C'è una nuova fonte di energia che non ci costa • niente. Il buon senso. Se nel mondo ci fosse un po' più di buon senso probabilmente vivremmo tutti più tranquilli, senza crisi né conflitti. Ma la realtà è quella che è, quindi affrontiamola con serenità. Il nostro Paese, per utilizzare l'energia che gli serve, dipende per 1'81% in là. Scopriremo che nelle nostre mani c'è la si conosca. Sta in un consumo intelligente che rinunce. Anzi, migliora il bilancio familiare e contenere l'inquinamento. Serve solo un po' essere utile, come spegnere la luce quando si namente i termostati dello scaldabagno e del anche 200.000 lire all'anno. E l'Italia milioni risorse in centrali più efficienti e pulite, e UNCONSUMO INTELLIGENTE dall'estero. Cerchiamo di guardare un po' più fonte di energia più economica e pulita che evita gli sprechi, che non costa soldi né risparmia anche l'ambiente perché aiuta a di buona volontà. Anche un piccolo gesto può esce da una stanza o come regolare opportufrigorifero: ognuno di noi può risparmiare di kilowatt-ora. L'ENEL sta investendo molte nella ricerca di fonti rinnovabili. E da sempre UNANUOVA FONl E DIENERGIA offre informazioni e consulenze sul "consumo intelligente" dell'energia, attraverso gli oltre 600 uffici aperti al pubblico in tutto il territorio nazionale. Intanto ognuno di noi può fare molto. anche solo cominciando a parlarne. A casa, a scuola, in ufficio, in fabbrica, nelle riunioni di · · nessuna fatica.
~ ilMulino MARIOTOSCANO LAccPORTDAI SION» L'Italiae l'immigrazione clandestinain Palestina tra1945e 1948:l'atteggiamento delleautoritàpolitiche, il dibattito giornalisticosullanascitad'lsraale, i documentitalianisul sionismo EDMUNDS. PHELPS SETTESCUOLE DI PENSIERO L'interpretazionpeersonale e critica,elaboratada un eccellente conomista, capacedi introdurrealla teoriamacroeconomica anchei menoesperti FILOSOFIAITALIANA E FILOSOFIE STRANIERE NELDOPOGUERRA a curadi PIETROROSSI CARLOAUGUSTOVIANO Dallafenomenologia ali'esistenzialismo, dal pragmatismo al neo-illuminismo: le radicid· ell'attualedibattito filosoficoin Italia MOZART a.curadi SERGIODURANTE Unaguidapuntuale allacomprensione dell'operamozartiana FRANCOGARELLI RELIGIONEE CHIESA IN ITALIA Lapresenzae la persistenza dellaforzacattolica nellasocietà,tra ambivalenze e contraddizioni DOLFSTERNBERGER IMMAGINI ENIGMATICHE DELL'UOMO Il testamentointellettuale di unadellevoci piùsignificative dellaGermaniacontemporanea 000 MARQUARD APOLOGIADELCASO Il pensieroasistematicos,cettico, ironico,di unfilosofo cheosservaconsguardo disincantatola naturaimperfetta dell'uomoe la precarietà dell'esistere CARLOM. SANTORO LAPOLITICAESTERA DI UNAMEDIA POTENZA Il ruoloe le responsabilità dell'Italianel nuovo scenariointernazionale, dopo la crisi del bipolarismo BRUNOS. FREY WERNERW. POMMEREHNE MUSEE MERCATI Convieneinvestire in opered'arte? Perchele quotazioni vannoallestelle? Qualipolitichepossibili a favoredellearti in unasocietàdemocratica? Un'indaginenuova, .unasorpresaperproduttori e fruitorid'arte GIORGIOREBUFFA NELCREPUSCOLO DELLADEMOCRAZIA MaxWebertrasociologia del dirittoe sociologia dellostato SERGEMOSCOVICI LAFABBRICA DEGLIDEI Saggiosullepassioni individualei collettive
edizionie/o· N0VITA' INVERNO1991 Christa Wolf Che cosa resta Che cosa resta è uno dei librt più importanti (e più belli) di Christa Wolf. Concepito negli stessi anni in cui l'autrtce scriveva Cassandrà, rifiutato dalla censura tedesco-ortentale, rielaborato dieci anni dopo per essere infine pubblicato nel .1990, questo lungo racconto affronta gli stessi temi di Cassandra. togliendo però alla narrazione il velo del mito. Una donna che non rtconosce più la proprtà città, il proprto mondo. In Cassandra la città era Troia, qui è Berlino, il· socialismo. tutto ciò che Christa Wolfha amato e in cui' ha creduto. pp. 112, L. 18.000 Nelson Algren Mal venga il mattino Amato da Simone de Beauvoir, ammirato da Hemingway, . rovinato da Hollywood, dal maccartismo e dalla sua stessa passione per il gioco, Algren è stato uno dei grandi scrtttori amertcani del '900. "Poeta dei bassifondi", iri questo romanzo racconta l'amore tra due "perdenti", un pugile e una prostituta, in una Chicago metallica e spietata. Introduzione di Kurt Vonnegut; pp. 280, L. 26.000 , Bobbie Ann Mason Laggiù Un'adolescente indaga nel mondo degli adul:U per scoprtre cosa è stata la guerra del Vietnam, che le ha ucciso il padre e "fertto" le persone più care. Un romanzo di grande sensibilità sul mondo dei ragazzi e su quello dei veterani. , pp. 240, L. 26.000 Edna O'Bnen Ragazze nella feliciti conlu,ale Vincitrtce dell'edizione '91 del Premio Grin7.ane Cavour, Edna O'Brien fa - come ha scritto Philip Roth - per il mondo femminile irlandese ciò che Joyce ha fatto per gli uomini del suo cattolicissimo paese: una descrizione irrtverente e impietosa. pp. 168, L. 22.000 Helgà Schubert Donne giuda Per quattro anni, dal 1985 al 1989, Helga Schubert-· psicanalista e scrtttrtce della ~ennania ortentale - ha anaHnato centinaia di casi di delazione femminile verificatesi nella Germania nazista, ne.ha scelti dieci, i più rappresentativi della "banalità del male" e ne ha ricavato dei racconti. pp. 152, L. 25.000 ri' TASCABILI e,o Grazia Cherchi Basta poco per sentirsi soli Micidiali racconti sul generale Narcisismo Infelice che affiigge la cosiddetta società culturale - ha scritto Alfonso Berardinelli nell'introduzione. pp. 128, L. 10.000 Anton Cecfwv Racconti umoristici Quasi un prontuarto di tecniche e situazioni comiche. pp. 128, L. 10.000 Mark 1ìoo.in Racconti comici I migliort racconti comici dèllo scrittore amertcano presentati da Domenico Starnone. pp. Ì44 ..L. 10.000 Istvan Orkény Novelle da un minuto Brevi, esilaranti, crudeli racconti dell'aut_ore ungherese. pp. 160: L. 12.000 Ai lettoti di MLinea d'ombra· offriamo in omaggio il volumetto tascabile Dall'eet per ogni acquisto di almeno 70.000 lire. Edizioni E/O - Via Camozzi 1 00195 Roma -Tel. 06-3722829
