Linea d'ombra - anno IX - n. 57 - febbraio 1991

CONFRONTI della finitudine mirante, al limite, a riaprire una prospettiva metafisica capace di dar conto dell'esperienza del tragico e di riconoscere in qualche modo l'immensa forza del male senza che a essa sia lasciata l'ultima parola, quest'idea resta del tutto fuori dal suo orizzonte. Dando prova di una sensibilità molto vicina a quella di Bonhoeffer, egli dichiaratamente rigetta ogni tentativo mirante a "imboccare la via del ritorno", a cercare un impossibile ''punto d'appoggio", una qualche garanzia che come tale non può più esistere. · 3. Fede cristiana e problema del senso L'"uomo dell'epoca nichilistica", che ha rinunciato al fondamento dell'essere garantito dalle metafisiche, esplicite o implicite, è in realtà per questo aspetto assai più vicino di quanto forse non sappia alla fede cristiana che attinge alla Rivelazione biblica. Qui Gollwitzer compie il massimo sforzo per tagliare alle radici la supposta identità fra Dio della metafisica e Dio della Rivelazione. Solo a uno sguardo superficiale, infatti, la fede di Israele può essere caratterizzata con il ricors_o al termine "monoteismo". La condizione dell'uomo biblico si rivela, piuttosto, vicina a quella dell'uomo post-metafisico in quanto entrambi non si ritrovano in continuità con alcun essere ultimo permanente. Un tratto dunque accomuna fede biblica e nichilismo, in quanto esperienze entrambe di una discontinuità che comporta una radicale sdivinizzazione del mondo. "Le asserzioni posi ti ve della fede biblica( ...) derivanp da una nuova e diversa determinazione dell'unità di vita e di senso, che non si fonda sulla continuità del finito con l'infinito, bensì prospetta per prima nettamente la discontinuità fra il finito e l'infinito. Questa prospettiva segna il punto di contatto con il nichilismo e il punto di maggiore distanza rispetto alla metafisica classica e all'idealismo in genere. Le cose però( ...) non stanno in modo che nella fede biblica si esperisca dapprima la nullità e poi il suo superamento( ...) Se così fosse la fede si lascerebbe consigliare come una ricetta per supera~e il nichilismo, cosa che spesso avviene, ma che è tuttavia sospetta( ...) La fede invece nasce là dove ci si imbatte nella promessa dell'alleanza" (Legno storto, pp. 187-188). Per un autentico confronto con il nichiliANTOLOGIA Lapazienza di Giobbe Helmut Gollwitzer Si può comprendere la pazienza in due modi: come l'apatia dello schiavo che ha disimparato a ribellarsi, come l'ottusa pazienza delle pecore, come la resa senza resistenza che rende incapaci di cambiamento e pertanto viene insegnata come virtù da chi ne ha interesse, nello stesso momento in cui si considera la rivolta qualcosa di peccaminoso. In realtà Giobbe non si adatta a questo schema, e per questo il libro di Giobbe è stato considera_to da bravi teologi, che comprendevano la fede come stare bravi, come un libro pericoloso, di fronte a cui non ci si poteva non stupire che fosse entrato nel canone. Pazienza, nel senso biblico della parola, però, non ha tanto a che fare con sopportazione, come sembrerebbe indicare il termine tedesco (Geduld-dulden = pazienza-sopportare); il termine neotestamentario è formato dal verbo "restare": hypomoné = restare sotto, e cioè sotto un peso addossatoci. In effetti si potrebbe trattare pur sempre della virtù dello schiavo, desiderata dalla classe dominante, ma il legame con gli altri usi del verbo "rimanere" nella modalità linguistica neotestamentaria, come pure la connessione di pazienza e speranza, di "rimanere sotto" e "àttendere", mostrano che non si tratta mai soltanto del rimanere sotto il peso, ma sempre contemporaneamente del rimanere sotto la parola, sotto la promèssa, sotto la chiamata: tener fermo tenacemente, saldamente a essa, non lasciarsi stornare da essa nonostante tutte le avversità, non cercare di alleggerirsi del peso o di scaricarselo completamente rinunciando alla chiamata. Questa pazienza non si contrappone tanto all'impazienza - infatti, come tenace perseverare nella speranza, può essere molto smo occorrerebbe dunque passare dalla nozione di Dio