IL CONTESTO Israele ha assunto ·nell'immaginario arabo. Tale carattere è risultato funzionale prima allo sviluppo dell'ideologia panaraba - un cui corollario è la fuga della pressoché totalità degli ebrei da paesi arabi ove avevano vissuto per secoli dopo la cacciata dalla Spagna - poi ali' occultamento delle vere ragioni del suo fallimento. Certo, l'Occidente non ha granché contribuito a un diverso esito del contenzioso: anziché accostare il contesto mediorientale con un'attenzione specifica alle complessità culturali ivi presenti - con l'obiettivo di valorizzare le risorse e le energie locali - si sono attivati progetti di cooperazione il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti. Analogamente, la certo encomiabile solidarietà che si è sviluppata a partire dalla fine degli anni Sessanta nei confronti · del popolo palestinese (e, purtroppo, solo di quello) non ha compiuto quel difficile eppure indispensabile passaggio che consiste nella comprensione della poliedricità della situazione. Se quello sforzo di lettura fosse stato intrapreso, si sarebbe forse concluso che parole d'ordine e proclami lanciati in forma assertiva dai governi arabi o dalla resistenza palestinese somigliano, per così dire, al primo prezzo dichiarato nel suk per una qualunque merce: non l'espressione di un orientamento strategièo, ma il termometro di un equilibrio temporaneo, destinato a essere superato nel momento in cui la risultante delle forze in gioco si trovi a cambiare direzione. Al contrario, si sono spesso abbracciate acriticamente ideologie terzomondiste di comodo, amplificando parole d'ordine unilaterali e contingenti, dettate dall'esasperazione oltreché da un calcolo momentaneo, enfatizzando i diritti nazionali di un popolo e chiudendo pigramente gli occhi alla vist;:tdi altri - valga per tutti l'esempio dei kurdi - le cui aspirazioni si . trovavano a essere altrettanto frustrate, e soprattutto ignorando la frequente assenza dei più elementari diritti democratici nei paesi arabi, dominati da oligarchie disinvoltamente definite "borghesie nazionali". Insomma, la partecipazione al contraddittorio processo di emancipazione in atto nel mondo arabo non è mai riuscita a superare i due atteggiamenti opposti e complementari della considerazione fondamentalmente razzistica (e non antropologica)- "degli arabi non ci si può fidare", "la democrazia non è fatta per gli arabi", "si ammazzano fra di loro"- da un lato,. e l'esaltazione del panarabismo o successivamente panislamismo, dall'altro. Non si è,contribuito purtroppo, in questo modo, alla maturazione dei popoli della regione, inducendo gli arabi all'accettazione del diverso - ebrei, kurdi, ecc. - da una parte, e gli israeliani a misurarsi con l'insuperabile mobilità dell'atteggiamento arabo, frutto non di falsità ma di una cultura che non riconosce la costanza nel rispetto della parola data come valore. In questo modo non si è neppure lavorato a fare delle differenze culturali, certo sempre problematiche, un elemento di arricchimento, ma, al contrario, sono state rese sempre più motivo di insanabile conflitto, facendo in modo che le componenti che avrebbero potuto fungere da trait d' union - come i palestinesi e gli israeliani in precedenza cacciati dai paesi arabi - finissero per approfondire il solco. Il cammino dell'integrazione Il rifiuto da parte araba della spartizione della Palestina in due entità nazionali - ebraica e palestinese - stabilita dall 'Onu nel '47 e la conseguente, unanime aggressione al neonato stato di Israele da parte di tutti i vicini e amici nel '48 determinano, com'è noto, l'espulsione massiccia di parte della popolazione 12 Ancora Sta ridacchiando mentre dice qua\cosa sulla "riunione dei rabbini", mentre mi avvicino al gruppo. Si accorge della mia presenza perché domando quale altra riunione ci sia stata alla stessa