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Benjamin La guerra e i pacifisti La guerra continuata con altri media Gli Albanesi sono "affini" Nel regno di Marte Incontro con Maria Nadotti Francis Bacon: l'oltraggio alla realtà I bianchi siamo noi. Su "Balla coi lupi" La letteratura italiana secondo Dossena eG. Fofisull'ultimo romanzo di Paolo Volponi (ap. 25),R. Carbone suCasaLandaudi Samonà (a p. 26), G. Fofi sull'esordio di A. Baricco (a p. 27), C. Allegra sul Suonatore di tango di Hein (a p. 28) eR. Menin su/l giovane di Botho Strauss (a p. 29). Gli autori di questo numero (a p. 79) ::::r&ilì.lI::::]:::i::::::::i::::::]IlJ[:::::::1:ii:tI::JilI:II!I::JtlII:ti 50 64 66 72 32 40 44 59 48 52 55 Patrizia Cavalli Taufiq Rafat RajaRaho AhmedAli Andrea Caffi Giancarlo Gaeta Alberto Gallas Alessandro Monti Stephenlçiy Gould J ulian Barnes Denis Hirson Poesie . Sacrificio Racconti dal Pakistan On the Ganga ghat Il nostro vicolo a cura di Alessandro Monti Sulla violenza Critica della ,violenza con una nota di Andrea Damascelli Morale e politica nella Weil Il giudizio di Bonhoeffer sulla guerra Pakistan: l'identità mancata Da clù discende l'uomo? Fine del mondo e fine della storia a cura di Paola Splendore Gerusalemme può chiamarsi Johannesburg a cura di Fabio Gambaro Editoriali: Marino Sinibaldi, L'idea di questa rivista (a p.2); Goffredo Fofi, Da chi imparare (a p.21). Maestri e bambini: Peter Bichsel, Una scuola senza stimoli (ap.4); Marco Rossi-Doria, Parlarmi addosso (a p.7); Giuseppe Pontremoli, "Non c'è gran che da aspettarsi da un maestro di scuola" ~p~. . ' Assistenti sociali: Gianfranco Bettin eMeme Pandin, L'assistente sociale di Twin Peaks (a p.15). Medici: Giorgio Bert, Sul linguaggio dei medici (a p.18). Punti diriferimento:Jean-Marie Domenach e Gilles Martinet, Ivan lllich in discussione (a p.24), seguito da. una breve antologia di Ivan /llich (a p.29). La copertina di questo numero è di Franco Matticchio (distr. Storiestrisce). Le foto che illustrano il supplemento sono di Roberto Koch (Contrasto).
IL CONTESTO Gorbacev alla prova La Lituania e il dilemma sovietico Maria Ferretti I drammatici avvenimenti della Lituania, quando, nella notte fra il 12e il 13 gennaio, i ca.JTiarmati sovietici hanno bagnato di sangue le strade di Vii' njus ribelle, rispondendo ali' appello di un fantomatico Comitato di Salvezza Nazionale, longa manus del partito comunista lituano fedele a Mosca, hanno rivelato a un'opinione pubblica mondiale distratta tutta l'ampiezza della svolta a destra attuata dalla leadership sovietica, dando una sinistra concretezza alle profetiche parole di Shevardnadze davanti al congresso, a dicembre, sull'avvicinarsi della dittatura. Dilaniata dai conflitti interetnici, che si traducono sempre più spesso in sanguinosi scontri armati, lacerata da una crisi economica e sociale senza precedenti, in cui le interminabili code davanti a negozi paurosamente vuoti non sono che il segno più appariscente, nel sesto anno della perestrojka l'Unione Sovietica sembra scivolare inesorabilmente, passo dopo passo, verso I 'in taurazionedello stato d'emergenza, destinato a mettere bruscamente fine alla democratizzazione del paese. Il sottile filo di speranza nella possibilità di gestire pacificamente, con le riforme, la transizione da un sistema di tipo totalitario alla democrazia, teso fino allo spasimo, sembra ora spezzarsi. La destra raccoglie oggi i frutti della riscossa iniziata sul finire dell'estate, quando, superato lo shock della vittoria elettorale riportata, nella primavera scorsa, dai democratici, che avevano conquistato le più importanti città del paese (Mosca, Leningrado e importanti centri industriali come Sverdlovsk) e una buona fetta dello stesso parlamento russo, aveva cominciato a serrare le fila e ad alzare la voce per ricordare a Gorbacev quali fossero i rapporti di forza reali esistenti nel paese. Scontento dell'andamento delle trattative sul disarmo e della precipitosa ritirata dai paesi dell'ex patto di Varsavia, ha rialzato il tono l'esercito, il cui prestigio è stato, in questi anni, duramente messo alla prova e che si trova confrontato a un'ostilità diffusa nelle repubbliche, che, appoggiando il rifiuto dei giovani di rispondere all'appello di leva e affermando di voler costruire degli eserciti nazionali, ne minacciano, nei fatti, lastessa integrità. Sotto questo punto di vista, le voci insistenti di un colpo di stato militare, che si sono moltiplicate dall'inizio di settembre e che sono state accompagnate da inattesi movimenti di truppe, sono state un sintomo della volontà dell'esercito di non lasciarsi sfuggire ulteriormente di mano il controllo della situazione. A settembre, inoltre, i potentati economici dei ministeri centrali e il potente complesso militare-industriale, che costituisce l'ossatura del sistema economico sovietico, hanno detto decisamente "no", per bocca dell'allora primo ministro Rizhkov, 1 alla riforma radicale dell'economia proposta dall'accademico Shatalin e caldamente appoggiata dal Presidente; le forme di statalizzazione e ptivatizzazione dell'economia che prevedeva il piano Shatalin, infatti, erano in flagrante contrasto con gli interessi dei dirigenti delle industrie statali, che controllano tuttora il 90% del!' economia del paese. Riuniti aMosca ali' inizio di dicembre, poco prima che si aprisse i I congresso dei deputati, i dirigenti dell 'industriadi stato hanno minacciosamente invitato Gorbacev a ristabilire l'ordine e la disciplina con i vecchi metodi, per non es~ere costretti a farlo da soli. 4 La riorganizzazione della destra ha trovato espressione nell'imporsi sul primo piano della .scena politica di "Sojuz" (unione), un gruppo di parlamentari in cui sono largamente rappresentati i militari che si era costituito dall'inizio dell'anno scorso in seno al congresso dei deputati dell'Urss sotto la bandiera della difesa del l'integrità dell 'Unionecontro le tendenze centrifughe delle repubbliche. "Sojuz" raccoglie più di 500 deputati al congresso ed ha ramificazioni in tutti gli organi elettivi. Dopo l'estate "Sojuz" è andato a ingrossare le fila del "blocco centrista", una coalizione di sedicenti partiti democratici - trattati con benevola condiscendenza dai vertici del Cremlino e affatto estranei al movimento democratico - che ha proposto per primo, a novembre, la formazione di Comitati di Salvezza Nazionale, idea cara al colonnello Viktor Alksnis che è uno dei leader di "Sojuz". Era stato proprio il colonnello Alksnis, a metà novembre, a minacciare dalla tribuna del Soviet Supremo il presidente Gorbacev, avvertendolo che gli restavano trenta giorni di tempo per ristabilire l'ordine, altrimenti "Sojuz" ne avrebbe chiesto le dimissioni e la sostituzione, appunto, col Comitato di Salvezza Nazionale. E sono ben noti i legami di Alksnis con i comitati di salute pubblica dei paesi baltici: il · Colonnello non scherza, e infatti a metà febbraio, puntualmente, il Comitato di Salvezza Nazionale ha dichiarato, a Mosca, di essere pronto a prendere il potere. I rapporti del Comitato di Salvezza Nazionale col Pcus non · sono chiari; vi sono certamente frange conservatrici all'interno del partito, da sempre sensibili al richiamo nazionalista e imperiale, che vedono di buon occhio l'operato di Alksnis, che, inoltre, esprime ad alta voce e senza