IL CONTESTO particolari (possiamo chiamarli "di destra", per cap_irci?).L'eccezione della seconda guerra mondiale, per la sua apparente "giustezza" ideologioa e con il suo esito resistenziale, ha prodotto forse un inganno nel nostro immaginario: alle guerre non si accompagna praticamente mai quella tensione al rinnovamento cjalleradici, alla trasformazione, alla rifondazione e apertura di sé e del mondo che un po' sbrigativamente siamo soliti associare alla primavera del '45. Una costante della guerra è invece di produrre irrigidimenti drastici, chiusure demonizzanti, un generale processo di desolidarizzazione. Anche all'interno dell'area politica e sociale che ci interessa: se dopo lo schema "destra-sinistra" se ne può usare un altro che ritenevamo superato, la guerra divide gli amici e unisce i nemici. - . Su quel piano e in quell'area, particolarmente clamorosa (e dolorosa) mi è parsa l'incapacità di una cultura laica, radicale e liberalsocialista di cogliere il nodo della guerra e di.comprendere la specificità e lo spessbre del pacifismo. Manifestando così pienamente i limiti di quella cultura e delle sue espressioni politiche: una strana evasività o insensibilità etica e, sul piano più strettamente politico, una autentica idolatria per i valori e le potenze occidentali. Ma in generale, la vicenda del cosiddetto "interventismo di sinistra" è la conferma più evidente del funzionamento ferreo dei meccanismi belliço-culturali cui accennavo, anche al di là dell'incredibile c.oincidenza delle argomentazioni della sinistra interventista di oggi con quella dei democratici del '15 (il,nuovo ordine mondiale che nascerebbe dalla gÙerra fu l'illusione di Salvemini come lo è ora di Vittorio Foa; e bisogna augurare al secondo di non doverne pagare le conseguenze, come purtroppo accadde al primo). · In guerra, tutto funziona a favore della guerra: le illusioni più generose e gli interessi più spudorati, gli errori in buona fede e le imposture più volgari, le peggiori tensioni e le migliori intenzioni. Appena smentita, ogni motivazione a favore della guerra viene immediatamente sostituita da un'altra. Gli obiettivi cambiano continuamente. La soglia di sopportazione generale si alza con progressione geometrica. Ogni ora che passa aumenta la tolleran- ·z~ verso la guerra (e sale, invece, l'intolleranza verso chi vi si oppone). Questi tratti di una legge generale non hanno mancato in questi giorni di presentarsi con implacabile puntualità. Ma fin qui siamo in qualche modo alla superficie, dove le trasformazioni sono evidenti ed espresse. Quello che c'è sotto è il senso comune, coi suoi modi di subire e reagire alla guerra. Cosa accade dÙnque, tra gli italiani? Innanzitutto, se prendiamo come riferimento positivo quella diffusa ma fragile resistenza, accade di abbassare in qualche modo la guardia. Cos'altro significa il fatto che nonostante la guerra abbia già mostrato i suoi errori e i suoi orrori la percentuale degli italiani favorevoli alla guerra stia crescendo a vista d'occhio (nei giorni in cui scrivo ha per la prima volta superato la soglia del 50%)? Anche qui si conferma l'efficienza di un tipico meccanismo bellico: la guerra comunque convince (almeno finché si vince o sembra si vinca). Il linguaggio della guerra procede con una capacità di persuasione che nessun altro discorso ha. Ma accanto a questo dato generale, c'è un dato particolare che ha a che fare con l'incertezza degli italiani, con quel!' instabilità che provoca l'impressionante volubilità dei son- . daggi, la rapidità del mutamento d'opinione (da una maggioranza pacifista a una maggioranza interventista). Questo dato è il segnale di un vuoto. C'è al centro del!' atteggiamento iniziale nei confronti della guerra esattamente quel senso di vuoto che emergeva dal più recente rapporto del Censis. · È uri vuoto di val~ri determinato dalla crisi delle idee-guida degli anni Ottanta che hanno ormai esaurito la loro "spinta propulsiva" (e sia chiaro: è perché ha_nnovinto che hanno smarrito 