Linea d'ombra - anno IX - n. 59 - aprile 1991

del massacro - puntualmente avvenuto-, dall'altra un rischio collettivo. Da una parte c'è l'implacabile e immodificabile linguaggio delle armi, dall'altra la drammatica incertezza di una situazione in cui comunque l'Onu, gli Usa, l'Urss e l'Europa potevano in vario modo intervenire. Sono sicuro che questi ragionamenti appariranno ingenui e infantili, secondo un cliché che non solo ha snaturato lo spessore del pacifismo, ma ha anche costituito un motivo di fascino dell'interventismo, rappresentato come scelta ragionevole e adulta, realista e matura; non roba da ragazzi (o donne) candidi e sentimentali ...Ma a me sembra che se c'è un dubbio, la guerra non va fatta, esattamente come, se c'è un dubbio, non si deve condannare (a morte, poi!) un imputato. L'elementare disconoscimento di questa fondamentale differenza ha rappresentato il limite di tanti discorsi di apparente buonsenso neutralista che si sono ascoltati in questi mesi. Come i tanti amici che ci hanno pazientemente ricordato che in Medio Oriente torti e ragion non sono così nitidamente distribuiti da una parte e dall'altra. Ribadisco l'ingenua obiezione: ma allora, se torti e ragioni sono così incèrti, non si dichiara una guerra. Quell'incertezza e quella complessità non rendono "astratta" l'alternativa fra pace e guerra (che comunque, per chi è attento alla vita delle persone oltre che alle politiche degli stati, ha sempre una sua evidente e concreta materialità: semmai la rende più difficile. Ma è grave che provochi una più o meno aperta simpatia per la "facilità" della guerra ... Una guerra che, per tornare alle argomentazioni di Bobbio, è stata illimitata, senza proporzione con la violazione da colpire. E né talmente rapida da adempiere alla principale delle condizioni in base alla quale poteva "giustamente" essere dichiarata; né Una lettera di Norberto Bobbio 22 febbraio 1991 Caro Fofi permettimi di fare brevi osservazioni su due articoli che mi riguardano, pubblicati sul numero di febbraio di "Linea d'ombra". Nell'articolo Il dibattito sulla "guerra giusta". Troppa filosofia per una sporca guerra, Rusconi scrive che in un mio articolo su "La Stampa" "c'è un'affermazione sconcertante nella sua ovvietà." Questa affermazione sconcertante nella ·sua ovvietà consisterebbe nell'aver scritto "che la guerra giusta in quanto efficace deve essere vincente". Ora, questa mia affermazione è tanto poco ovvia che a quanto pare Rusconi non l'ha capita. Intanto, dire "la guerra giusta in quanto efficace" è un fraintendimento della mia tesi, secondo cui il criterio della giustizia e quello dell'efficacia sono diversi e debbono essere tenuti distinti, sì che una guerra'può essere giusta, nel senso di lecita, senza essere efficace e viceversa. In secondo luogo, che la guerra debba essere vincente è un requisito dell'efficacia, non della giustizia. Una guerra giusta rimane giusta, per chi l'ha creduta tale, anche se è perdente. Una guerra, invece, deve essere vincente per essere efficace, cioè per raggiungere il proprio scopo. Se gli Stati Uniti e i loro alleati non\ riuscissero a far ritirare Saéldam Hussein dal Kuwait, anche chi ha ritenuta lecita questa guerra dovrebbe convenire che non è stata efficace. Mentre Rusconi mi rimprovera di essere stato troppo ovvio, Nanni Salio nell'articolo Ancora sulla "guerra IL CONTESTO abbastanza lunga da confermare l'autenticità dello straordinario pericolo in nome del quale era stata proclamata. Qui mi sembra stia la sconfitta di ogni interventismo soft, neutralismo, non pacifismo. Ma parlando di sconfitte e sconfitti, non si può non accennare ai pacifisti. È un discorso che meriterebbe uno spazio maggiore. Ma intanto colpisce la suscettibilità dello stàto maggiore del pacifismo organizzato, maldisposto verso critiche e autocritiche. Eppure, che il movimento pacifista abbia accusato limiti ed errori dovrebbe essere evidente a tutti.Non è stato soloper le difficilissime condizioni oggettive (la guerra, una guerra facile e vittoriosa) che l'incidenza e la capacità di mobilitazione del pacifismo è diminuita nel corso del coqflitto fino a sparire quasi del tutto. E non è perché il pacifismo aveva torto che lo si critica, ma per non essere stato capace di sostenere le proprie ragioni. Sono considerazioni francamente elementari. Se invece una parte del pacifismo reagisce con una sorta di ottusa irritazione, è possibile avanzare due ipotesi. La prima è che a velare la comprensione della realtà ci sia anche un calcolo di bottega: in fondo il movimento per la pace ha imposto la sua presenza, anche forte, in certi momenti. Le sue espressioni ufficiali hanno 'allargato il proprio peso; qualche giornale pacifista ha prodigiosamente aumentato la tiratura ... A qualcuno, accecato da questi "successi", sfugge che un movimento per la pace dovrebbe non dico impedire la guerra, ma almeno impedire che si militarizzi la pace e dovrebbe spostare consensi a proprio favore (e non il contrario, come è accaduto in Italia dal gennaio al marzo scorso). E dunque la seconda ipotesi è una certezza: che i limiti culturali e politici del pacifismo siano più profondi di quanto si pensasse, questo è un problema che d'ora in poi ci riguarda tutti. giusta", mi rimprovera di non aver capito una cosa così ovvia come quella secondo cui l'etica della responsabilità, che io spesso ho invocato, "si fonda sulla prevedibilità dell'esito delle nostre azioni". L'ho così bene capita che più. volte, parlando delle condizioni di efficacia della guerra, che avevo indicato nella limitatezza della durata e dello spazio del teatro di'guerra, mi sono domandato: "Ma erano prevedibili? E se non erano prevedibili, perché non sono state previste? E se non sono state previste perché non erano prevedibili, come mai la guerra è stata ugualmente cominciata?" Non sono più d'accordo con Salio quando di fronte al fatto che la guerra contro l'Iraq sembra iniziata senza una chiara previsione delle possibili conseguenze, dubita addirittura della validità dell'etica della responsabilità. Pare non rendersi conto che senza la possibilità di prevedere le conseguenze dei nostri atti, non sarebbe possibile nessuna etica. Una persona può essere giudicata eticamente o giuridicamente soltanto se è in grado di prevedere le conseguenze dei propri atti. Altrimenti è considerato un irresponsabile, e non punibile o punibile in · diversa misura. Così come, non è colpevole chi, pur avendo la capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, si è trovato di fronte nella situazione concreta a un "caso fortuito", cioè a un evento non prevedibile. Non riesco bene a capire in che cosa si distingua l'etica della responsabilità dall'etica dell'errore che Salio lecontrappone, come se la virtù principale dell'uomo che agisce responsabilmente non fosse quella di correggere la traiettoria della propria azione in base al modificarsi della situazione, e al non realizzarsi delle previsioni fatte in precedenza. Quella virtù suprema del grande capo politico che Weber chiamava "lungimiranza". Cordialmente Norberto Bobbio ft

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