peli sulla lingua una ben condivisa profonda ostilità per Gorbacev. Del resto, il Comitato Centrale del Pcus ha messo più volte gentilmente a disposizione del blocco centrista il centro stampa del lussuoso albergo del partito vicino alla piazza dell'Ottobre. Dopo aver digerito le umiliazioni inflittegli da Gorbacev durante il XXVIII congresso, a luglio, infine, anche il partito ha cominciato a riorganizzarsi, dimostrando, in barba all'abolizione dell'articolo 6 della Costituzione che ne stabiliva il ruolo guida, di tenere ancora ben salde in mano le leve del potere. Una circolare segreta del 29 agosto, recentemente pubblicata dalla "Nezavisimaja gazeta", il primo quotidiano indipendente sovietico, mostra infatti come fosse stato dato l'accordo ai comunisti ituani fedeli a Mosca per organizzare i Comitati di Salvezza Nazionale e formazioni analoghe all'interno delle imprese. Bisogna tener presente, a questo proposito, che il Pcus che si riorganizza oggi non è il partito che aveva iniziato la perestrojka: nel corso dell'ultimo anno le forze democratiche ne sono uscite, senza tuttavia riuscire a imporre una scissione che" ne compromettesse seriamente la'forza. La Piattaforma democratica, infatti, la frazione che si era costituita all'inter_nodel partito all'inizio dello scorso anno e che ne chiedeva la trasformazione in un partito riformatore di tipo parlamentare pronto ad agire in un quadro pluripartitico rinunciando a tutti i privilegi (fra le richieste c'era anche la nazionalizzazione dei beni), è arrivata al congresso di luglio in
posizione di estrema debolezza, schiacciata dal radicalizzarsi della si-tuazione politica. Con grande soddisfazione dei conservatori, che, fin dalla primavera, avevano chiesto a gran voce, contro la volontà dello stesso Gorbacev, l.' epurazione del partito, molti leader democratici lo hanno abbandonato di loro sponte e individualmente prima del congresso (J urij Afanas' ev, Nikolaj Travkin); altri, invece,comeBorisEl'cin, Gavriil Popov, il sindaco di Mosca, e Anatolij Sobcak, il suo collega di Leningrado, hanno lasciato perdere la battaglia all'interno e il partito, dato ormai per spacciato, per rafforzare le loro posizioni ali' interno degli organi del potere sovietico. Sottovalutare l'importanza della lotta all'interno del partito è stato forse, come notava recentemente il pubblicista Fedo Burlackij sulle pagine della "Literaturnaja Gazeta", uno degli errori politici più gravi dei democratici: il centro gorbaceviano non è riuscito a consolidare le sue posizioni ali' interno e il partito è rimasto sostanzialmente in mano dei conservatori, padroni indiscussi del partito comunista russo del reazionario Ivan Polozkov, che costituisce di fatto il nerbo organizzativo dell'attuale Pcus. Riorganizzate le fila, il partito si è buttato, lancia in resta, . all'attacco contro i democratici. Da settembre igiornali reazionari, come la "Pravda", la "Sovetskaja Rossiya" e il neonato settimanale del Comitato centrale "Glasnost"' in prima fila, hanno orchestrato una violenta campagna stampa contro i democratici, accusati di aver ridotto alla fame le città e di tramare addirittura un complotto per prendere il potere secondo i dettami di un misterioso piano "azione '90", che sembra uscito, Manifestazione in Lituania (foto lehmon/Controsto). IL CONTESTO secondo le migliori tradizioni della storia russa, dalle cuci ne del KGB. Dopo lo sbigottimento iniziale, inoltre, i comunisti hanno cominciato ad organizzarsi sistematicamente all'interno dei nuovi poteri eletti vi, creando degli sbarramenti efficaci ali' azione dei democratici. Questo si è visto platealmente, la prima volta, a novembre, quando si è riunito il congresso di deputati della federazione russa, che non ha ratificato ledecisioni votate dal Soviet Supremo, costringendo i democratici a scendere ad ulteriori compromessi, come è stato il caso, ad esempio, della privatizzazione delle terre Convocato per volere dei democratici per suggellare, sull'onda dell'entusiasmo, il cammino verso la democrazia intrapreso dalla Russia con l'adozione della dichiarazione di sovranità n,azionale, a giugno, il Congresso straordinario di novembre ha mostrato, in realtà, l'avvenuto ribaltamento dei rapporti di forza, Del resto, dopo di allora non si è più parlato della nuova Costituzione, che, scritta da un pugno di intellettuali liberali in una dacia dei boschi attorno a Mosca sul finire del!' estate, aveva incontrato la furiosa opposizione dei comunisti, decisi a difendere la natura socialista e sovietica dell'URSS con le unghie e con l'aiuto delle lettere indignate di colletti vi di lavoratori pubblicate sollecitamente dalla "Sovetskaja Rossija" - un'altra vecchia tradizione dura a morire. L'opposizione dei comunisti a El' cin si è inasprita dopo i fatti di Vil'njus, quando per la prima volta il leader russo, condannando recisamente l'accaduto mentre Gorbacev taceva, aveva assunto una statura sovranazionale. La dura risoluzione di condanna del putsch lituano adottata dal Presidium del Soviet Supremo russo è stata bloccata dalla seduta plenaria; e adesso, dopo l'assurdo scandalo finanziario che ha travolto l'economista 5
IL CONTESTO liberale Gennadi j Fil' sin, uno d~ivice primo ministro del governo russo, lo scenario per far cadere El'cin per via parlamentare sembra essere stato messo definitivamente a punto. È uno scenario che, del resto, rischia di essere usato anche nelle altre istituzioni dove i democratici sono arrivati al potere: è il caso, per esempio, del Comune di Mosca e di quello di Leningrado, che si trovano confrontati a una forte opposizione interna, che ha buon gioco nella drammatica situazione alimentare in cui si trovano le due capitali, e. ali' insubordinazione dei soviet di quartiere, che rivendicano la loro. "sovranità", rendendo, ingovernabili le città. È in questo contesto che bisogna leggere il violento intervento di El'cin alla televisione, il 19 febbraio, quando il leader ru~so ha chiesto le immediate dimissioni del presidente sovietico e il passaggio del potere al Consiglio della Federazione, suscitando la furiosa reazione del Soviet Supremo dell'Urss e dello_stesso parlamento russo, dove il blocco conservatore ha chiesto, a sua volta, le dimissioni del.leader radicale e la convocazione di un congresso straordinario per averne la testa. Intervento che va letto anche, tuttavia, all'interno della crisi dei democratici, che, costretti a gestire un potere di cui non hanno il controllo reale, ' vedono .logorarsi il credito di fiducia di cui godevano, mentre nella popolazione si diffondono pericolosamente stati d'animo autoritari e antidemocratici. Esasperata