Linea d'ombra - anno IX - n. 57 - febbraio 1991

FEBBRAIO1991 - NUMERO57 LIRE8.000 mensile di storie, immagini, discussioni e spettacolo

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edizionie/o NOVITA' INVERNO 1991 Christa Wolf Che cosa resta Che cosa resta è uno dei libri più importanti (e più belli) di Christa Wolf. Concepito neglf stessi anni in cui l'autrice scriveva Cassandra, rifiutato dalla censura tedesco-orientale, rielaborato dieci anni dopo per essere infine pubblicato nel 1990, questo lungo racconto affronta gli stessi temi di Cassandra. togliendo però alla narrazione il velo del mito. Una donna che non riconosce più la propria città, il proprio mondo. In Cassandra la città era Troia, qui è Berlino, il . socialismo, tutto ciò che Christa Wolf ha amato e in cui ha creduto. pp. 112, L. 18.000 Nelson Algren Mai venga il mattino Amato da Simone de Beauvoir, ammirato da Hemingway, rovinato da Hollywood, dal maccartismo e dalla sua stessa passione per il gioco, Algren è stato uno dei grandi scrittori americani del '900. "Poeta dei bassifondi". in questo romanzo racconta l'amore tra due "perdenti". un pugile e una prostituta, in una Chicago metallica e spietata. Introduzione di Kurt Vonnégut. pp. 280, L. 26.000 Bobbie Ann Mason Laggiù Un'adolescente indaga nel mondo degli adulti per scoprire cosa è stata la guerra del Vietnam, che le ha ucciso il padre e "ferito" le persone più care. Un romanzo di grande sensibilità sul mondo dei ragazzi e su quello dei veterani. pp. 240, L. 26.000 Edna O'Brien Ragazze nella felicità coniugale Vincitrice dell'edizione '91 del Premio Grinzane Cavour, Edna O'Brien fa - come ha scritto Philip Roth - per il mondo femminile irlandese ciò che Joyce ha fatto per gli uomini del suo cattolicissimo paese: una descrizione irriverente e impietosa. :pp. 168, L. 22.000 Anatolij Kim Lo scoiattolo Romanzo fiaba, come dice il sottotitolo, romanzo polifonico con personaggi dalla doppia identità umana-animalesca. romanzo ecologico, Lo scoiattolo è opera di uno dei più originali tra i nuovi scrittori sovietici, un coreano di espressione russa all'incrocio tra due culture. pp. 278, L. 30.000 ~ TASCABILI e,o M. Ageev . Romanzo con cocaina Un viaggio voluttuoso nella crudeltà, nell'umiliazione, nell'autodistruzione; sullo sfondo i rivolgimenti storici precedenti e successivi alla rivoluzione russa. L'identità dell'autore è avvolta nel mistero. pp. 176, L. 12.000 Frantisek Langer Leggende praghesi Di notte le pietre e le acque di Praga rivivono. Dal fondo della Moldava, dai ponti, dalle nebbiose viuzze della Città Vecchia, escono i vodnik (omini delle acque). le statue del ponte Carlo, il templare senza testa ... pp. 144, L. 10.000 Ai lettori di "Linea d'ombra" offriamo in omaggio il volumetto tascabile Dall'est per ogni acquisto di almeno 70.000 lire. · Edizi~ni E/O - Via Camozzi 1 00195 Roma - Tel. 06-3722829

Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcella Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lemer, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. Collaboratori: Adelina Aletti, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Batenghi, Alessandro Baricco, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgo Bert, Paolo Bertinetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Cesare Cases, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, PinoCouias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Cottinelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Del Conte, Roberto Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco; Guido Franzinetti, Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Fabio Gambaro·, Roberto Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Marcello Lorrai, Maria