quale sommo garante dell'ontoteologia all'immagine del Dio biblico che si presenta come voce, che esprime una promessa, parola che propone al suo popolo un'alleanza. A Mosè nel roveto ardente (Esodo, 3), la voce si presenta in termini che sono stati correntemente intesi come: "lo sono colui che sono". Questa pretesa autonominazione di Dio è risultata storicamente decisi va per l'idea di una metafisica cristiana: si pensi alle pagine in cui Etienne Gilson mostrava, ancora qualche decennio fa, come tutta la filosofia di Tommaso d'Aquino si potesse leggere a pa1tire dalla sua riflessione attorno allo "lo sono colui che sono". Gollwitzer fa leva invece su _orientamenti esegetici contemporanei - valorizzati fra gli altri da Ji.irgen Moltmann in una direzione affine - per mostrare come la formula "Ehje aser ehie" debba essere intesa o come un'espressione di segno negativo, mirante a rigettare ogni pretesa di denominare Dio (quindi: "lo sarò colui che mi mostrerò di volta in volta"); o come la promessa di una compagnia e di un soccorso in cui Israele è chiamato a confidare (in questo senso: "lo sarò là come colui che io sarò là"; "lo sarò là (per voi)", nella traduzione di M. Buber). Il messaggio che la voce proclama è dunque lontanissimo dalla compiaciuta affermazione della.piena e perfetta coincidenza in Dio di essenza ed esistenza; in una formula, lo sguardo deve spostarsi dalla ,-protologia ali' éscaton. La nozione di Dio non diviene per altro con questo più accessibile, più familiare, più credibile. Il termine Dio si è infatti talmente opacizzato nel corso del tempo, che non può certo bastare ora un accorgimento esegetico per riconsegnarlo all'attualità: non perché la noziòne ci sia divenuta astrusa, ma perché essa è ormai talmente scaduta nell'ovvio che non si riesce neppure ad avvertire come il termine potrebbe essere . legato all'espressione di una promessa (quale? e per chi?). 4. Grazia e storia La "riqualificazione" di Dio potrà dunque avvenire, forse, solo a partire da un nuovo linguaggio della prassi. Ma prima di arrivare a questo punto della proposta teologica di Gollwitzer, può essere utile bene connessa a un'ardente impazienza, cosa che la seconda lettera di Pietro esprime particolarmente bene con il suo nesso paradossale: "Attendendo e affrettando" (3, 12)-, quanto piuttosto alla mancanza di speranza, alla rassegnazione. In realtà quindi una virtù di cui non può fare a meno nessuno che lotti per .l'umanizzazione della società umana, che cioè abbia riconosciuto il socialismo come sua chiamata. In questo Bloch ha visto giusto: Giobbe non è affatto rassegnato: Appunto per questo però egli è l'esempio della pazienza, della vera pazienza, di chi ostinatamente persevera a guardare avanti, di chi non si rassegna, di chi è chiamato a una promessa ricevuta e non si lascia ridurre al silenzio (pp. 205-206). È vero: lo spazio al di fuori è nell'oscurità. Non ne sappiamo nulla né abbiamo idea di ._cosa sia; ir;ifatti ciò che sappiamo e percepiamo' il mondo privl'i di senso e l'eternità del tempo senza fine che si ripete all'infinito, Ma stiamo ben certi: la promessa per comprendere e trasmettere la quale la teologia deve impiegare tutte le sue energie non ci permette certo di sapere e di farci un'idea, ma vuole raggiungere proprio questo, che non ci rassegniamo al mondo che conosciamo. Vuole renderci insopportabile la definitività di questo mondo. Nel far ciò si imbatte nella nostra rivolta contro questa definitività, la incoraggia a tener duro. "Sarebbe morto chi° fosse d'accordo col mondo qual è". Questo è valido ben al di là della critica del mondo sociale. Bisogna farla finita con la fede nella morte, bisogna cioè avere il coraggio, spinti e sostenuti dalla promessa, di pensare al di là dei limiti di questo mondo di morte cui la vita è estranea, bisogna prendere sul serio il fatto che la promessa in persona è la "luce del mondo" (Gv 8,12), e non solo la luce dell'anima, e quindi parlare della vita con parole tratte da questo mondo di morte. (p. 281) da Legno storto Incedere eretti, Marietti 1988. 37

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