da una vita quotidiana che diventa di giorno in giorno più invivibile, la gente si allontana dalla politica , di cui percepisce tutta l'estraneità e comincia a chiedere ordine: già alla fine di novembre, solo il 30% degli elettori è andato a votare per colmare i posti rimasti vacanti al parlamento russo e agli organi di rappresentanza locali. È il segno di una pericolosa inversione di tendenza, poiché la crescente politicizzazione della società era stata una delle più importanti conquiste della perestrojka. Tuttavia l'alta partecipazione elettorale che si è registrata a marzo in occasione del referendum mostra che il voto non è ancora uno strumento discreditato agli occhi della popolazione nei momenti di aspro scontro politico. L'attacco concentrico della destra ha costretto Gorbacev a i 0 mboccare la via di una ritirata di cui è difficile, al momento attuale, vedere la fine. Il presidente è stato costretto a cedere ad uno ad uno gli uomini che avevano condiviso con lui la battaglia riformatrice: all'inizio di dicembre è stato destituito il ministro degli interni Vadim Bakatin, violentemente attaccato da "Sojuz" per la sua politica di conciliazione nei confronti delle repubbliche; poi è stata la volta di Eduard Shevardnadze, l'artefice della politica estera di disarmo e superamento dei blocchi invisa a militari, dirigenti del complesso militare-industriale, conservatori nostalgici della potenza perduta dell'Impero e nazionalisti russi orrificati dal riavvicinamento al diabolico occidente senz'anima. All'inizio dell'anno è scivolato in secondo piano, più sommessamente, anche Aleksandr Jakov lev, uno degli ideatori del la perestrojka, che a luglio era uscito dagli organigrammi dirigenti del partito per p0assare a lavorare a tempo pieno accanto al presidente nelle istituzioni statali, simboleggiando così la volontà del gruppo dirigente gorbaceviano di spostare il centro del potere dal partito allo stato: Jakovlev, tuttavia, è stato nominato a marzo alla testa del consiglio presidenziale, che non gode, però, di poteri costituzionali, come era stato previsto all'inizio. Dopo Vil' njus, pure l'economista Evgenij Petrakov, uno dei consiglieri economici del Presidente, è uscito dall'entourage presidenziale. L'allontanamento di {>etrakov e Shatalin è particolarmente significativo, perché segna la definitiva rottura del presidente con I' intelligencija riformatrice iniziata già alla fine del 1989, quando molti intellettuali, delusi dalla incertezza 6 di Gorbacev e dalla sua arroganza verso i democratici, hanno cominciato a volgersi verso El'cin. Non è un caso che troviamo oggi nel consiglio presidenziale di Boris El' cin gli esponenti dell' intelligencija riformatrice che inizialmente aveva appoggiato Gorbacev, come la sociologa Tat'jana Zaslavskaja, gli economisti Pavel Bunic, Oleg Bogomolov e Nikolaj Smelev, l'accademico Georgij Arbatov, direttore dell'istituto di studi sugli Stati Uniti e il Canada, lo scrittore Danil Granin e il critico letterario Jurij Karjakin. Di fronte ali' attacco massiccio della destra, Gorbacev appare oggi completamente isolato, quasi un ostaggio nelle mani di for~e che hanno riconquistato le posizioni inizialmente perdute. I cedimenti di Gorbacev alla destra, che avvenivano proprio nel momento in cui i democratici, dopo gli accordi dell'estate con El' cin sul piano radicale di riforma dell'economia, si illudevano che la coalizione di centro-sinistra fosse ormai alle porte, hanno portato a una definitiva spaccatura con la sinistra, con cui, del resto, se non proprio fin dall'inizio della perestrojka, perlomeno negli ultimi due anni, i rapporti sono stati estremamente conflittuali per reciproche responsabilità. Diffidenti verso il presidente, da cui si sono sentiti più spesso attaccati che appoggiati, i radicali hanno cominciato allora, in àutunno, a volgersi direttamente contro Gorbacev, in cui vedevano sempre più il leader della conservazione, l'uomo che, pur di conservare il suo potere personale, era disposto ad affossare l'opera da lui stesso iniziata. Sottovalutando il peso delle forze della reazione nel paese, i radicali hanno lasciato sempre più isolato il presidente, che, dal canto suo, sollecitato a trovare compromessi e mediazioni con la destra, non ha voluto o saputo tendere alla sinistra una mano in segno di buona volontà. Le vicende degl'i accordi con El'cin, ripetutamente violati dal presidente, ne sono una prova ed hanno contribuito ad alimentare il sentimento nella sinistra di essere continuamente ingannata, di essere presa nella trappola di uri gioco che non controllava. E questa incapacità di costruire U!) dialogo con la sinistra è forse il più grave limite politico e culturale di Gorbacev. Ora dopo i fatti di Vil'njus, il filo sottile che legava il presidente sovietico al movimento democratico sembra essersi irrimediabilmente spezzato. E non si tratta, inoltre, solo di Vil'njus. La svolta a destra, infatti, ha incrinato gli assi di fondo della politica della perestrojka: la democratizzazione, il cui simbolo principale era la glasnost', e la liberalizzazione dell'economia. Dall'inizio dell'anno si moltiplicano, a un ritmo quasi quotidiano, i tentativi di soffocare la glasnost', I-' unico risultato reale di questi anni di cambiamento: grazie allo zelo di Leonid Kravcenko, nominato a dicembre alla testa dell'ente radiotelevisivo, la televisione è stata già normalizzata. Del resto, Kravcenko aveva spiegato, illustrando ai telespettatori i suoi progetti per l'anno nuovo, che la TV doveva essere un momento di svago e di evasione, poiché la gente era stanca della politica a tutte le ore. Adesso il telegiornale serale ha di nuovo il sapore dolciastro degli anni di Breznev, mentre programmi più coraggiosi, come il popolarissimo "Vzgljad" (opinione), sono stati sospesi; la Russia si è vista togliere, senza preavviso, le ore di trasmissione sulla radio, mentre le trattative per dare alla repubblica il secondo canale televisivo sono state interrotte per volere del centro. Per evitare,, spinosi problemi di spartizioni dei beni con le repubbliche, inoltre, con un decreto di Gorbacev la radiotelevisione di stato è stata trasformata in ente autonomo, il cui presidente, quindi, non dovrà più essere confermato dal Soviet Supremo, ma sarà nominato direttamente dal capo dello stato. Dopo il tentativo di chiudere l'agenzia indipendente Inte ,fax,
