Nel carcere della dittatura si può vivere, si vive, si vive normalmente, si fa l'amore, si procreano figli, ci si lascia, si mangia e si va al cinema. E questa normalità diventa presto routine che si teme di perdere, e gli agenti della Stasi sono dei Miiller qualunque che vanno in vacanza con la famjglia, e i giudici bevono birra con gli avvocati dopo aver condannato a ventun mesi o a ventun anni di galera per un tango, "in fondo (...) si tratta di usare una parola piuttosto che un'altra" (p. 58). Dallow però non è un cittadino qualunque di questo carcere e non vive in un'epoca qualunque: è il 1968 e prima dell'arresto Dallow era professore di storia all'università, si occupava quindi professionalmente di comprendere il suo tempo e il suo mondo. Ma la grande storia, l'invasione militare del "paese fratello", resta sullo sfondo di piccole storie quotidiane, e Dallow stesso è stato condannato per "una storia stupida", per uno stupido tango. Hein segnala l'assoluta scomparsa di ragioni di vita, ideali, obiettivi e sentimenti grandi e nobili, per cui valga la pena mettere in gioco se stessi e la propria libertà: da quando ha scoperto che anche della sua scienza ( la storia) "restano solo gli aneddoti" (p. 77), Dallow preferiscedichiararedi essere solo un suonatore di tango. L'unica scelta in questo contesto può essere solo autodistruttiva, uscire momentaneamente dalla routine può essere mortale: infatti, spiega il cognato a Dallow, "dalle statistiche CONFRONTI puoi vedere che ognuno di questi tanghi, vecchi e tristi, ha sulla coscienza più suicidi di quanti non ne abbiano tutte le prostitute di questo paese" (p. 66). La conclusione, il messaggio del libro sono collocati già nelle pagine iniziali: sono frutto dell'analisi del proprio mondo da parte di Hein, un'analisi più che mai attuale, insieme psicologica e storica, ed esprimono bene il suo timore - che più volte Hein ha manifestato anche dopo il crollo del muro - che il suo paese non sappia affrontare criticamente il proprio passato ma voglia sbarazzarsene al più presto, pronto ali' oblio suadente che offre I' abbraccio del capitalismo occidentale: "Aveva deciso di rinviare ogni tentativo di riflessione a quando sarebbe uscito dal carcere. Tuttavia lo prendeva spesso la paura d'impazzire. E ora era libero e l'unica decisione che gli sembrava chiara e plausibile era quella di dimenticare più in fretta possibile i mesi trascorsi. Non voleva pensarci e soprattutto non voleva parlarne. Voi va rimuovere quel periodo per lib.erarsene una volta per sempre. Non aveva mai potuto considerare l'arresto come una punizione, ma solo come un'offesa e una perdita di tempo irreparabile. Ma era arrivato in fondo a quei due anni senza diventare pazzo e per il futuro non intendeva perdere nemmeno un minuto tormentandosi inutilmente a rimuginare sulla sua detenzione e sulle condizioni indegne in cui era stato costretto a vivere" (p. 17). Tempo,tempo, tem~o... · Lostrano romanzoili formazione di BothoSt,rauss Roberto Menin Mentre ai Kammerspiele di Monaco sta per andare in scena; con la regia di Dieter Dorn, l'ultima commedia brillante di Botho Strauss, in Italia Garzanti ci propone un testo narrativo del 1984, Il giovane, nella traduzione di Umberto Gandini. Si tratta del romanzo più impegnativo per l'autore (ahimè, anche per'il lettore). Mentre sulle scene, sullo spunto dei fatti della riunificazione, i personaggi di Strauss, sempre in bilico tra il nulla e la farsa, ci fanno sonoramente ridere, nel romanzo manca la fisicità della scena, la brillantezza dei dialoghi e soprattutto quell'ideologia teatrale del gioco e del mistero che in Strauss ha da tempo soppiantato ogni pensiero critico. Sì, sulla pagina bianca gli eroi faticano a prender.e corpo: non bastano le avventure, le metamorfosi continue, le iniziazioni erotiche a tenerci il fiato.sospeso. Eppure è un romanzo di grandi ambizioni. Come sempre, Strauss mette in gioco tutta la posta della contemporaneità, maestro nel registrare le idee caduche e nel contrapporvi nuovi orientamenti. Basti ricordare Coppie, passanti (trad. di G. Schiavoni, Guanda 1981), definito giustamente il breviario degli anni Ottanta. Strauss vi tirava il bilancio del pensiero critico