6 quella spinta; è un esaurimento, appunto, non un fallimento). È un vuoto di prospettive che fa seguito al tramonto dei grandi modelli di società ma anche alla crisi precoce dei sistemi "deboli" che avrebbero dovuto rimpiazzarli. È un vuoto politico per la clamorosa e ormai assodata mancanza di alternative sociali e istituzionali. È un vuoto d1interpretazione, per la caduta irreversibile dei vecchi modelli di spiegazione della società ma anche per la rapida svalutazione di quelli fondati su tendenze e valori emersi nello scorso decennio. È questo generale grande vuoto a produrre negli italiani quella posizione di attesa individuata dal Censis. Ma il vuoto non può durare a lungo. E in questi giorni, in queste settimane sta forse accadend_o qualcosa che può riempire quel vuoto. Sul fronte interno si sviluppano meccanismi e sentimenti potenzialmente in grado di colmare l'assenza di valori e di modelli. Ci sono i tratti di una cultura in guerra, di una cultura di guerra i cui meccanismi possono dilagare, con la loro ferrea "funzionalità", anche qui nelle retrovie. Qualche valore, o almeno qualche parola-chiave, si intravede già. La semplificazione brutale che ci ha trascinato nel conflitto, per esempio; la riduzione della complessità dei problemi, l'irrisione verso la prudenza necessaria ad affrontarli, l'insofferenza per le strategie "lente", razionali (e nonviolente: ma questo sarebbe ancora un altro discorso). O l'assuefazione graduale che ci rende via via meno insopportabile la guerra, che evita ogni effetto sorpresa, ogni shock, ogni trauma (dopo quello, inevitabile, iniziale), che neutralizza ogni possibile destabilizzazione, ogni crisi. Così quella in guerra si avvia a diventare un 'identità_solida e stabile, lontana dai vuoti e dalle incertezze che stavano caratterizzando gli italiani all'inizio degli anni Novanta. (A conferma del contributo decisivo ma anche subalterno dei· media, si°può accennare che il loro ruolo nella guerra ha mancato completamente ogni intervento informativo e si è ridotto precisa-· mente a questo: produrre semplificazione, favorire assuefazione). Per azzardare una registrazione immediata delle trasformazioni in corso, la situazione - lo stato men~ale·del paese - mi • s_embraquesta. L'elemento di novità è forte. Va ricordato però che tendenze in questa direzione erano già evidenti nella vita sociale e politica italiana degli ultimi anni (per esempio nella vicenda legislativa sulla droga, modello aureo di schematizzazione e governo drastico della contraddizione). Ma da questo punto di vista non si può trascurare quanto sia formidabile la capacità di un'esperienza estrema e collettiva come la guerra di dare impulso e popolarità a un sistema di gestione delle emergenze sociali, politiche, civili, fondato sulla brutale semplificazione dei problemi e delle soluzioni. Un sistema che l'affermazione della sequenza violazione-ultimatum-guerra (e pof "operazione di polizia" -guerra limitata-guerra totale) non può che rafforzare. Va aggiunto che questa nuova, embrionale cultura le sue prime prove le sta già facendo. Per esempio ha già individuato i gruppi sociali estranei, le forze mentali nemiche che sta combattendo con le sue armi. Basta considerare come, dopo anni di discussioni, tentennamenti, esitazioni, si è "risolto" a Roma il dramma dell~ Pantanella (ossia il problema dell'immigrazione, clandestina e no). L'incredibile gesto autoritario e "decisionista" dello sgombero violento senza alcuna valida misura alternativa è precisamente il modello di soluzione cui non può che alludere una cultura di guerra: E se forse quella scelta raccoglie anche simbolicamente un forte desiderio di atti radicali, senza titubanze, compromessi, debolezze, un provvedimento del genere, nella · forma più ancora che nella sostanza, sarebbe stato improponibile fino a poche settimane fa perché impensabile al di fuori di una mobihtazione e una cultura di guerra (con la conseguente sempli-
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