all'inizio di gennaio, il rabbioso intervento, pochi giorni dopo, di Gorbacev al Soviet Supremo contro "Moscow News" per la pubblicazione della coraggiosa lettera del consiglio di.redazione sui fatti cli Vil'njus, definiti come "il crimine di un regime che non vuole uscire di scena", ha fatto pesare sul paese la minaccia di un ritorno della censura, sotto la formula magari più elegante di "garanzia dell'obiettività dell'informazione". Per il momento, tuttavia, la sospensione della legge sulla stampa sembra difficile; è più probabile che si cerchino prima altre vie per mettere a tacere i giornali democratici, come la mancanza di carta, distr:ibuita ancora centralmente, e l'aumento del prezzo della carta e delle tipografie, ancora in buona parte in mano al partito. Per ora è fallito anche il tentativo di ricondurre all'ordine la "lzvestija", grazie alla decisa opposizione del collettivo di redazione; tuttavia, è stata impedita la pubblicazione di diversi materiali su terni scottanti (il KGB, la situazione nelle repubbliche baltiche) e la vicenda sembra ben lungi dall'essersi conclusa. Basta sfogliare i giornali per sentire una pressione diffusa: nella sorpresa generale, la "Komsomol'skaja pravda", quotidiano schierato a sinistra; è uscito, il giorno dopo la levata di scudi del Soviet Supremo contro l'intervento televisivo di El'cin, senza una riga di commento. L'attacco alla glasnost', pubblicità nel senso habermasiano del termine, non riguarda solo la stampa: in tutta segretezza, ancora il 29 dicembre - cioè prima di Vil'njus - il ministro della Difesa, Dirnitrij Jazov; e il suo collega degli interni, B<;>ris Pugo, hanno firmato un prikaz ( ordinanza) con cui si disponeva l'org'anizzazione, dal primo febbraio, di pattuglie armate nelle maggiori città e nei punti caldi del paese (le zone industriali in primo luogo) per assicurare ilmantenimento dell'ordine pubblico. Solo grazie a una fuga di notizie il parlamento russo è venuto a conoscenza, alla fine di gennaio, dell'esistenza del prikaz, , palesemente anticostituzionale: e solo in seguito allo scandalo Gorbacev, pochi giorni dopo, con un gesto di profondo disprezzo per quanti chiedevano la sospensione del provvedimento, gli ha dato, invece, un fondamento costituzionale - a posteriori - con un ukaz (decreto). Per quel che riguarda l'economia, i primi provvedimenti presi dal nuovo primo ministro Valentin Pavlov non sembrano andare affatto nella direzione di una riforma, ma sembrano piuttosto essere dettati dalla vecchia logica. Inoltre, con un altro ukaz del presidente, alla fine di gennaio il KGB è stato incaricato di combattere in prima persona iI"sabotaggio" (parola che, dopo · la morte di Stalin, era scomparsa dal vocabolario sovietico) nell'economia, senza che una qualsivoglia normativa giuridica ne limiti i ·poteri: il che significa porre una seria ipoteca sullo sviluppo dell'ancòr fragile settore privato, che si trova ad operare in una situazione di totale incertezza del diritto. È difficile prevedere quali saranno gli esiti del violento scontro politico in corso in Unione Sovietica, che vede ormai scendere in campo anche forze sociali ben organizzate. I minatori sono infatti in sciopero dall'inizio di marzo e il decreto del Soviet Supremo del 26 marzo per far finire la protesta d'autorità sembra destinato a restare lettera morta; l'entrata in vigore degli aumenti dei prezzi (200-300% per i generi di prima necessità), il 2 aprile, potrebbe provocare un'esterisione dell'ondata di sciopero e incontrollabili manifestazioni di malcontento sociale. L'avvenuta saldatura tra i minatori, che chiedono apertamente le dimissioni del Presidente, e l'opposizione democratica, inizialmente diffidente, è un elemento nuov·o che potrebbe ·avere un peso determinante nel forzare le parti a trovare un compromesso. Anche i risultati del referendum spingono in questa direzione. Dopo l'intervento televisivo di El'cin di febbraio, infatti, si è IL CONTESTO arrivati a uno scontro frontale aperto fra il leader della Russia e· il Presidente sovietico, che ha trovato espressione nella politicizzazione- e nella personalizzazione- del referendum di marzo, da cui i due rivali sono usciti, tuttavia, entrambi vincitori. La partita è patta. El'cin ha abilmente rintuzzato il Congresso russo, convoncato su pressione dei deputati comunisti per chiedere la testa del leader radicale, e la grande manifestazione di Mosca del 28 marzo, che si è svolta in una città in stato d'assedio per volere di Gorbacev, ha mostrato che la giovane democrazia russa ha vinto la paura ed è pronta a sostenere la sua causa senza cedere ad alcuna intimidazione. Il leader radicale ha cominciato, di fatto, la campagna presidenziale e, una volta eletto a suffragio universale e diretto a capo della Federazione russa, potrà trattare con ben altri poteri, godendo di quella legittimazione popolare che manca a Gorbacev, con il Presidente dell'Urss. Gorbacev, dal canto suo, dopo la fine della guerra del Golfo, in cui il ruolo degli app~ati conservatori dell'Urss, certamente non secondario, è ancora tutto da chiarire, sembra cominciare a liberarsi dalla morsa in cui si era trovato prigioniero negli ultimi mesi. Sin dalla fine di febbraio il Presidente ha cominciato a prendere cautamente le distanze dalla destra, invitando alla costituzione di un centro politico riformatore; Vadim Bakatin è stato nominato membro del consiglio di sicurezza dell'U rss dopo che, nei mesi precedenti, erano circolate voci su un suo invio come ambasciatore in un paese europeo, e lo stesso Aleksandr J akov lev, come si accennava, ha avuto la carica non solo onorifica di primo consigliere del Presidente. È stato solo dopo la fine della guerra che Shevardnadze ha ricominciato a parlare pubblicamente e il centro studi della politica estera che l'ex ministro degli esteri sta organizzando potrebbe avere una certa importanza nell'unione delle forze democratiche. Il prendere le distanze di Gorbacev dalla destra conservatrice - che è in p'arte forzato, poiché anche questa, frustrata dalle cautele del Presidente, ne chiede ormai le dimissioni ("Sojuz" ha chiesto la convocazione di un congresso straordinario dei deputati dell'Urss perché il Presidente renda conto della sua politica, e al Congresso russo lsaev, uno dei firmatari dell'appello coritro EJ'cin, ha chiesto che Gorbacev andasse in pensione)-è stato accompagnato, tuttavia, da gesti di sprezzante ostili~à verso la sinistra radicale ("i cosiddetti democratici"), come il tentativo di impedire, senza alcun rispetto delle norme costituzionali, la grande manifestazione di Mosca. E sono gesti simbolici che non hanno certo contribuito a ritessere un dialogo con i radicali. Gli attori politici sulla scena sovietica sembrano ormai prigionieri dei ruoli che si sono scelti, incapaci di ròmpere le gabbie delle loro stesse p,arole per tendersi reciprocamente la mano. "La nostra politica è l'arte dell'impossibile-scriveva la "Komsomol'skajaPravda", commentando i risultati del referendum-. È il desiderio di rifondare almeno qualcosa senza cambiare niente, il tentativo di fare una scelta senza alternativa, l'aspirazione a trovare un compromesso in una lotta senza compromessi". Riùscirà a vincere la ragione, cancellando le offese personali che si sono accumulate fra i due leader in nome della salvezza del paese, come spera Shevardnadze? O assisteremo al consumarsi di una tragedia annunciata già sul finire della scorsa estate? La storia non può tornare indietro, i carri armati non passeranno fra le vie di Mosca: le manifestazioni popolari di questi mesi a sostegno della democrazia hanno mostrato che i cambiamenti di questi anni sono ormai irreversibili. È una strada difficile e densa di ostacoli, certo: ma in fondo è stata già imboccata. Mosca, 18-21.02/31.03.1991 .,,
