Linea d'ombra - anno IX - n. 59 - aprile 1991

IL CONTESTO La guerra persa LeHera a· un amico 11 interventista" Marino Sinibaldi Forse era ingenuo attendersi che la fine della guerra del Golfo avrebbe consentito di affrontare con coraggio e chiarezza maggiori i problemi e le divisioni che quel conflitto aveva evidenziato. Ma se questo non sta accadendo - né tra i più sensibili e i meno fanatici dei favorevoli alla guerra (i cosiddetti "interventisti democratici") né, purtroppo, tra i pacifisti - è anche la conferma di una vec_chiaverità: tra le tragedie delle guerre c'è quella, per nulla minore, di ridurre la libertà intellettuale, di avvelenare il dibattito politico e culturale, di abbassare comunque il livello complessivo di civiltà di un paese. Tutto questo sta puntualmente succedendo in Italia. E viene persino da pensare che la grottesca situazione istituzionale, con la massima carica dello stato in preda a impulsi-come dire?-scomposti, non sia un caso che riguardi qualche isolata patologia, ma piuttosto la punta dell'iceberg di una generale, atonica convulsione e disgregazione. Come una deriva precariamente tenuta sotto controllo da meccanismi ormai automatici di compensazione e rimozione. Il clima che si è creato intorno alla guerra del Golfo - e che, in buona misura, gli sopravvive - ha mostrato tutti i tratti di questa situazione deteriorata, e anzi li ha aggravati. Non solo perché, come si è già detto, ha gradualmente, progressivamente, irresistibilmente prodotto consenso intorno a metodi e valori (la semplificazione dei problemi, la predilezione per le soluzioni drastiche e veloci, l'indifferenza per i costi umani che queste "strategie" comportano) che in guerra hanno ovviamente il sopravvento ma che possono costìtuire unmodello apparentemente efficiente anche per la pacifica convivenza civile. Ma inoltre perché ha rivelato proprio la debolezza, l'inaffidabilità, la superficialità cui si è ridotto oggi in Italia il cosiddetto dibattito politico e culturale, anche suquestioni, per una volta, di drammatica rilevanza. Da questo punto di vista, la guerra e il dopoguerra, gli scontri e le divisioni, le discussioni e i bilanci, sembrano portare il segno della sconfitta per chiunque ha affrontato le settimane del conflitto cercando di salvaguardare una capacità autonoma di giudizio e un minimo di razionalità, con la convinzione delle proprie ragioni ma con attenzione per quelle degli altri. Tutti sconfitti. Ma, da questo punto di vista, non tutti sconfitti nella stessa misura. Ame sembra rovinoso il fallimento dei cosiddetti interventisti democratici e delle ipotesi e previsioni in base alle quali molti hanno scelto di schierarsi più o meno apertamente a favore della partecipazione italiana alla guerra. Praticamente nessuna delle condizioni che dovevano permettere un'adesione al conflitto in chiave non puramente guerrafondaia si è realizzata. La proporzionalità dell'azione di guerra rispetto alla violazione da punjre - questo prerequisito fondamentale di una possibile giustezza della guerra del Golfo - è stata apertamente e definitivamente infranta con gli ultimi, inutilmente feroci bombardamenti di un paese sconfitto è il massacro di intere colonne di soldati in fuga.L'improrogabile necessità della guerra, legata all'eccezionalità della minaccia irachena, è stata smentita proprio dal gigantesco pluff che ha dissolto il "quarto esercito del mondo": la volatilizzazione finale ha mostrato quanto fosse R grossolana la falsificazione iniziale. Ma anche di fronte a queste rivelazioni finali, il silenzio degli interventisti democratici è continuato compatto, ed è stato il segno della loro sconfitta, perché ha mostrato l'impossibilità di essere a favore della guerra mantenendo un'obiettività, una misura e un equilibrio almeno personali. Tanto che alla fine è apparso davvero difficile distinguere questi interventisti dagli altri - i volgari, ingombranti, insultanti guerrieri delle poltrone televisive. In una situazione di parziale distinzione è rimasta forse solo la posizione di Norberto Bobbio. Tanto profonde e motivate sono state le riserve e le cautele con cui il filosofo torinese si è schierato, che nel suo caso in parte sfuma l'opposizione tra le categorie degli interventisti e dei pacifisti. Eppure, a riconsiderare il percorso di Bobbio (i suoi interventi sul tema sono ora raccolti nel libretto Una guerra giusta? edito da Marsilio) saltano agli occhi alcune aporie decisive. Per Bobbio, come è noto, la guerra è giusta solo se efficace e rapida, e comunque "la riparazione di un torto non deve dar luogo a un massacro". La sua personale lucidità ha permesso di rilevare in fretta come la guerra del Golfo si sviluppasse in -una direzione che non rispondeva a nessuna di queste due condizioni decisive. A trattenerlo dal condannare l'intervento è stata la considerazione con cui Bobbio chiude la prefazione al libro citato: "Possiamo concludere che l'intervento è stato un tragico errore? Esito a dare una risposta affermativa a questa domanda unicamente perché non sono sicuro che non sarebbe stato un errore altrettanto tragico il non intervento". Ora, a parte il fatto che questa esitazione si fonda su una valutazione errata del peso e della minaccia di Saddam Hussein (queste righe erano state scritte quando ancora non si era palesata la sua relativa inconsistenza militare, e a partire da questa incertezza Bobbio poteva, sbagliando, accusare i pacifisti di sottovalutare il dittatore iracheno), a me sembra che la risposta di Bobbio riveli un difetto di fondo. Guerra e pace - o, diciamo, guerra aperta ed embargo, il conflitto militare e una strategia internazionale di dissuasione -non sono alternative equivalenti. Da una parte c'era la certezza Disegno di Mojo (do "Magazine littéroire").

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