Linea d'ombra - anno IX - n. 57 - febbraio 1991

IL CONTESTO dava. Restare ancorati ad una spiegazione del successo del Pci in termini sovietici, vuol dire rimanere prigionieri post-factum del conflitto ideologico proprio della guerra fredda. Vengono in luce qui il taglio politico piu che storico e l'impianto rigidamente modellistico di Cafagna: il legame con l'Urss è una variabile indipendente; e statico è, di conseguenza, lo scenario internazionale nel quale si svolge la storia d'Italia. Se la risorsa Urss non ha negli anni Sessanta e Settanta lo stesso segno rilevante e positivo che aveva nel ventennio precedente, lo stesso vale infatti per i riflessi dei rapporti e delle tensioni internazionali. Nel primo dopoguerra prevalse un riflesso difensivo ( difesa della pace, della spa11jzione di Yalta, dello status quo europeo, dei nuovi regimi rivoluzionari tipo Cina, del "diritto" dell 'Urss a circondarsi di un cordone di democrazie "popolari", ecc.), che permise di ·creare un vasto blocco attorno alla superpotenza sovietica e quindi al Pci. Proprio in questo, tuttavia, consisteva il limite insuperabile al consenso sul terreno "internazionale" che i comunisti potevano ottenere, per tacere della semplificazione di giudizio di cui furono oggetto gli Usa e le democrazie occi-· dentali. Successivamente, almeno a partire dalla responsabile risposta di Kruscev alla crisi dei missili, il consenso si allargi'/attorno ad una piattaforma antiamericana (che comprendeval 'antimperialismo terzomondista e il pacifismo cristiano, i fautori della coesistenza democratica e i partigiani dell'allargamento del campo socialista). L'ambiguitàdell 'atteggiamento del Pci verso l'Urss, entro questa nuova cornice, fu secondaria, tollerata e "perdonata" da un'opinione pubblica democratica per cui l 'Urss non era più il baluardo degli anni Cinquanta. ' In termini interni il discorso è in gran parte analogo. Cafagna vede bene nel "temporaggiamento permanente" una delle pt:culiarità più di rilievo del Pci. Sbaglia però, lo si è già ricordato, ad affiancarlo a una supposta strategia attendista. Di rivoluzionario la tattica comunista non ha nulla da un pezzo, e, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, neppure in termini di speranza, iUusione, immaginazione. Proprio in quegli anni, tuttavia, il Pci raggiunge il massimo dei consensi elettorali e sociali, morali e culturali. Vittima del proprio modello, Cafagna può solo, tautologicamente, valutare questi successi come il canto del cigno, come il vertice di un'ascesa a cui non può che succedere la caduta. Non sembra interessato, infatti, alla domanda che più sembra rilevante sul piano storico: perchè e come proprio allora il Pci non riuscì a utilizzare tutta la sua considerevole forza né per una trasformazione democratica della società italiana (che restava il suo obiettivo dichiarato), né per un accesso al potere cui era ormai ampiamente legittimato. Una risposta a questo interrogativo non può venire da un'analisi che riguardi solo il Pci, la sua strategia e tattica, le sue risposte alle crisi. Deve fondarsi su uno studio del ruolo del Pci nella società italiana, che metta in relazio32 ne le caratteristiche e le peculiarità di una precisa organizzazione politica (con la sua ideologia, la sua struttura, i suoi dirigenti, i suoi ' meccanismi di legittimazione ed esclusione, ecc.) con il divenire della società in cui esso opera, con le tappe di una trasformazione istituzionale, sociale e culturl\le che ha modificato in profondità il paese. Per Togliatti la strategia di crescita e temporeggiamento propria del Pci costituiva il contributo italiano al campo socialista, ma rappresentava anche l'espressione "costituzionale" delle forze di opposizione e il canale per una pressione e un condizionamento nei confronti delle forze di governo. Essa era democratica solo all'interno di questi confini e di queste ottiche, non per ispirazione interna né per. volontà programmatica. Non si tratta, qui, di avallare l'idea consolidata di un Pci scarsamente democratico o doppio (nel senso di essere pronto alla prima occasione a mostrare la sua vera natura totalitaria). Ma di sottolineare come l'iniziativa democratica del Pci avesse sempre dei contenuti e delle connotazioni particolari (contro le limitazioni e gli arbitri che venivano poste alla propria azione o a quella dei suoi referenti sociali, contro la chiusura di spazi utili alla propria strategia di temporeggiamento e di rappresentante di tutte le opposizioni). La democrazia come valore assoluto, gratuito, generale, è una conquista (se lo è compiutamente) recentissima da parte del Pci, e sicuramente non di tutto il corpo del partito. Fino a ieri la democrazia doveva sempre in qualche modo essere qualificata per aver posto legittimo