IL CONTESTO La guerra persa LeHera a· un amico 11 interventista" Marino Sinibaldi Forse era ingenuo attendersi che la fine della guerra del Golfo avrebbe consentito di affrontare con coraggio e chiarezza maggiori i problemi e le divisioni che quel conflitto aveva evidenziato. Ma se questo non sta accadendo - né tra i più sensibili e i meno fanatici dei favorevoli alla guerra (i cosiddetti "interventisti democratici") né, purtroppo, tra i pacifisti - è anche la conferma di una vec_chiaverità: tra le tragedie delle guerre c'è quella, per nulla minore, di ridurre la libertà intellettuale, di avvelenare il dibattito politico e culturale, di abbassare comunque il livello complessivo di civiltà di un paese. Tutto questo sta puntualmente succedendo in Italia. E viene persino da pensare che la grottesca situazione istituzionale, con la massima carica dello stato in preda a impulsi-come dire?-scomposti, non sia un caso che riguardi qualche isolata patologia, ma piuttosto la punta dell'iceberg di una generale, atonica convulsione e disgregazione. Come una deriva precariamente tenuta sotto controllo da meccanismi ormai automatici di compensazione e rimozione. Il clima che si è creato intorno alla guerra del Golfo - e che, in buona misura, gli sopravvive - ha mostrato tutti i tratti di questa situazione deteriorata, e anzi li ha aggravati. Non solo perché, come si è già detto, ha gradualmente, progressivamente, irresistibilmente prodotto consenso intorno a metodi e valori (la semplificazione dei problemi, la predilezione per le soluzioni drastiche e veloci, l'indifferenza per i costi umani che queste "strategie" comportano) che in guerra hanno ovviamente il sopravvento ma che possono costìtuire unmodello apparentemente efficiente anche per la pacifica convivenza civile. Ma inoltre perché ha rivelato proprio la debolezza, l'inaffidabilità, la superficialità cui si è ridotto oggi in Italia il cosiddetto dibattito politico e culturale, anche suquestioni, per una volta, di drammatica rilevanza. Da questo punto di vista, la guerra e il dopoguerra, gli scontri e le divisioni, le discussioni e i bilanci, sembrano portare il segno della sconfitta per chiunque ha affrontato le settimane del conflitto cercando di salvaguardare una capacità autonoma di giudizio e un minimo di razionalità, con la convinzione delle proprie ragioni ma con attenzione per quelle degli altri. Tutti sconfitti. Ma, da questo punto di vista, non tutti sconfitti nella stessa misura. Ame sembra rovinoso il fallimento dei cosiddetti interventisti democratici e delle ipotesi e previsioni in base alle quali molti hanno scelto di schierarsi più o meno apertamente a favore della partecipazione italiana alla guerra. Praticamente nessuna delle condizioni che dovevano permettere un'adesione al conflitto in chiave non puramente guerrafondaia si è realizzata. La proporzionalità dell'azione di guerra rispetto alla violazione da punjre - questo prerequisito fondamentale di una possibile giustezza della guerra del Golfo - è stata apertamente e definitivamente infranta con gli ultimi, inutilmente feroci bombardamenti di un paese sconfitto è il massacro di intere colonne di soldati in fuga.L'improrogabile necessità della guerra, legata all'eccezionalità della minaccia irachena, è stata smentita proprio dal gigantesco pluff che ha dissolto il "quarto esercito del mondo": la volatilizzazione finale ha mostrato quanto fosse R grossolana la falsificazione iniziale. Ma anche di fronte a queste rivelazioni finali, il silenzio degli interventisti democratici è continuato compatto, ed è stato il segno della loro sconfitta, perché ha mostrato l'impossibilità di essere a favore della guerra mantenendo un'obiettività, una misura e un equilibrio almeno personali. Tanto che alla fine è apparso davvero difficile distinguere questi interventisti dagli altri - i volgari, ingombranti, insultanti guerrieri delle poltrone televisive. In una situazione di parziale distinzione è rimasta forse solo la posizione di Norberto Bobbio. Tanto profonde e motivate sono state le riserve e le cautele con cui il filosofo torinese si è schierato, che nel suo caso in parte sfuma l'opposizione tra le categorie degli interventisti e dei pacifisti. Eppure, a riconsiderare il percorso di Bobbio (i suoi interventi sul tema sono ora raccolti nel libretto Una guerra giusta? edito da Marsilio) saltano agli occhi alcune aporie decisive. Per Bobbio, come è noto, la guerra è giusta solo se efficace e rapida, e comunque "la riparazione di un torto non deve dar luogo a un massacro". La sua personale lucidità ha permesso di rilevare in fretta come la guerra del Golfo si sviluppasse in -una direzione che non rispondeva a nessuna di queste due condizioni decisive. A trattenerlo dal condannare l'intervento è stata la considerazione con cui Bobbio chiude la prefazione al libro citato: "Possiamo concludere che l'intervento è stato un tragico errore? Esito a dare una risposta affermativa a questa domanda unicamente perché non sono sicuro che non sarebbe stato un errore altrettanto tragico il non intervento". Ora, a parte il fatto che questa esitazione si fonda su una valutazione errata del peso e della minaccia di Saddam Hussein (queste righe erano state scritte quando ancora non si era palesata la sua relativa inconsistenza militare, e a partire da questa incertezza Bobbio poteva, sbagliando, accusare i pacifisti di sottovalutare il dittatore iracheno), a me sembra che la risposta di Bobbio riveli un difetto di fondo. Guerra e pace - o, diciamo, guerra aperta ed embargo, il conflitto militare e una strategia internazionale di dissuasione -non sono alternative equivalenti. Da una parte c'era la certezza Disegno di Mojo (do "Magazine littéroire").
