SAGGI/CAFFI millenni, il predominio,quasi costante dylla barbarie, e specie della barbarie coperta da una vernice di civilité, per usare Ìl termine dell'abate Girard. Le antinomie permangono. Sempre di nuovo, per preservare l'esistenza, si devono sacrificare le vivendi causas. li compromesso è riuscito più o meno bene attraverso i secoli, giacché un certo numero di avversari sinceri d'ogni violenza è riuscito a sopravvivere, sia abbandonandosi di-quando in quando alla violenza, sia cedendo ai suoi comandi. Ma oggi, a che punto siamo? Platone affidava la difesa della sua Repubblica a guerrieri espressamente allenati alla carneficina, come "cani da caccia". Ma - importa notarlo - si trattava unicamente di guerra difensiva, visto che ·ogni ingrandimento territoriale avrebbe segnato la rovina della Città ideale. Importa anche notare che là casta degli armati è ancora più rigorosamente lontana dalla saggezza - fine essenziale della Città platonica - che non il popolo degli artigiani, confinato anch'esso in funzioni subalterne, ma non senza che si sian scelti nella sua progenie gl'individui suscettibili di essere avviati, attraverso un'educazione appropriata, ai gradi superiori. Si può inoltre intravedere che, nello Stato ·concepito da Platone, la socievolezza e i costumi del popolo saranno umanizzati, mentre per i guerrieri è prescritta una disumaqità rigorosa. Il problema che Platone cerca di risolvere è come si possa concepire una società capace di attingere a un grado supremo di civiltà e, al tempo stesso, di difendersi contro un ambiente barbaro. Il filosofo immagina quindi: la sua Città: 1) come un'isola nell'oceano di un'umanità imperfetta, con la quale essa non avrà che dei contatti occasionali; 2) come un luogo dove si sarà una volta per tutte regolato il male inevitabile relegando una parte della popolazione nell'esercizio della violenza, mentre i lavoratori da una prute, i filosofi dall'altra, potranno godere i benefici di un'esistenza pacifica e di costumi gentili. Una tal situazione, e una tal divisione, non hanno nulla di utopico: rappresentano, in sostanza, quella che è stata la condizione di un buon numero di società civilizzate quando la lotta fra le classi non vi s'inaspriva fino a prendervi forme violente. E questo è appunto il pericolo che Platone pensa di aver eliminato dalla sua Repubblica. Durante il diciottesimo secolo, e buona parte del diciannovesimo, malgrado la coscrizione universale decretata dalla Rivoluzione francese, la violenza non si esercitava che in momenti eccezionali o in zone limitate: era in genere l'affare di professionisti, e si credeva da molti che le sue forze tendessero ad attenuarsi e ad umanizzarsi. È solo dopo il 1914 che si è entrati nell'èra della violenza totale, indiscriminata e senza tregua. Sappiamo bene quel che son diventati la civiltà, i costumi e la politesse sotto un tale regime. Che si creda o no in una qualsiasi religione, sia pure la "religione del progresso" o del più vago umanismo, il dilemma formulato da Dwight Macdonald in Politics s'impone a tutti: o ci liberiamo (noi è tutto il patrimonio della nostra cultura, con le idee di civiltà, giustizia, feJicità che danno un senso alla nostra vita) dell'apparato di coercizione violenta che sembra aver fatto tornare l'esistenza sociale a 34 quello stato di paura endemica che, secondo Hobbes, precede la formazione della società organizzata, oppure ne saremo stritolati. È possibile vincere la violenza con la violenza? La questione, in realtà, ne nasconde due molto diverse. La prima è d'ordine empirico: quale probaBilità c'è che un'organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell'equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva è l'altra: anche supponendo che si ri~sca a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato della società e della civiltà), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali de.tentori, e infine a impegnare la battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia "rivoluzionarie", in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l'impiego organizzato della violenza inesorahilmente genera? E allora. come in Francia dopo Termidoro, come nel 1918-· 19 un po· dappertutto in Europa, come sotto Stalin in Russia, non sarà forse legittimo chiedersi: "Questi fiumi di sangue, perché son stati sparsi? Queste miriadi di giovani vite, a quale idolo sanguinoso sono state immolate?" E quale risposta si può dare a tali domande se non si condivide il culto della forza e del sacrificio eroico? Chi era più devoto di Robespierre e di Saint-Just alla causa del popolo, al disegno di condurre l'umanità a governarsi da sé secondo la libertà, l'eguaglianza e la fratellanza? Nessuno certo ha perseguito con vigore più ostinato di Lenin e di Trotski la lotta per la unione dell'umanità in una federazione di collettività socialiste. E tuttavia furono Robespierre e Saint-Just a stroncare ogni slancio spontaneo del popolo di Parigi, demoralizzandolo col terrore e riducendo i clubs a sedute ufficiali frequentate da funzionari impauriti; e furono ancora essi a centralizzare e militarizzare la Francia (il che comportava il consolidarsi di una nuova casta dirigente di burocrati, di generali, di grandi fornitori dello Stato), sicché il paese fu maturo per il despotismo napoleonico e l'oligru·chia dei notables. ])'altro canto, furono proprio i due
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==