Linea d'ombra - anno IX - n. 58 - marzo 1991

del mio modo di vedere: quegli esseri si lagnavano tutti. Il cassettone cominciava: col dire: "sono così pesante, pieno di abiti vecchi, i cassetti cigolano quando vanno avanti e indietro e mi graffiano tutto, sono impolverato ..."; e le doghe del parquet: "che dovremmo dire noi? Sopportiamo il tuo peso, tu ci schiacci, e poi c'è quella cassa da imballaggio ..." Erano un mucchio di scontrosi, egoisti e brontoloni. Ma probab1lmente erano fatti così. Quando mio padre si risposò avevo compiuto solo quattro anni, ma dovetti presto badare a un fratellino più piccolo e poi a un altro ancora; presto divenni la dondolatrice di culle e la messaggera, quella che cantava le ninnananne e raccontava le favole. Non le ricordQ però. Il racconto ha qualcosa di magico. Se in un gruppo di persone qualcuno dice "Canterò una canzone" a chi interessa? (forse nel Galles o in Russia se ne "interessano). Ma se uno dice "Vi racconto una storia; è successa proprio a me" allora tutti l'ascoltano. È la stessa passione che ha generato i cantastorie dei bazar, che incanta i folcloristi e che ci inchioda a guardare quelle vili, contorte, contratte e sterili storie alla Tv. È la speranza di riconoscere e farci spiegare la nostra esperienza. Offrjte una chance agli scrittori, create periodici, aprite rubriche (per scrittori intendo tutti, non i professionisti, ma chiunque abbia bisogno di raccontare quel che gli è capitato un giorrio) e non avranno fine le storie con tutto ciò che significano e che le rende vitali-1 'esperienza autentica e un punto di vista personale. Non è necessario che un racconto sia artistico o segua una formula, o somigli a Cekov, o all 'ultirna moda metropolitana o che so io. La bellezza di un racconto è nella sua verità e nel significato che ha per una data persona: è lì la sua efficacia. · Ogni volta che si è data la possibilità di registrare questo genere di esperienze personali, familiari o di lavoro si sono viste centinaia e centinaia di storie nuove e di immenso interesse per le persone cui erano destinate- abitanti della provincia, membri di un sindacato, disoccupati, anziani e malati, sconosciuti. Non importa scrivere capolavori. L'idea di-capolavoro lasciamola ai professionisti; per noi l'essenziale è la sincerità, l'autenticità. Ma guardate soltanto le raccolte che apparvero negli anni Trenta: non sono tutti racconti memorabili (qualcuno sì, però) eppure tutti fissano la realtà di un periodo in cui l'America soffriva e cercava uno sbocco, e rifletteva sul suo destino; e - guardate quei racconti oggi - sono un ricordo vivido, insostituibile: Ecco cosa c'è di buono in un racconto: è la vita vera di tutti; e tutti hanno quaicosa da raccontare. Raccontare è una magica necessità per la nostra felicità. In Occidente nessuno conosceva Le mille e una notte, finché non furono tradotte dall'abate Antoine Galland in Francia. Furono un successo strepitoso. Giovanotti alla moda si raccoglievano attorno alla casa dell'abate per fargli visita; e quando compariva gridavano "Dicci un'altra storia, abate; ancora una storia!" (ma succede anche a New York, di sera, quando, l'ho visto con i miei occhi, si riuniscono gli amici e raccontano il loro infinito, notevole folclore.) La sensazione, che ci assale in momenti strani, momenti rnmantici e tragici, che la vita sia un sogno e che noi, i sognatori, viviamo delle visioni, che cos'altro è se non il desiderio di una grande leggenda, una storia poderosa che penetri ogni cosa e che ci. spieghi la vita; e dopo averci dato il senso delle cose le colleghi tutte come il filo di una collana? A quel punto non SAGGI/STEAD saranno più sogni, ma la vita vera guardata in pieno giorno. E così, qualche tempo fa, sentendomi sola, ho pensato di · iscrivermi a un club. Ce n'erano per collezionisti di francobolli, per collezionisti di monete (non voglio dire i bancari), per escursionisti, per anziani, e perfino un club di scrittori; quest'ultimo, mi parve di capire, organizzato da un intraprendente agente letterario. C'era una società chiamata UNO (che faranno mai?) e tante altre ancora. Alla fine trovai un piccolo circolo sociale di quartiere e mi iscrissi. Sebbene fossimo molto vicini a Londra, compresi nella sua rete stradale, avremmo tranquillamente potuto essere in una lontana città di provincia, un banalissimo gruppo che rivedeva vecchi film, invitava ogni tanto un.ospite straniero e aveva un modesto buffet, per lo più birra ·è panini. Solo il tesoriere pareva attivo, 1.masorta di lombrico lungo, scuro e snodato, il tipo del maestro di campagna, che organizza la vita intellettuale dei paesetti. Eravamo sotto Natale e proposero, non avendo denaro (e in realtà non çercandone nemmeno), di festeggiare tra noi - con i film, la lotteria, il banco dei regali e infine ... ognuno avrebbe raccontato una storia. Che paura! Ecco che cosa capita a entrare in un club. Che potevo raccontare io? Un Natale che non dimenticherò mai? (New York, Losanna, Sydney)? Un'intensa favola alla maniera dei Grirnm come "L'osso che canta" (una riscrittura di Caino e Abele)? Oppure la trovata di quell'acuto scrittore franco-ameri.: cano che è Julien Green, che ci_asCUf!Odi noi è influenzato, se non addirittura formato per la vita, da una favola appresa nell'infanzia? Era una "inchiesta" che avevo già fatto. Un economista era stato colpito da piccolo da "I fabbricanti di sale" (perché il mare è salato). Un re aveva mandato a chiamare dei fabbricanti di sale; la loro nave affondò, ma loro continuarono a macinare sale. Io ero stata ammaliata dalla leggenda di Orlando e Oliviero. Non so quante volte avevo letto l'episodio di Roncisvalle; e nella mia vita interiore c'è sempre stato un Orlando in cerca di un Oliviero. Ma le cose andarono assai diversamente. Il tesoriere si alzò dietro al piccolo tavolo da cucina che avevano messo nel mezzo; voleva cominciare lui, ma non raccontando una storia, bensì recitando una poesia che aveva imparato a scuola e che lo aveva soggiogato allora e per tutta la vita ("A scuola non ero bravo, sebbene i miei genitori facessero ogni sorta di sacrifici per me; non riuscivo a imparare niente a memoria, ma questa la imparai"). Era "Abou ben Adhem". Dopo di lui una donna lesse una storia lunga e scritta con cura intorno a un fatto accaduto in una locanda; era successo a lei. Era una storia di carattere irlandese; e dopo di lei il marito, un insegnante gallese, raccontò, tirandola molto per le lunghe, una vicenda che era realmente avvenuta al suo paese, nel Galles. Non credevo alle mie orecchie - mi guardai àttomo imbarazzata. La conoscevo già. L'avevo sentita a New York, e ora mi si ripresentava come un progenitore di quella storiella, una sorta di selvaggio lanos·o e sdentato, rriacon un finale rispettabile. Come aveva fatto quel raccontino da due soldi ad arrivare fin nel cuore del Galles? Poi si fece avanti un altro narratore, di prepotenza - non c'era modo di fermarli. Balzavano in piedi, alzavano la mano, dicevano "Desidero ..." La ragazza della locanda, l'insegnate gallese, volevano tutti parlare un'altra volta. Li dovemmo rintuzzare. E nel frattempo mi era venuta in mente una storia splendida, 75

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