del massacro - puntualmente avvenuto-, dall'altra un rischio collettivo. Da una parte c'è l'implacabile e immodificabile linguaggio delle armi, dall'altra la drammatica incertezza di una situazione in cui comunque l'Onu, gli Usa, l'Urss e l'Europa potevano in vario modo intervenire. Sono sicuro che questi ragionamenti appariranno ingenui e infantili, secondo un cliché che non solo ha snaturato lo spessore del pacifismo, ma ha anche costituito un motivo di fascino dell'interventismo, rappresentato come scelta ragionevole e adulta, realista e matura; non roba da ragazzi (o donne) candidi e sentimentali ...Ma a me sembra che se c'è un dubbio, la guerra non va fatta, esattamente come, se c'è un dubbio, non si deve condannare (a morte, poi!) un imputato. L'elementare disconoscimento di questa fondamentale differenza ha rappresentato il limite di tanti discorsi di apparente buonsenso neutralista che si sono ascoltati in questi mesi. Come i tanti amici che ci hanno pazientemente ricordato che in Medio Oriente torti e ragion non sono così nitidamente distribuiti da una parte e dall'altra. Ribadisco l'ingenua obiezione: ma allora, se torti e ragioni sono così incèrti, non si dichiara una guerra. Quell'incertezza e quella complessità non rendono "astratta" l'alternativa fra pace e guerra (che comunque, per chi è attento alla vita delle persone oltre che alle politiche degli stati, ha sempre una sua evidente e concreta materialità: semmai la rende più difficile. Ma è grave che provochi una più o meno aperta simpatia per la "facilità" della guerra ... Una guerra che, per tornare alle argomentazioni di Bobbio, è stata illimitata, senza proporzione con la violazione da colpire. E né talmente rapida da adempiere alla principale delle condizioni in base alla quale poteva "giustamente" essere dichiarata; né Una lettera di Norberto Bobbio 22 febbraio 1991 Caro Fofi permettimi di fare brevi osservazioni su due articoli che mi riguardano, pubblicati sul numero di febbraio di "Linea d'ombra". Nell'articolo Il dibattito sulla "guerra giusta". Troppa filosofia per una sporca guerra, Rusconi scrive che in un mio articolo su "La Stampa" "c'è un'affermazione sconcertante nella sua ovvietà." Questa affermazione sconcertante nella ·sua ovvietà consisterebbe nell'aver scritto "che la guerra giusta in quanto efficace deve essere vincente". Ora, questa mia affermazione è tanto poco ovvia che a quanto pare Rusconi non l'ha capita. Intanto, dire "la guerra giusta in quanto efficace" è un fraintendimento della mia tesi, secondo cui il criterio della giustizia e quello dell'efficacia sono diversi e debbono essere tenuti distinti, sì che una guerra'può essere giusta, nel senso di lecita, senza essere efficace e viceversa. In secondo luogo, che la guerra debba essere vincente è un requisito dell'efficacia, non della giustizia. Una guerra giusta rimane giusta, per chi l'ha creduta tale, anche se è perdente. Una guerra, invece, deve essere vincente per essere efficace, cioè per raggiungere il proprio scopo. Se gli Stati Uniti e i loro alleati non\ riuscissero a far ritirare Saéldam Hussein dal Kuwait, anche chi ha ritenuta lecita questa guerra dovrebbe convenire che non è stata efficace. Mentre Rusconi mi rimprovera di essere stato troppo ovvio, Nanni Salio nell'articolo Ancora sulla "guerra IL CONTESTO abbastanza lunga da confermare l'autenticità dello straordinario pericolo in nome del quale era stata proclamata. Qui mi sembra stia la sconfitta di ogni interventismo soft, neutralismo, non pacifismo. Ma parlando di sconfitte e sconfitti, non si può non accennare ai pacifisti. È un discorso che meriterebbe uno spazio maggiore. Ma intanto colpisce la suscettibilità dello stàto maggiore del pacifismo organizzato, maldisposto verso critiche e autocritiche. Eppure, che il movimento pacifista abbia accusato limiti ed errori dovrebbe essere evidente a tutti.Non è stato soloper le difficilissime condizioni oggettive (la guerra, una guerra facile e vittoriosa) che l'incidenza e la capacità di mobilitazione del pacifismo è diminuita nel corso del coqflitto fino a sparire quasi del tutto. E non è perché il pacifismo aveva torto che lo si critica, ma per non essere stato capace di sostenere le proprie ragioni. Sono considerazioni francamente elementari. Se invece una parte del pacifismo reagisce con una sorta di ottusa irritazione, è possibile avanzare due ipotesi. La prima è che a velare la comprensione della realtà ci sia anche un calcolo di bottega: in fondo il movimento per la pace ha imposto la sua presenza, anche forte, in certi momenti. Le sue espressioni ufficiali hanno 'allargato il proprio peso; qualche giornale pacifista ha prodigiosamente aumentato la tiratura ... A qualcuno, accecato da questi "successi", sfugge che un movimento per la pace dovrebbe non dico impedire la guerra, ma almeno impedire che si militarizzi la pace e dovrebbe spostare consensi a proprio favore (e non il contrario, come è accaduto in Italia dal gennaio al marzo scorso). E dunque la seconda ipotesi è una certezza: che i limiti culturali e politici del pacifismo siano più profondi di quanto si pensasse, questo è un problema che d'ora in poi ci riguarda tutti. giusta", mi rimprovera di non aver capito una cosa così ovvia come quella secondo cui l'etica della responsabilità, che io spesso ho invocato, "si fonda sulla prevedibilità dell'esito delle nostre azioni". L'ho così bene capita che più. volte, parlando delle condizioni di efficacia della guerra, che avevo indicato nella limitatezza della durata e dello spazio del teatro di'guerra, mi sono domandato: "Ma erano prevedibili? E se non erano prevedibili, perché non sono state previste? E se non sono state previste perché non erano prevedibili, come mai la guerra è stata ugualmente cominciata?" Non sono più d'accordo con Salio quando di fronte al fatto che la guerra contro l'Iraq sembra iniziata senza una chiara previsione delle possibili conseguenze, dubita addirittura della validità dell'etica della responsabilità. Pare non rendersi conto che senza la possibilità di prevedere le conseguenze dei nostri atti, non sarebbe possibile nessuna etica. Una persona può essere giudicata eticamente o giuridicamente soltanto se è in grado di prevedere le conseguenze dei propri atti. Altrimenti è considerato un irresponsabile, e non punibile o punibile in · diversa misura. Così come, non è colpevole chi, pur avendo la capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, si è trovato di fronte nella situazione concreta a un "caso fortuito", cioè a un evento non prevedibile. Non riesco bene a capire in che cosa si distingua l'etica della responsabilità dall'etica dell'errore che Salio lecontrappone, come se la virtù principale dell'uomo che agisce responsabilmente non fosse quella di correggere la traiettoria della propria azione in base al modificarsi della situazione, e al non realizzarsi delle previsioni fatte in precedenza. Quella virtù suprema del grande capo politico che Weber chiamava "lungimiranza". Cordialmente Norberto Bobbio ft