Maderna, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoarda Masi, Roberta Mazzanti, Paolo Mereghetti, Diego Mormorio,'Maria Nadotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Cesare Pianciola, Gianandrea Piccioli, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Fabrizia Ramondino, Marco Revelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scarnecchia, Maria Schiavo, Franco Serra, Joaqufn Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi, Egi Volterrani. Progetto grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche: Natalia Del Conte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Regina Hayon Cohen Produzione: Emanuela Re Amministrazione: Rina Disanza Hanno contribuito alla preparazione di questo numero: Giovanna Procacci, 'Edi Rabini, Martina Vergani, il Centro Studi e Documentazione D. Sereno Regis (Torino), lo studio fotografico Van Leo (Il Cairo), la Televisione della Svizzera Italiana (Lugano), gli uffici stampa delle case editrici Claudiana (Torino), Marietti (Genova) e Ubulibri (Milano). Editore: Linea d'ombra Edizioni srl Via Gaffurio 4 - 20124 Milano Te!. 02/6691 132-669093 l. Fax: 6691299 Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Te!. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie PDE - Viale Manfredo Fanti 91 50137 Firenze - Te!. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini 6 Buccinasco (MI) -Te!. 02/4473146 LINEA D'OMBRA - Mensile di storie, immagini, discussioni. Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo IW70% Numero 57 - Lire 8.000 Abbonamenti Annuale: ITALIA: L. 75.000 a mezzo assegno bancariooc/c. postalen. 54140207 intestato a Linea d'ombra. ESTERO L._90.000 I manoscrittinon vengonorestituiti. Si rispondeadiscrezione della redazione. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei testi di cui non siamo stati ingrado di rintracciaregli aventi diritto, ci dichiariamo pronti a ottemperare agli obblighi relativi. · LINEA D'OMBRA anno IX Jebbraio1991 numero 57 4 6 7 11 15 16 23 29 Gianfranco Bettin Gian Enrico Rusconi Andrea Berrini Johan Galtung Alessandro Triulzi Alexander Langer Luigi Bobbio M. Flores, N. Gallerano Gli anni Ottanta vanno alla guerra Troppa filosofia per una sporca guerra? Quegli arabi Appunti sulla crisi del Golfo Somalia e tè nel deserto Diario d'Albania L'intreccio politico-affaristico in Italia La storia a modo loro. Sui libri di Ingrao, Chiaromonte ecc. e G. Fofi su alcuni progetti della rivista (a p.5), N. Salio ancora sulla "guerra giusta" (a p.10), G. Bettin sul libro di Manconi sui movimenti (a p.27). CONFRONTI 34 36 40 42 Marino Sinibaldi Gian Luca Potestà Giuseppe Pontremoli Francesco Binni Un incontro con Pratolini Gollwitzer dal nichilismo alla liberazione Sulla letteratura per l'infanzia Chester Hirries e la violenza e E. Morin sulla scomparsa di Robet,t Antelme (a p.35), G. Giovannetti sui libri di Cacciari, Agamben e altri filosofi (a p.39). Promemoria (a p.46). Gli autori di qu~sto numero (a p.95). 47 60 82 68 77 SAGGI Amitav Ghosh Yusef ldris Premchand Emmanuel Levinas Flannery O'Connor· Un egiziano a Baghdad La tenda Il sudario con una presentazione di Marco Re.stelli I diritti dell'uomo, nuovo imperialismo? Seri vere racconti SCIENZA 75 65 67 89 Ruggero Pierantoni Paolo Scarnecchia Luisa Orelli Tàdeusz Kantor Sconfinamenti scientifici incontro con Annamaria Janin Omaggio a Umm Kulthum La voce d'Oriente Per conoscere Umm Kulthum con le testimonianze di Nahgib Mahfuz e Anìs Mansur e la poesia di Ibrahim Nàgi Le rovine Testamento e amore incontro con Georges Banu e A. Cataldi sul film di Bertoluccj Il tè nel deserto (a p.91), P. Del Conte su Il rock èfinito di Simon Frith (a p.92). La copertina di questo numero è di Andrea Rauch. Questa rivista è stampata su carta riciclata.

