Linea d'ombra - anno IX - n. 59 - aprile 1991

vincimenti intorno al senso del divenire, del cambiamento. Tutte cose, queste, che hanno due nomi, quasi completamente rimossi dai dibattiti cui si accennava prima: e cioè, rispettivamente, "estetica" e "filosofia della storia". Senza una qualche preliminare chiarezza rispetto all'estetica, e senza una qualsivoglia filosofia della storia, è del tutto impossibile anche solo pensare di poter fare la storia di un'arte. Tutto ovvio, ripeto. Eppure prendete ad esempio un libro (per molti versi meritorio) come Raccontare la letteratura di Remo Ceserani, uscito circa un anno fa per Bollati Boringhieri: vi trovate veramente di tutto, una rassegna documentatissima di opinioni e di studi, parecchie proposte metodologiche anche molto importanti (e, fra l'altro, un divertito omaggio alla bravura proprio di Giampaolo · Dossena); ma i due problemi di cui sopra non vengono quasi nemmeno sfiorati. Ovvero: della questione dei valori si parlerà sì, ma in sostanza solo per mostrare che la prospettiva valutativa finisce inevitapilmente per rendere impossibile la storia della letteratura (chi conosce un po' Croce queste cose le ha già sentite qualche volta ...). Silenzio invece, totale silenzio, in merito alla filosofia della storia. Brutta bestia, la filosofia della storia, senza dubbio. Non riesco a immaginare una disciplina oggi più impopolare, e soprattutto meno praticata. Anzi, per I' esattezza, è una "disciplina" in realtà frequentatissima, fatta oggetto di cure fin troppo scrupolose, ma nel senso peggiore del termine, a livello semidemenziale e dogmatico: che in pratica consiste nel dire alla gente che c'è La Storia, che è unica, che ha dimostrato come qualmente, .., che ad esse ci si deve adeguare essendo ormai assodato che ..., dal momento che La Storia coincide con La Verità ..., ecc. ecc. Ognuno riempia le lacune del discorso con i contenuti che già conosce. Puntualmente, infatti, gli storici letterari preferiscono evitare di esprimere un punto di vista in merito, nascondendosi dietro cortine fumogene di tipo "metodologico': nebbioni che hanno come obiettivo quello di stabilire quali rapporti intercorrono fra storia-storia (economica, politica, sociale, diplomatica, ecc.) e "serie" letteraria. E procedono, gli storici letterati, di solito secondo uno schema fisso, che consiste preliminarmente nel negare che fra i due poli esista un rapporto - Dio non voglia! - meccanico, deterministico, che le arti siano una sovrastruttura della società. Compiuta la rituale negazione d'avvio, si procede quindi ad accertare in che cosa consiste il rapporto corretto fra i due poli, il letterario e lo storico. Risposta puntuale alla domanda, enunciata quasi alla lettera ad esempio da· un Ceserani: "Non si sa ancora quale sia il rapporto corretto". E amen. Dossena, per fortuna, no. Lui è uno che si espone, sornione e sempre equilibrato, ma sferzante come pochi quando deve esserlo (guardate ad esempio come usa le virgolette: sono per lui, nel suo britannico understatement, delle autentiche rasoiate, e quindi nel momento in cui leggete"umanisti esclusivi" appunto virgolettato, ci sentite sotto qualcosa di simile a un brivido di ribrezzo). Dossena esprime giudizi che possono qualche volta lasciare perplessi, che appaiono anche umorali e provocatori, ma che hanno dalla loro CONFRONTI Giompàolo Dossena fotografato do Marino Giordi (Effige). parte una ragione, una legittimazione quasi inoppugnabile. Ed è lo stesso autore ad avercela illustrata: "C'è gente che liberamente, profanamente, dilettantescamente legge libri di letteratura italiana perché ha voglia di leggerli, come si può aver voglia di ascoltare musica (o di suonare), come si può aver voglia di guardare (o di comprare) un quadro. Per diletto, per edonismo". La provocazione è veramente massima: qualcuno la letteratura italiana la legge veramente, la consuma e ci si diverte; esiste da qualche parte in Italia un lettore non specialista, che ·chiede soprattutto in essere informato, intrattenuto sul suo spasso preferito. Così come esiste un pubblico virtuale, di fatto estraneo fin qui all'edonistico festino, il quale aspetta di sapere se è il caso o no di accettare l'invito che viene dalla repubblica delle lettere, se è il caso o no di cominciare a leggere certe cose. In effetti, quasi tutta la storia di Dossena può essere interpretata come un'enorme, labirintica, organizzatissima rassegna delle opere della nostra letteratura che meritano o non meritano di essere lette. Valori, appunto, e piaceri, che Dossena:sceneggia con abilità talvolta esi !arante, riuscendo aingolosirè il lettore. Ad esempio: "Il Poliziano scrive in italiano, in latino e in greco, con odore di lucerna. Giorgio Sommariva in latino, in italiano e in dialetto, con odor di letame. 