claudiiiila ViaPrincipTeommaso1, • 10125Torino c.c.p.20780102 • tel.011/68.98.04 - FAX65.75.42 DistribuzioSneEDIT-·ViadiSoffian1o64/A- Firenze MartiLnutero SCUOLEACULTURA Compidtei lleautoritàd,overi del genitori aairadiMariaCristinaL.aurenzpip, . 144, L 16.000 (Operescelte, 4) Due saitti fondamenta(ldi el 1524 -edel 1530) sulla necessitdàiunaformazionaeilturalecompletpaerrutti laici- uominei donne- invistadeinuoviCQ(Tlpdietilla societàcivile,affrancadtalrasservimenctloericaleU. na 'tavoladifondazioned·ellanuovaciviltàlaicachenasce conlaRiformainEuropa. NicolPaagano . RELIGIOENUEBERTNAELLSACUOLA l'lnsegnmnendteollarellglonceattolica dalloStatutoalbertlno cigloni nostri pp. 205L 18.000 li libroperchihaacuorela libertànellascuola ffinché possarisponderae chiunques,ianellascuolasia nei pubblicdi ibattitis,viscerandfoinoin fondolaquestione dell'insegnamenretoligiosoconfessionalUe.naffresco potentedèllastoriadellascuolaitalianadall'unitàd'Italia a oggi. Giusepplae Torre· L'ISLAMCO: NOSCEPREERDIALOGARE pp. 144, L. 16.000 Conoscerre1sIam prsndendocoscienzdaeinostri pregiudiziper potermeglioincontrariemusulmacnhi evivono inItaliaèrobiettivdoifondodiquestolibromoltoinformato, scrittodaunmembrodelComitato'IslaminEuropa·. HansConzelmann LEORIGINDIELCIRISTIANESIMO I risultadtielacriticastorica (2° ediz.)p, p. 272,L 19.000 La piùaggiornaetadequilibratsaintessi_,ricadelleorigini cristianeU. nlibrodivulgativcoonunametodologriaigorosa Un'classicon' elsuo genere. &asmo da Rotterdam/MartiIl .utero . Il LIBERAORBITRIOS/IlERVAORBITRIO pp.254,4 ili. ni f.l, L 16.000 Perlaprimavoltainitalianoi testidellafamosadisputa. UmanesimeoRiformad:uevisiondi elmondoinconflitt> alleorigindi ellaetàmoderna. Martin Lutero LIBERTDÀELCRISTIANO letteraa leoneX pp. 68, L 10.000 La piùchiara ed equilibratsaintesdi elpensierlòuterano. Il manifestodellaliberazionedell'uomodalla 'legge", .dallagerarchieacciesiasticeadalla"religione". IL CONTESTO la guerra e i pacifisti. Osservazionisu due libri recenti Santina Mobiglia La lettura di due libri recenti, pur assai diversi tra loro per contenuto ed approccio, suggerisce alcune riflessioni incrociate nel quadro dei molti interrogativi e problemi sollevati dallo scenario della guerra del Golfo. Mi riferisco, in ordine di pubblicazione,. in primo luogo a un ampio e significati va-rapporto del gruppo Human Rights Watch (sezione Middle East) sull'Iraq, edito in d.a.ta insospettabilmente precedente la crisi (febbraio 1990), ora in volume della Yale University Press. Lo studio appartiene a un filone di ricerche non solo poco praticate, ma ampiamente ignorate nel nostro paese e dalla sua editor_ia e pubblicistica: sintomo e insieme causa di una perdurante chiusura di orizzonti culturali per la quale - salvo crisi, guerra o altre clamorose catastrofi - siamo gravemente sprovvisti di un'informazione reale e diffusa circa lo stato del mondo contemporaneo (per larga parte confinato nella vaga nebulosa del cosiddetto Terzo· Mondo), in misura incomparabilmente maggiore di quanto non siamo invece inseriti nei floridi circuiti del traffico internazionale di armi. Nemmeno un libro come Repubblic of Fear, scritto sotto pseudonimo (Al-Khalil) da un dissidente politico in esi I io dall'Iraq (pubblicato nell' 89), come del resto i rapporti di Amnesty International, avevano suscitato da noi echi e risonanze: fino alla vigilia del fatidico 2 agosto (e nonostante la macabra impiccagione in Iraq, qualche me·se prima, del giornalista anglo-iraniano avesse occupato le prime pagine dei giornali) la scena mediorientale appariva dominata dall'inquietante presenza del fondamentalismo iraniano, mentre l'Iraq risultava un più rassicurante regime laicamente al passo con i tempi moderni, un po' militarista e antidemocratico, ma nello standard medio del Terzo Mondo. Lo studio dello Human Rights Watch · ricostruisce uno spaccato impressionante (documentato sulla base di un'amplissima informazione e di interviste a controllo incrociato)' del· funzionamento del regime iracheno nel ventennio di governo Baath, che si delinea con tutta evidenza come un nazionalismo totalitario di buona memoria europea (con le ovvie affinità, quanto a struttura del -partito Baath e Ònnipresenza delle polizie segrete, con lo stalinismo) senza bisogno di scomodare il fantasma dell'islam arretrato e guerrafondaio, che è ancora chiamato in causa dal ·fondo del "Corriere della Sera", a guerra finita, con il titolo Perché l'islam ha perso a firma di P. Melograni. Se i richiami di Saddam al Corano sono una novità recente, dettata da ovvi motivi contingenti e strumentali, ben più costitutiva del regime appare un'ideologia e una struttura istituzionale perfettamente omologabile al modello dei sistemi' totalitari europei fra le due guerre con il corredo delle più feroci persecuzioni, torture, omicidi politici, esecuzioni capitali (a titolo di esempio, nel 1979 furono giustiziati gli insegnanti che rifiutarono di iscriversi al partito Baath o che vennero giudicati inaffidabili all'indottrinamento dei giovani nelle scuole). L'intera struttura del potere, sotto un esile parvenza statuale, coincide saldamente con l'apparato del partito Baath, che dispone di un proprio esercito (la Milizia popolare) e di una propria polizia segreta, in aggiunta a quella di stato e ai servizi segreti dell'esercito. Fra i numerosissimi reati per i quali è prevista la pena di morte vi è pure l'iscrizione da parte di un militare, anche in pensione, ad un partito di verso dal Baath. Detto questo, appar~ comunque fuorviante l'equazione Saddam-Hi tler, tanto cara alla propaganda bellicista: ben diversa era la potenza industriale e l'autosufficienza militare della Germania nazista rispetto all'attuale Iraq; l'identificazione rispecchia piuttosto un pericoloso procedimento classico di demonizzazione del nemico, fu~zionale a bruciare ogni possibilità d'intervento che non sia la guerra_totale. Per nulla dissimile pèr altro da quello iracheno il regime attualmente al potere in Siria: stesso partito, analoghi i metodi e le brutalità (cfr. F. Ciafaloni, Nazionalismi totalitari, in politica, marzo 1991). Non stiamo parlando di conoscenze tratte da rapporti riservati, ma reperibili sui banconi delle librerie, anche se poco in Italia. Ciononostante con l'Iraq fino a ' poco fa e con la Siria ora più che mai intratteniamo ottime relationi economiche e politiche.' Il secondo libro di cui vorrei parlare è una sintetica esposizione delle "ragioni della nonviolenza" (come recita il sottotitolo), scritta a caldo, mentre la parola era passata alle armi.- da Giovanni Salio (segretario dell'Italian Peace Research Institute) per le edizioni Gruppo Abele di Torino (febbraio 1991). Il titolo del libro, Le guerre del Golfo, riprende il modello teorico di Johan Galtung (autore dell'introduzione) che propone una complessificazione analitica dei conflitti (per la guerra del Golfo ne elenca venti in vario grado interageriti, v. "Linea d'Ombra", febbraio 1991) come precondizione della ricerca di una soluzione pacifica, basata sul rifiuto aprioristico della logica dualistica anriconemico. Rivo1gendosi a un pubblico vasto e non specialistico, Salio offre una sorta di instantbook, su un problema di urgente attualità, che condensa- insieme alle riflessioni sulla guerra del Golfo e al dibattito relativo da essa prodotto - le linee essenziali della teoria e pratica del movimento nonviolento, didatticamente utile anche e soprattutto ai giovani interessanti ad
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