INCONTRI/HIRSON Sì, il libro è il risultato di questo lavoro sulla memoria. È stata una specie di ricostruzione del mio passato. Forse non ne ero cosciente quando stavo scrivendo, ma oggi penso che al fondo della scrittura vi sia anche una componente terapeutica. Scrivere il libro mi ha fatto bene, mi ha permesso di riavvicinarmi al mio passato. Il Sudafrica è un paese bellissimo. Questa bellezza è evidente a chiunque vada in Sudafrica, una bellezza che risalta malgrado, e forse proprio a causa, dell'orrore che invade il paese. Questo paese è rimasto in me anche se vivo in Europa da più di quindici anni. Insomma all'origine di questo romanzo c'è un'assenza, quella dell'Africa. · Anche la storia è sempre filtrata dalla memoria personale? In fondo questo era proprio il proposito del libro: descrivere il paesaggio della memoria nel quotidiano come nella storia. Quindi non potevo inventare, non potevo descrivere degli avvenimenti storici al di fuori di me stesso, al di là di ciò che mi toccava direttamente. Il vissuto in Sudafrica era nel quotidiano, che peròeraall'internodi un vuoto. Mi era impossibile vivere gli · avvenimenti storici, ho smesso di viverli nel momento in cui mio padre è stato arrestato. Ma non era solo un caso personale, perché in quegli anni, dopo Sharperville e la repressione, la storia si era fermata, non c'è più speranza storica. Restava solo il quotidiano. Avevamo l'impressione di non poter fare nulla. Il massacro di Sharpeville era l'unico vero episodio storico che seritivo di aver vissuto, anche se avevo solo dieci anni: per me rappresentava la storia, la rivolta e il !errore. · È per questo che anche gli avvenimenti storici sono sempre immersi in una sorte di luce lirica? Non credo di aver vissuto liricamente quegli avvenimenti. Ma è vero che me ne sono riappropriato in maniera altra. Per me non si è trattato di un allontanamento ma di un allargamento della percezione di quegli avvenimenti. Il suo libro può essere letto come un romanzo di iniziazione alla tragicità del reale? Inizialmente, non avevo intenzione di scrivere un bildungsroman. È vero che il libro può essere letto anche così. Per me erano solo dei frammenti di vissuto colti nel buio, solo a:dun certo punto mi sono reso conto che nel testo che andavo scrivendo c'è una precisa evoluzione, non lineare ma ben riconoscibile. Erano illuminazioni di un paesaggio particolare in differenti momenti di una vita. Ma ciò non era intenzionale, non c'è un progetto cosciente. C'è poi la tematica dell'innocenza perduta con l'infanzia ... Credo che l'innocenza di un bambino bianco in Sudafrica sia una cosa assai strana. Avevo µna casa, avevo un giardino, avevo tempo libero ... ho dei ricordi straordinari di quell'epoca, della gente, della natura. Ma al fondo di questa innocenza c'era una nota stonata: da subito ci si rendeva conto che qualcosa non andava. A casa mia percepivo le tensioni politiche che erano il riflesso degli avvenimenti esterni. E poi c'è stato l'arresto di mio padre. Insomma, se c'era innocenza in quel momento, si trattava di un'innocenza protettrice, perché non volevo vivere l'assenza 56 orribile di mio padre. Alla fine del libro sembra emergere la coscienza che il paradiso infondo era falso ... Non mi piace la parola "falso"; quel paradiso era vero perché era vissuto come tale. Non bisogna credere che il Sudafrica sia un paese diverso dagli altri solo perché c'è l'apartheid: in ogni paese del mondo ci sono persone che sono ricche e altre che sono povere. E i bambini vivono in un mondo dove ci sono ineguaglianze e ingiustizie, vivono innocentemente di fianco all'orrore. Ciò vale anche per il Sudafrica, che quindi ai miei occhi di bambino sembrava un vero paradiso, anche se era un paradiso ben stran9, dato che spesso era invaso da avvenimenti sconcertanti: ad esempio, la brutalità della polizia nei confronti dei neri. Oggi si considera in esilio? No, non mi sono mai considerato tale. Piuttosto mi considero stranger, che è diverso daforeigner. Gli anglofoni in Sudafrica vivono una strana condizione, o meglio una non-condizione, perché non partecipano della storia degli afrikaner, delle loro battaglie, della loro eredità che li radica in quella terra. Per me poi che sono ebreo questo sentimento era ancora più forte. Non ero ancorato a quella terra, ero di passaggio, i neri come i bia_nchi afrikaner erano un altro da me, un altro che però apparteneva a quel luogo, che quindi per me diventava un po' un altrove. Noi eravamo di passaggio, ma di questa condizione ce ne siamo accorti solo quando ci siamo allontanati. Fino a quando si è sulla zattera, si cerca.solo di aggrapparsi ad essa, senza rendersi conto di nulla. Solamente quando la si abbandona, si capisce la condizione in cui si era. · Eppure il tema dell'esilio è assai presente nel suo libro... Certo, ma sento questo tema più come ebreo che come sudafricano. Dalla storia degli ebrei emerge che il paese amato e sognato è sempre altrove. Gli ebrei dicono next year in Gerusalem, ed è sempre next year e sempre in Gerusalem, anche se Gerusalemme può ad un certo punto chiamarsi Johannesburg. Questo altrove è un punto d'arrivo e di partenza al contempo, perché rappresenta il futuro e il passato. Insomma, viviamo circondati di altrove. Continuamente diciamo: ora sono qua, non arriverò mai nel paese sognato, e se anche ci arrivassi, ci sarà già un altro paese nei miei sogni. Quali sono stati i suoi rapporti con la cultura nera, prima e dopo la sua partenza? Spesso i bianchi vivono in Africa,"ma facendo finta d essere altrove, negli Stati Uniti, in Europa. Fanno finta che l'Africa non esista. Da qui il titolo del mio librn: la casa non è in Africa, ma accanto ali' Africa; il problema allora è quello di ricollocarla in mezzo ali' Africa, prendendo coscienza della realtà che la circonda. Noi, anche se vivevamo in un quartiere bianco, eravamo circondati dai neri. In casa c'erano delle donne nere che si occupavano di me. Per me sono state persone molto importanti, passavo con loro molto tempo e credo che mi abbiano trasmesso diverse cose della loro cultura, anche se non conoscevo la loro
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