovativo meno forte mostrato da Ahmed Ali riflette l'atteggiamento di frustrata adesione al passato e di passività nei confronti del futuro, tipico di gran parte della cultura islamica. Non sostenuto da una visione evolutiva della storia, il lirismo romanticheggiante di Ocean of Night perde ogni carattere elegiaco, di rimpianto puro e semplice, per attingere invece a una dimensione onirica rarefatta, nella quale gli accadimenti esteriori non hanno alcun valore tragico, limitandosi a esprimere un discorso già definito e concluso nel passato. Neppure l'impalcatura grezza della storia (il declino di un nawab, o notabile e possidente musulmano, dovuto allo sperpero irresponsabile e alla passione per una donna insignificante; ladelusa sensibilità di una cortigiana, emblema idealizzato di una.società cortese che sta per scomparire; l'apatica incostanza di un giovane avvocato, nutrito anche di sofisticata cultura occidentale) dà vita a una struttura significativa di destini incrociati. Nel romanzo non accade nulla, in quanto la staticità è nell'ideologia che lo nutre; è forse inutile cercarvi precisi significati storici o una volontà di analisi. Per incontrare, dopo Ahmed Ali, il nome di un narratore rappresentativo e di fama non solo esclusivamente locale, bisogna passare a Zulfikar Ghose che con The Murder of Aziz Khan (L'uccisione di Aziz Khan, Londra 1967) ha costruito un romanzo ponderoso e di lenta scrittura. Nella storia, ambientata subito dopo l'Indipendenza, di come una cinica e rapace famiglia di industriali distrugga fisicamente, per pure ragioni di prestigio, una famiglia di piccoli proprietari terrieri illetterati, 1'autore traccia un quadro disperato e privo di alternative, stretto com'è tra l'inarticolata impotenza delle vittime e la corrotta intraprendenza dei potenti. L'inglese foneticamente grottesco parlato dalla nuova borghesia pakistana mette a nudo il suo parassitismo predatorio, non solo di stampo economico ma anche culturale e, in questo caso, volgarmente imitativo. Nel romanzo la lingua inglese (sia pure spesso degenerata) è ancora strumento di potere edi comando, serve a escludere dalla comprensione della realtà il popolo, come avviene nell'episodio del processo, i cui atti, celebrati in inglese, risultano incomprensibili alle persone interessate. Da quanto appare nelle varie raccolte indicate in precedenza, la produzione pakistana di narrativa breve non sembra eccelsa. I racconti di Tahir appaiono alquanto schematici e bozzettistici, mentre Zulfikar Ghose si abbandona a fastidiosi esperimenti pseudo-modernistici.Dell'antologia curata da Hashmi vale tuttavia la pena di menzionare un delicato racconto di Shuaib bin Hasan, Short Leave in Port-Sqid (Breve franchigia a Porto Said), in cui si descrivono le peripezie di un ingenuo montanaro pathano a Porto Said. SAGGI/MONTI Due scrittori rappresentativi Raja Rao (nato nel 1909), autore di Kanthapura (Londra 1938); The. Serpent and the Rope (Il serpente e la fune, Londra 1960) e del recente The Chestermaster and His Moves (Il maestro di scacchi e le sue mosse, Delhi 1988), è scrittore nello stesso tempo lineare e sofisticato, ben versato sia nella tradizione popolare sia nel patrimonio religioso e mitologico del suo paese, ma non ignaro, tuttavia, di cultura occidentale. Nella raccolta On the Ganga Ghat (Delhi 1989) Raja Rao dedica undici racconti non lunghi alla città sacra di Benares, simbolo e cuore dell'induismo, tessendo una tela insieme realistica e mitica, che coglie con insuperata precisione il sapore della vita popolare quotidiana, vista nei suoi aspetti più minuti. L'apparente dato bozzettistico è tuttavia trasfigurato dalla sacralità magica di Benares, che è luogo dove ancora e sempre si compiono, davanti ai nostri occhi di lettore, le storie antiche dell'induismo, dove l'incontro tra terra e cielo confonde di continuo il piano della realtà con quello del sogno. In epigrafe al volume (a mo' di giustificazione per le note esplicative) lo scrittore invita a lasciarsi "scorrere" (flow) con il Gange. Ma in un'ulteriore intestazione, aggiunge, "L'acqua non scorre". Di questa relatività serena e feconda, pacifica e pia, è impastata la storia deliziosa che qui presentiamo: minima e vivace commedia d'ambiente ma anche, e soprattutto, straordinaria performance linguistica, giocata su una lingua mimetica parlata godibilissima e in apparenza "scorrevole", e che tuttavia si blocca di continuo, non "scoITe" alla nosu:a comprensione, in quanto dice d'altro in un linguaggio diverso: quello del tempo mitico e celeste degli antichi dei. La lingua di questo racconto varia da un codice all'altro, è sottratta, nella propria essenziale indianità, al flusso contingente del tempo, non "scorre", rende effimero e subalterno l'inglese usato nella scrittura, ne fa una lingua strumentale, che non incide sul significato della magnifica visione. Il glossario apposto è solo un'ombra sbiadita e corrotta di questo mondo integro e totale che è l'India di Raja Rao; ne restituisce a fatica, come mal masticata erudizione, l'unità che nasce da una coscienza forte dell'ibridismo, riduce a stanca enciciopedia il potere arcano e magico del mantra: i termini indiani (etnografici, religiosi, letterari) incastonati nel testo inglese ne costituiscono la sua essenza profonda, il significato rivelato. Ben diversa è la natura di Il nostro vicolo, il racconto di Ahmed Ali. Qui la rappresentazione dal di dentro di una microrealtà quotidiana ha occhi solo per la desolazione, la sporcizia, la morte e la sconfitta, la follia spogliata da ogni aurea di rispettata sacralità. Appare fortemente -biografica, rispetto alla personalità del narratore, la breve notazione di un personaggio che si ferma per un istante a contemplare, affascinato, un piccione che giace morto in un rigagnolo di scolo. Risiede forse in questa cifra patologica, di morbosa attenzione, il vero senso della Delhi di Ahmed Ali, oltre le nostalgie mughal e l'insofferenza per il dominio inglese; il vicolo nel quale si svolge l'azione del racconto è, a differenza della Benares di Raja Rao, un luogo del tutto terreno, nel quale le manifestazioni miracolose o benefiche della divinità (la saggezza di una mucca, la fiaba su re Salomone) sono solamente consolatorie, alleviano perun attimo (come metafore di fatalismo) la tensione del presente, senza entrare nella sua grana. È forse possibile cogliere nella struttura casuale e puramente cumulativa dei fatti narrati da Ahmed Ali l'eco del dastan, un tipo di racconto (o una serie di racconti) lungo e sconnesso, segnato tuttavia da una ricca varietà di modi e di contenuti, che mancano alla visione monocorde dello scrittore pakistano. A differenza di quanto avviene con Raja Rao, la fusione tra tradizione popolare e scrittura colta (nei termini di un inserimento del mito nella vita contemporanea) non apre la strada a un idioma nuovo, ma oscilla tra la decadenza del modello autoctono 65
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