ora deÌla conferenza stampa della Antidifamation League della comunità ebraica statunitense, e allora cerca di correggere: "No, solo quella lì... C'era quel rabbino che non mi ricordo come si chiama". Siamo in pochi, i giornalisti italiani riusciti a trovare posto tra la folla di colleghi d'altri paesi che riempiono quest'albergo molto bello nella parte araba di Gerusalemme, tradizionalmente scelto da parecchi come forma di schieramento con i palestinesi. Nel piccolo gruppo l'.ariaè perlopiù di simpatia verso Saddam Hussein, con discorsi che spesso si aprono con la premessa "Certo è un gran figlio di puttana, ma ..." A pranzo la signora di cui sopra racconta per la terza volta con il tono usato per gli aneddoti divertenti: "Sapete dove vanno a finire le maschere antigas rubate? Le comprano degli israeliàni per quindici o venti dollari e le rivendono ai palestinesi per duecento". Anche le volte precedenti aveva detto "israeliani". Interviene a un certo punto uno del nostro "servizio pubblico", chiaramente per far piacere a un altro che gli siede vicino: "Ma perché gli ebrei non si sono fatti il loro.stato in Florida?" Viene a trovarmi nel pomeriggio un amico israeliano di sinistra, promotore infaticabile di iniziative in collegamento con i palestinesi e di proposte di dialogo con l'Olp. Verso la fine della nostra chiacchierata mi parla con tristezza di quelli che dall'Italia lo chiamano spesso per chiedergli un'opinione su qualche avvenimento o pezzi da pubblicare ma che trovandosi in· Israele non sono mai andati a vedere le cose che sta facendo. Dice poi di avere constatato in quei giornalisti , ogni volta che arrivano in lsraele, un atteggiamento caratteristico: invece di informarsi di quanto succede per poter poi informare, cercano solo ciò che è utile a confermare quel che hanno già deciso di scrivere. Mi domando se qualcuno del gruppo italiano in albergo avrà riferito certi fatti di queste ultime settimane che, se appresi nel nostro paese, potrebbero scompigliare immagini ormai radicate: qualcuno forse avrà parlato della delegazione di tutte le comunità libanesi venuta in Israele per esprimere solidarietà dopo i primi attacchi missilistici iracheni, i beduini in visita al sindaco di Ramat Gan per lo stesso motivo, la rappresentanza dei palestinesi israeliani che ha offerto ospitalità ai concittadini ebrei le cui abitazioni sono state distrutte dai missili? Certo, rappresentativa del dramma palestinese-io continuo a scriverlo-è la situazione dei territori occupati, con la gente costretta tutta dal coprifuoco a restare chiusa in casa per settimane; è chiaro ancora una volta lo scontro tra l'aspirazione na"zionaledi un popolo e il rifiuto a riconoscerne la legittimità da parte, oggi, di un governo israeliano ultranazionalista e di estrema destra. Ma è forse giusto ignorare giornalisticamente ogni cosa che non metta in rilievo tale scontro? Interrompe i miei pensieri uno del gruppo che arriva eccitato con i I testo del discorso appena tenuto dal primo ministro Shamir ai dirigenti di una organizzazione ebraica: "Dice che si deve fare il Grande Israele!". Inutile segnalare a quelli accorsi a leggere la frase inerì- · minata che c'è soltanto scritto "Eretz Israel", ~ormalissima utilizzazione tra ebrei del nome storico di questo paese ("Terra di Israele"), quello che per loro non aveva designazioni alternative prima che si creasse lo stato, salvo ricorrere a quelle altrui di Pale.stinao Terra Santa. Sono già andati tutti a scrivere con rabbia i propri pezzi. Da qualche giorno sento freddezza attorno a me. Mi dice con tono esperto un giornalista anziano, che non fa parte degli "arrabbiati", di sentire anche lui lo stesso atteggiamento nei suoi confronti. Aggiunge: "Te, poi, ti considerano schierato." Che vuol dire? "Sei ebreo." (J. S.)
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