Linea d'ombra - anno IX - n. 58 - marzo 1991

Tel Aviv, 19 gennaio, dopo la caduta di un missile iracheno (foto di Ricki Rosen/ Saba-Rea/ Contrasto). palestinese e una buona integrazione di quella rimasta nel nuovo stato (soprattutto in Galilea). Ali' indomani della guerra del '67, divampa immediatamente in Israele la discussione sul destino dei territori occupati. Moshe Safdie, architetto canadese di origine israeliana, nel libro Jerusalem - the Future of the Past, racconta di un progetto, sviluppato per conto del ministero delle Abitazioni allora diretto dal laburista Mordechai Bentov, volto alla creazione di una serie di moderne città da destinare agli abitanti arabi dei territori occupati in sostituzione dei campi profughi nei quali si trovavano ancora, causa la persistente e colpevole volontà di negare loro una civile integrazione da parte dei paesi arabi ospitanti. Il progetto, teso a disinnescare le tensioni sociali provocate da un'auspicata annessione dei territori, viene respinto da Gol da Meir, ostile a un investimento di tali proporzioni in aree dall 'incerta attribuzione futura. All'estremo opposto Jeshajahu Leibowitz, partendo da considerazioni legate non ai rapporti interstatuali ma alla difesa del carattere ebraico dello stato di Israele- ivi compreso l'imperativo di non opprimere altri popoli- scrive, nei giorni immediatamente successivi alla guerra: "Il problema non è il territorio, ma la popolazione di circa un milione e 250.000 arabi che vi risiede e alla quale dovremo imporre la nostra sovranità. Estendere l'ambito del nostro dominio politico a questi arabi (in aggiunta ai trecentomila già cittadini dello stato), significa la liquidazione dello stato di Israele quale stato del popolo ebraico, la totale rovina del popolo ebraico stesso, il crollo delle ILCONTESTO strutture sociali da noi create nello stato e la degenerazione del!' uomo ebreo come del!' uomo arabo". ,Come tutti sanno, non vengono attuati i progetti di Bentov, ma neppure ascoltati i moniti di Leibowitz, mentre nei fatti procede una convivenza non pianificata che, nel giro di vent' anni, condurrà ali' esplosione dell'Intifada e alla rivendicazione della separazione. A quel punto i tentativi - di israeliani e palestinesi "dell'interno" - volti a congegnare soluzioni tendenti alla coesistenza fra le due comunitànell 'ambito di un'entità di tipo federativo capace di salvaguardare i diritti di entrambi vengono definitivamente liquidati. Ho visitato, il giorno che ha preceduto l'inizio dei bombardamenti americani sull 'lrak e sul Kuwait, una zona dei territori occupati all'interno della quale non sorgono città importanti o campi-profughi (ove, naturalmente, si sviluppano le tensioni maggiori): ho lambito diversi villaggi arabi, con abitanti dediti principalmente ali' agricoltura; sono infine approdato a un insediamento ebraico, impiantato· grazie all'esproprio di una fascia di terreno collinare, i cui residenti si recano quotidianamente a lavorare nella regione di Te! Aviv (25 km di distanza circa). Malgrado i problemi indiscutibilmente presenti, non ho ricavat9 la sensazione di una convivenza impossibile neppure dopo oltre vent'anni di occupazione e due di Intifada, e ciò mi ha indotto a pormi ìl quesito se la parola d'ordine "due popoli due stati", abbracciata dall'Olp come dai pacifisti israeliani (e· immediatamente riecheggiata in Occidente), abbia realmente rappresentato un passo avanti oppure, al contrario, una troppo sbrigativa liquidazione della prospettiva di un'integrazione di tipo federativo, al di fuori della quale la rivendicazione della separazione, stante il contesto geografico, non è che la riproposizione mascherata di un conflitto insanabile. 13

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