Linea d'ombra - anno IX - n. 59 - aprile 1991

- "utilitario", se si vuole- se ne aggiungono parecchi altri: gli uni confermati dai pensieri e sentimenti unanimemente nutriti sin da quando gli uomini cominciarono a riflettere sulla condizione umana, gli altri imposti dalla situazione senza precedenti in cui si trovano i due miliardi di abitanti del pianeta Terra alla metà del secolo ventesimo. .',, Il disgusto (o l'orrore) della violenza è forse altrettanto antico quanto la violenza medesima, mentre l'esaltazione di que'sta è sicuramente un prodotto abbastanza recente di stati d'animo che abbiamo seri motivi di considerare artificiali, o anche morbosi. lo credo che Simone Weil abbia ragione di scorgere in fondo ali' Iliade e ai tragici greci f' orrore per la violenza. Il buddismo non sarebbe riuscito a conquistare un così gran numero di proseliti se non ci fosse stata una corrispondenza intima fra i suoi precetti e un sentimento diffuso fra le masse popolari. Si hanno buone ragioni di supporre che durante l'età neolitica (durata forse più di cento secoli) una profonda pace regnasse fra quelle comunità sedentarie: dei selvaggi invasori armati·di bronzo, e poi di ferro, vennero in seguito a riempire il mondo di carneficine e di gloria guerriera, diffondendo quell'ebbrezza di cui i Re d'Assiria e i Khan mongoli segnano i più tipici parossismi. Nel corso dell'ultimo lungo secolo, dai coscritti dell'Anno II agli SS hitleriani, ai marescialli staliniani e ai generali del tipo Patton, l'umanità occidentale (senza parlare del Giappone, e della Cina "novatrice e guerriera") ha sperimentato in tutte le sue forme la febbre e il culto della violenza: esasperazione patriottica, romanticismo rivoluzionario, "fardello dell'uomo bianco", affermazione del superuomo al di là del bene e del male, riflessioni sore1jane sulla violenza, terrore giacobino, fascista, bolscevico, eccetera. Di fronte a questa marea, il pacifismo, che sembrava aver guadagnato non poco terreno nel XVIII secolo, ha non solo indietreggiato, ma s'è lasciato andare a una sorta di mimetismo pusillanime cercando una via d'uscita (provvidenziale o "dialettica") sul terreno stesso sul quale iJ suo avversario andava di trionfo in trionfo (o di catastrofe in catastrofe). Il pacifismo razionalista dei liberali faceva troppe concessioni alla patria, e anche alla ragion di Stato; quello di un Robert Owen, di un SaintSimon oppure di un Proudhon (il quale si opponeva soprattutto all'idea della "violenza rivoluzionaria"), l'evangelismo dei quaccheri e poi di Leone Tolstoi, erano ammirati o irrisi come sogni di spiriti ingenui. Le speranze "ragionevoli", condivise da grandi masse d'uomini, riguardavano una "lotta finale" dopo la quale l'umanità si sarebbe trovata riunita nell'Internazionale; oppure una "guerra finale" (quella del 1914!) o, ancora più meccanicamente, l'effetto terrificante dei congegni omicidi, così devastatori che non si sarebbe osato servirsene. Tutta l' azione di Jaurès per la pace èra minata alla base dal riconoscimento di una "sovranità nazionale" da difendere a ogni costo; l'antimilitarismo degli anarchici e dei sindacalisti francesi (spinto fino ali' idea di uno sciopero generale dei mobilitati) mancava di prestigio morale in quanto, mentre ripudiavano la guerra fra nazioni, quegli uomini preconizzavano. l'uso della violenza nella lotta di classe. SAGGI/CAFFI Guardiamo ora da vicino ai motivi dell'avversione dell'uomo civile per la violenza. Per semplificare il discorso, prendiamo come punto di partenza la seguente frase di Condorcet, che esprime la convinzione di un gran numero di suoi contemporanei: "Più la civiltà si diffonderà sulla terra, e più spariranno la guerra e le conquiste, in uno con la schiavitù e la miseria." La civilisation (parola nuova, nel XVIII secolo: non la si trova in nessun libro francese prima del 1765, e il dottor Johnson · rifiutava ancora di ammetterla nel suo dizionario) era concepita dallo scozzese Millar come "cette politesse des moeurs qui devient une suite naturelle de l'abondance et de la sécurité" (Remarques sur les commencements de 'la société, seconda edizione francese, Amsterdam, 1773). Nel 1780, l'abate Girard definiva lapolitesse asserendo che essa "ajoute à lasimple civilité ce que la dévotion ajoute à l 'exercice du culte public: les moyens d'une humanité plus affectueuse, plus occupée des autres, plus recherchée"; il che suppone "une culture plus suivie, des qualités naturelles, ou l'art difficile de les feindre". E fin dal 1736, nell'epistola dedicatoria di Zai"re, Voltaire aveva precisato che la politesse non è "une chose arbitraire camme ce qu 'on appelle civilité: c 'est une loi de la nature que... les Francais depuis le règne d'Anne d'Autriche ont heureusement plus cultivé que les autres peuples", divenendo, grazie a ciò, "le peuple le plus sociable de la terre". Al che conviene aggiungere il tratto caratteristico, e così spesso reiterato, che Duclos formula opponendo i selvaggi, presso i quali "laforcefait la noblesse et la distinction", ai paesi civili, dove "la distinction réelle et personnelle la plus reconnue vient de l'esprit". Si tratta dunque di "costumi", di "cultura" di "umanità", e non di princìpi metafisici o di precetti religiosi. Dall'ateniese che trattava umanamente il suo schiavo alla signora inglese che apostrofava il carrettiere che maltrattava il suo cavallo, lapolitesse, o refinement, consiste essenzialmente nel bandire ogni violenza. In nome di che? Del "rispetto di sé", impossibile senza il rispetto degli altri; di una socievolezza che, estendendosi dall'uno ali' altro-, finisce logicamente col comprendere tutti gli esseri viventi. Alla superficie, si tratta di buona educazione e di "costumi civili"; in profondo, c'è in primo luogo la coscienza della "società" come fatto e come valore, e dunque immancabilmente della "giustizia" nei rapporti sociali, una nozione che - lo si vorrà ammettere - è più fondamentale di qualsiasi dogma religioso o morale. Ma a ciò si aggiunge necessariamente il desiderio (poco importa se utilitario, come pensava Bentham, oppure ispirato dalla bontà divina) della felicità di tutti, senza la quale io stesso non potrei essere felice ("cette idée du bonheur, si neuve en Europe" dirà Saint-Just, e farà tagliar teste per affrettarne l'avvento). Insistiamo: la giustizia implica l'eguaglianza, la felicità esclude ogni oppressione. V'è dunque contrasto irriducibile fra l'aspirazione alla socievolezza e la volontà di potenza. Ogni violenza è, per definizione, antisociale. Ma la barbarie antisociale e iste in noi, nell'istinto di possesso, nel rancore, nella crudeltà nativa, nella paura, nel l'ignoranza; e attorno a noi, visto che la civiltà, la politesse, la coltivata socievolezza son rimaste finora.privilegio di una minoranza di persone in un numero limitato di luoghi. Donde, attraverso i 33

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