'Letame' ha la radice di letizia. Credo si senta, che a me si allarga il cuore". Non per caso, direi, il tono dei volumi diviene un po' più risentito, e forse anche un po' più stanco, a mano a mano che l'opera avanza. Dal Duecento di Salimbene, di Cavalcante, di Dànte e di Marco Polo al Quattrocento degli umanisti "esclusivi" c'è secondo Dossena un percor·so di decadenza, e le letture sono sempre ·meno letificate e letificanti. Tanto più che, come dice lui, fondamentale è il "senso delle proporzioni": la letteratura italiana non è un dogma, ci si può consolare con altro, poiché certe gerarchie vanno comunque tenute presenti, e quasi nessun autore (tranne i pochi massimi) può essere messo "prima del o al posto del dramma elisabettiano e del romanzo russo dell'Ottocento". Così che, per il Quattrocento, l'invito più volte ripetuto è di occuparsi delle coeve arti figurati ve e dell' architettura. Non sempre è così importante star lì a perdere tempo con la letteratura; ci sono altri piaceri, altri valori più impottanti. Valori, ripeto. Quella di Dossena è un'estetica elementare, con fondamenti teorici forse un po' datati (mi paiono chiare le simpatie dell'autore per Croce), ma l'efficacia del l'operazione è massima proprio perché ogni scelta è giustificata in funzione d'un lettore, delle sue reazioni virtuali. E in Dossena c'è apche una filosofia della storia. Capisco bene che lui, nemico delle filosofie, sorriderebbe di un'affermazione del genere. Eppure l'acribia con cui la storia è dissezionata per farla arrivare puntuale agli appuntamenti della geografia, comporta un modo ben alternativo di vedere gli eventi "oggettivi". I luoghi sono più importanti delle azioni: questo è il principio affermato perentoriamente da Dossena. Al centro della Storia confidenziale, c'è un atteggiamento nomadistico, quasi umorale (i I uoghi non sono scelti secondo una regola: basta che ·siano convenzionalmente "italiani"); ma poi, stabilito un ancoraggio geografico, il rigore è veramente massimo. Esperto di giochi per professione (così almeno si fa descrivere dai risvolti di copertina), Dossena non trascura alcun dettaglio nel costruire i suoi complicatissimi cruciverba storico-geografici, attraverso i quali a ciascun luogo vengono legati autori e opere, fino a definire un fascio di avvenimenti apparentemente casuali, ma in realtà accomunati da una logica profonda, e non solo di natura geografica. Una logica che viene per lo più suggerita con molta discrezione, sottovoce, in modo per l'appunto confidenziale; anche se è fin troppo chiaro che a certe idee Dossena ci tiene - ad esempio quando insiste ad argomentare che se Dante non avesse vagato per circa vent'anni nella Padania, molte cose nella. nostra letteratura sarebbero andate in modo assai diverso. Certo, ci sono in Dossena alcuni atteggiamenti fin troppo scaltri, qualche strizzata d'occhio furbetta (trattasi dopo tutto di opera che non nasconde la sua peraltro legittima voglia di piacere, e di vendere).E ad esempio si ha talvolta la sgradevole impressione che l'autore scriva -sapendolo e volendolo-principalmente per un lettore all'incirca suo coetaneo, che ha fatto buoni studi classici, e che, pur non leggendo da decenni letteratura (né italiana, né di altra specie), si diverte a farsela raccontare, proprio per evitare di doversi impegnare in un confronto diretto. In effetti, guardandomi in giro, temo proprio che quel lettore appassionato postulato da Dossena sia più un suo mito personale che non una realtà. Al suo posto ci vedo -ahimèben altri figuri, ben altre passioni. Tutto vero, probabilmente (come è vero che la sbandierata possibile destinazione scolastica di quest'opera è una ingenuità che può venire solo da chi non conosce la scuola). Ma non è meno vero che, oggi più che mai, poter cordialmente sorridere e magari proprio ridere mentre si legge una storia letteraria - senza peraltro vergognarsi del proprio riso, e anzi sentendosi soddisfatti sul piano conoscitivo - è un'esperienza ben poco comune, che merita di essere vissuta.

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