dentro la linea ganerale. Non a caso il Pci si è fatto promotore del referendum sulla scala mobile (per limitare gli attacchi a una libertà dei lavoratori, suo referente privilegiato) ma è stato costretto suo malgrado a scendere in campo sul divorzio, l'aborto, ecc., quando si trattava di alla1:gare in generale la libertà dei cittadini. Su questo terreno è pressocché impossibile trovare una riflessione autocritica in Ingrao e Chiaromonte. L'autocritica, quando c'è, riguarda solo questo o quel punto della strategia del partito. È, insomma, assai parziale e tutta interna - anche in questa ricostruzione a po- . steriori- alla battaglia politica svoltasi nel partito tra le due diverse e convergenti eredità togliattiane. Si guardi, come terreno esemplicativo ma cruciale, al modo in cui i due dirigenti comunisti hanno affrontato il periodo della solidarietà nazionale. Nessun accenno, in lngrao, a quello che fu il vero banco di prova della maturità comunista all'indomani del suo massimo successo elettorale, vale a dire il governo di tutte le più grandi città italiane nella seconda metà degli anni Settanta, quando un elettore su tre votava Pci; laddove Chiaromonte si limita a raccontare aneddoti e a fornire una cronaca burocratica, priva di spessore, dei suoi rapporti con la realtà napoletana, intesa come partito napoletano. · uanto ali' appoggio al governo Andreotti, lngrao avalla con qualche dubbio il voto d'astensione del luglio '76 (trincerandosi dietro il suo nuovo ruolo di presidente della Camera), e difende decisamente il voto favorevole il giorno del rapimento di Moro. Così come fa Chiaromonte. Di nuovo tutto si risolve (meriti ed errori) nel chiuso dell'organizzazione, mentre la società è lasciata sullo sfondo a legittimare la vera Storia, quella del partito. Anche i giudizi sul terrorismo e sull'emergenza vengono riproposti senza correggere in alcun modo le posizioni a suo tempo avanzate. fl primo, secondo Chiaromonte, sarebbe figlio del la polemica estremista contro la linea del Pcie di Togliatti e dell'integralismo cattolico di opposizione, venendo sconfitto dalla fermezza che il Pci condivise allora con la Dc. Una fermezza che neppure Ingrao rimette in discussione, polemizzando duramente contro chi ha visto nelle forme con cui si realizzò la lotta al terrorismo - e cioè l'emergenza - il terreno del successivo rafforzamento moderato. La stabilizzazione moderata, per Ingrao, fu il risultato di un uso "strumentale" della lotta al terrorismo, quasi che il modo in cui essa fu impostata congiuntamente da Pci e Dc non comportasse necessariamente quello sbocco. lngrao non ignora gli effetti che ebbe la politica di solidarietà nazionale: il rilancio di una concezione repressiva dello Stato e I' attacco alle innovazioni portate dal '68 "nel campo della psichiatria, della ideologia carceraria, della sessualità, della concezione della famiglia, della libertà femminile". Li attribuisce, però, non a scelte sbagliate, ma a a una realizzazione sbagliata di. scelte giuste. Non era errata la politica della solidarietà ed i suoi contenuti, insomma, ma la sua applicazione, che restava ancora nelle mani Dc invece di passare parzialmente o in modo più robusto in quelle del Pci. Questa sottovalutazione e indifferenza ai contenuti e la parallela centralità affidata al potere di gestione riassume alla perfezione la modalità togl iattiana con cui Ingrao continua a confrontarsi. È il partito la ga{anzia, non il programma, è la sua presenza "diversa" a caratterizzare in senso progressivo una politica che di per sé può essere buona o cattiva, cioè· indifferente, nulla. Si capisce allora il silenzio sull'esperienza di governo delle grandi città dopo il '76, che ha costituito il vero terreno della sconfitta comunista, il luogo di perdita dei consensi e della fiducia, la verifica che la "strategiadell 'obesità" (come la chiama con acutezza Cafagna) era destinata a sgonfiarsi o a scoppiare se non fosse stata capace di trasformarsi in una strategia di governo, di gestione, di controllo realmente differente da quella attuata da chi.era al potere da venti o quarant'anni. È in quest'ottica così fortemente partitica (in questo consiste l'integralismo) che Ingrao riconosce la giustezza e la "forza" della linea di Berlinguer. Che riuscì "a mantenere con il Pci e attorno al Poi le forti spinte democratiche alimentate dal '68, e che poi si espressero nelle grandi battaglie civili sul divorzio, sul diritto di famiglia, sullo Statuto dei lavoratori". Ecco l'essenziale: che le nuove forze emerse nella società stessero con il Pci e attorno al Pci. Assai meno sembra contare la loro sconfitta sul terreno concreto del la trasformazione sociale e del rinnovamento politico e istituzionale.

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