della nuova sin istra e chiudeva senza mezzi termini con l'imperativo di abbandonare la dialettica e valorizzare tutte le nostre lacerazioni, nel loro lato oscuro. Eppure, un romanzo non è un libretto di consolazione né i suoi personaggi sono manovrabili come a teatro, dal capocomico. Insomma, ne Il giovane c'è da godersi soprattutto la parte speculativa, la riflessione proficua sull'oggi. E cominciamo. Anzitutto dal messaggio del romanzo: smettiamo di considerare la società come una Usi dell'anima, fatta apposta per curarci le depressioni private, come l'ultima spiaggia della nostra integrazione, il luogo dove l'individuo deve trovare il suo posto. Il giovane di Botho Strauss, è tutto incentrato sulla liquidazione del "sociale". Quali sono le ragioni dell'autore? La società ci impone il suo oggi, e chi vi si sottomette è schiavo del presente. I nostri protocolli critici - pensa Botho Strauss - ci hanno dato più di una prova che il "sociale" non abbraccia tutto l'uomo: non sa che farsene dei suoi ricordi, comprime la sua sessualità, prostituisce le sue facoltà di pensiero, trascura tutto ciò che non è socializzabile, ecc. E poi, come potremmo considerare un così impe1fetto organismo come la realtà ultima? Non ha consistenza, è in continua trasformazione. Se poi osserviamo i I presente e le sue cealizzazioni con l'occhio della scienza, beh, allora il presente diventa un semplice attimo insignificante, la società un'immagine che rimane sullo schermo quanto un'inquadratura cinematografica. Ma perché, si chiederà il lettore, la riflessione sulla scienza deve fare a pugni proprio con la dimensione collettiva? Che c'entra una cosa con l'altra? Il fatto è che, nel nostro ricco e plumbeo occidente, anche gli eroi della letteratura se la passano piuttosto male. Esistono, in qualche modo "sono", ovviamente. Ma il disorientamento la fa da padrone, il nonessere-inseriti è una constatazione inequivocabile. A questo punto Strauss cancella il regno millenario dell'aldiquà, il mondo come paradiso del!' eroe, e lascia il povero cristo con le sue lacerazioni, per curarlo. Dalle lacerazioni spuntano bisogni assoluti, che nessuna società riuscirà mai a sfamare. Se non fosse per la fatica che si fa, verrebbe voglia di seguirlo a piè sospinto, il suo programma. In quanto romanzo di formazione deve necessariamente ruotare attorno al soggetto, alla figura centrale. Ma se al povèro uomo togliamo il bagno societario, il riconoscersi o meno nell'immagine della modernità, in quali mondi andrà a sbattere? La risposta è facile, anche se tradisce l'artefatto: in mondi fantastici, in alter-ego fiabeschi, in comunità futuribili. E tutto questo per guarirlo dal suo bisogno di società. Ma perché Botho Strauss vede la convivenza societaria, e sia pur nel degrado attuale, come il fumo negli occhi? La situazione tedesca, sappiamo, è tutta imbrattata dal culto del sociale: lo stato "sociale", il programma sociale dei partiti, perfino la democrazia cristiana bavarese si chiama Partito Cristiano Sociale. "Perché hai votato Spd?" chiede un cittadino dell'ovest a un cittadino dell'est. Risposta: "Perché mi sembra abbastanza sociale". È nausea condivisibile, quella di Botho Strauss per lo sfruttamento pubblico dèl sociale, equivalente alla nostra retorica antifascista - oggi un po' in disarmo, è vero. Questo genere di sociale di massa, anche se fosse l'ultima spiaggia, non ha proprio nulla di allettante. Ma al di là del fastidio, dietro alle parole, non esiste pur sempre un residuo ineliminabile? Possiamo sbarazzarcene, espungerlo dalla letteratura "i I vecchio pandemonio collettivo fatto di sopraffazioni e desideri laceranti, amore e denaro'?" La Germania non è mai stata così divisa come tra i suoi intellettuali. E dire che, sia a est che a ovest, hanno sempre ricevuto l'identico trattamento. La canea giornalistica contro Christa Wolf- che ancora perdura- l'hanno già ricevuta al tempo i protagonisti della Schaubiihne, e tra loro Botho Strauss: negli anni Ottanta, la sinistra ex-rivoltosa e poi ben inserita nella società dello spettacolo attaccava in maniera virulenta, per bocca di Peter Ruehmkorf,. un'esperienza "apolitica" còme
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