INCONTRI/HERLING insieme a "Kultura ", Napoli è indissociabile dall'opera di Herling; dalla storia della città, lo scrittore polacco, sa estrarre le sue metafore. Negli ultimi mesi, trascorsi tutti a Napoli a causa di una malattia, so che lei ha scritto un racconto che s'intitola La peste di Napoli. È basato sui fatti, sulle cronache, sulle testimonianze che mi sono state fornite sulla peste davvero accaduta all'epoca della rivolta di Masaniello, ma è probabile che i lettori polacchi lo leggeranno in filigrana come un racconto contro lo stato di guerra, impiantato da Jaruzelski ne11'81, che potrà essere scorta nella figura del viceré spagnolo di Napoli che invoca l'arrivo della peste per mettere le cose a posto tra i popolino napoletano esaltato dal moto di Masaniello. Così come ogni polacco che ha letto Il miracolo (di recente ristampato in Due racconti da Scheiwiller), ha capito subito trattarsi di un racconto che evoca Solidarnosc, e Masaniello è stato considerato una specie di Walesa. Ma, anche se poi inmolti non mi credono, solo in un secondo momento, a stesura avanzata, divento cosciente delle straordinarie somiglianze tra questi racconti e le vicende polacche. È importante sapere che la maggior parte dei racconti di Herling si trova all'interno del suo diario, (4 volumi nel 'edizione polacca) la cui edizione francese, Journal écrit la nuit, è staia· pubblicata un anno fa da Gallimard. Scrivevo da tempo questo diario, ma ho cominciato a pubblicarlo quando è morto Gombrowi,zc che ne teneva uno suo su "Kultura": il mio diario ha riempito quel vuoto. Non si tratta naturalmente di un diario intimo: una cosa del genere non interessa a Herling, e basta leggere lepagine dedicate al diario di Pavese per capirlo; un testo fratello potrebbe essere semmai Nero su nero di Sciascia, o Diario notturno di Flaiano, pubblicato sul "Corriere della Sera". È proprio un diario notturno, perché io lavoro bene di notte e perché la visione è un po' notturna. Sono giunto alla scelta del diario, che mi permette molta libertà espressi va, perché mi pare che siamo arrivati al punto in cui il romanzo non funziona più, come funzionava nel secolo scorso. O funziona solo se è un romanzo storico: i grandi romanzi degli ultimi decenni, come quelli di Pasternak, Marquez e Tornasi di Lampedusa, sono romanzi storici. Anche in scrittori che ama molto, quel che riesce ancora ad avvincermi, non sono i loro romanzi, spesso noiosi, ma i racconti. Si pensi a Henry James o a Stendhal, che di sicuro era un grande , romanziere, ma il cui capolavoro assoluto mi sembra risiedere in Vanina Vanini, venti paginette in tutto. Un altro caso eclatante mi sembra quello di Solzenicyn: se uno storico futuro della letteratura vorrà dare risalto alla sua opera, più che al benemerito Arcipelago, dovrà volgersi al racconto La casa di Matriona. Insomma proprio non vedo romanzi nuovi in giro, neanche all'Est. L'immortalità, ultimo e consacrato libro di Kundera, mi sembra, ad esempio, un equivoco: si tratta solo di un libro ben congegnato e basta, molto lontano da. Lo scherza, sua prima opera, che è l'unica a valere davvero. Tra gli scrittori che ama,. lei ricorda spesso Camus, e in particolare Lo straniero. 72 È un libro bellissimo, ma il mio scrittore è di sicuro Franz Kafka: è geniale; è capace di dire tutto in mezza pagina: e, per tornare alla nozione di romanzo, libri come Il processo o Il castello sonodei romanzi? Ame sembra che Kafka avrebbe potuto benissimo inserirli nel suo diario. Che accoglienza hanno avuto i suoi libri in Italia, soprattutto Un mondo a parte? Un mondo a parte, bisogna parlar chiaro, fu quasi ignorato. Uscì prima da Laterza, nel '58, che lo stampò, per così dire, per ragioni di famiglia, contro il suo volere, tanto da non distribuirlo per nulla; poi, nel '65, riuscì da Rizzoli. Certo, ricordo le recensioni di Paolo Milano su "L'Espresso" e di Leo Valiani, che fu un grande ammiratore di questo libro. Ma si trattava di cose abbastanza isolate. Perché? Perché bisogna ricordarsi che in quegli anni la cultura italiana era molto influenzata dai comunisti: la mia voce era dunque stonata. Ricordo che un altro mio librodi racconti fu recensito da "Paese Sera", e l'articolo finiva · con un suggerimento dell'autore di espellermÙiall'Italia. La situazione era questa; cominciava un po' a cambiare, ma ci volle parecchio tempo, anche dopo i fatti di Ungheria, perché cambiasse davvero. Posso raccontarle un episodio: mi trovavo a Roma con Nicola Chiaromonte, al bar Rosati, quando entrò Carlo Levi, che era amico di Chiaromonte già dai tempi dell'esilio. L'argomento del giorno era proprio la rivoluzione ungherese. Levi domandò prima di tutto se poteva sedersi con noi, e una volta seduto attaccò subito discorso, rivolgendosi a Nicola, perché a me non mi conosceva, e disse: mi interessa sapere quanti soldi gli americani hanno speso per fare la rivolta di Budapest; al che Nicola, che era un uomo impulsivo, s'alzò e lo mandò via in malo modo. Racconto questo episodio perché mi sembra emblematico: allo stesso tavolo, ecco due antifascisti che hanno sofferto insieme l'esilio, e nel '56 avviene una scena simile. Non ci sono dubbi che Chiaromonte fosse in minoranza, la gran parte aveva atteggiamenti simili a quelli diCarlo Levi.D'altronde una frase quasi uguale lasentii pronunciare, a Napoli, dal professor Francesco Flora. All'appuntamento romano con Chiaromonte, lei era andato per parlare di una nuova rivista, "Tempo presente", alla quale, dal '56 in poi, collaborò assiduamente, sentendolo come uno dei rarissimi luoghi di quegli anni dove sentirsi a casa propria. A dirigere la rivista, con Chiaromonte c'era Ignazio Sifone, che diventò ·suo grande amico. Si è molto discusso di recente di una "dittatura culturale" di quegli anni, magari daparte della Einaudi. .. Lei che ne pensa? · Non so se dell'Einaudi, ma di una "dittatura culturale" si trattò. Io ero straniero, e vada, ma ricordo che Silone e Chiaromonte venivano considerati in certi ambienti come degli scrittori quasi non italiani. Oggi i tentativi da parte' dei comunisti di riprendersi Silone fanno un po' ridere ...Una volta Silone mi raccontò che dopo il rapporto Kruscev, ci fu, a Roma, una conferenza stampa di Paietta che, incalzato dalle domande dei giornalisti, disse che era inutile prendersela con loro, perché certe cose le aveva già dette da tempo il compagno Silone. Ed era davvero paradossale: una persona espulsa dal partito, alla quale non si dà nemmeno la mano, che di colpo era ridiventato il "compagno" Silone.
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