IL CONTESTO Dentro la guerra Glianni Ottanta vanno alla guerra Gianfranco Bettin "La verità fugge dai vincitori": le parole di Simone Weil dovrebbero risuonare alte in questi giorni, sul Golfo e ovunque si sia preparato il macello che lì si compie. In effetti, i probabili "vincitori" della guerra in corso, la verità l'hanno forse perduta nel momento stesso in cui hanno scelto la via militare come unica risposta all'invasione irakena del Kuwait. Dopo il 2 agosto infatti sarebbe stato possibile attivare una strategia differente: inviare una forza dissuasiva nel Golfo sotto un comando veramente unitario da parte dell'Onu; attuare un embargo strettissimo che avrebbe potuto funzionare per la prima volta, non essendoGi nessuna grande potenza a far da sponda a Saddam "nutrendolo" (il presidente della Commissione Forze Armate del Senato Usa, Sam Nunn, ha dichiarato nel dibattito che ha preceduto l'intervento militare: "Il blocco ha ridotto quasi al 100%le esportazioni dell'Irak, ha ridotto più del 90% le sue importazioni, dimezzando il suo prodotto interno lordo che sarebbe presto diminuito di un altro 20%. Il Paese sarebbe stato messo in ginocchio e ciò avrebbe esposto Saddam alle rappresaglie di una popolazione esasperata"). Si poteva, ancora, agire nella prospettiva di un tavolo di mediazione per tutte le questioni aperte nel Medio Oriente, escludendo l'Irak invasore, strappando di mano a Saddam la bandiera dei diritti dei Palestinesi (e, anzi, ritorcendogli contro quella e quell'altra, dei Curdi, oltre che del Kuwait). C'era dunque un'altra via, articolata e credibile, forte. Aveva bisogno di tempo e di raziocinio, non di ultimatum. Si è scelta invece "l'avventura senza ritorno", con (!na facilità che dovrebbe sgomentare chiunque e che risponde in primissimo luogo alla volontà di ridisegnare le gerarchie del mondo uscito dalla "guerra fredda", ma forse anche a più meschine ragioni, a cause più banali (come banale, appunto, è spesso il "male"). Gtinther Anders ha sostenuto che la catastrofe rischia di venire non per causa di qualche "genio malefico" o scienziato pazzo, ma per l'insensatezza e la sciatteria di uomini potenti che non sanno immaginare le conseguenze delle loro azioni. E questo del Golfo sembra un caso esemplare del genere. Che dire di due potenti che si scambiano battute di questo tenore? Saddam: "Bush non oserà bombardare, perché non ha le palle". Bush: "Ah sì? Lo prenderò a calci in culo, quel Saddam!". In queste mani è la guerra e, prima, era la pace. Ovvio che Woytila sia parso un gigante di saggezza in un simile coro, pressoché l'unico potente del mondo a pronunciare parole appropriate. E quanto all'Italia, ai suoi governanti, lo spettacolo è stato davvero il più repellente fra tutti quelli offerti, in sede decisionale, dagli "alleati". Essi sono i più falsi fra i politici dei paesi "avanzati". Gli unici a tentare perfino di nascondere che di guerra autentica si trattava, usando sofismi e perifrasi, del resto come sempre si usa da noi (nel caso "Gladio" se n'è fatto altrettanto sfoggio). Gli unici, anche, a dimostrare un servilismo assoluto nei confronti di ogni mossa statunitense, senza osare alcun distinguo. Tra il Papa e i suoi dubbi e appelli drammatici e le tetragone certezze di Bush, Andreotti ha scelto quest'ultimo, cioè il Padrone invece del Curato. E forse non 4 la pagheranno nemmeno cara, i nostri poitticanti. Forse hanno detto le falsità che la gente, molta gente, voleva sentire. Il nostro non è un paese che ama la verità. Non quella trasparente e diretta, almeno. E questo non per paura o per evangelica ripulsa dello scandalo, bensì per cinismo e calcolo. Si dicano le cose a metà, le si edulcori e addomestichi, un passo alla volta, una parola alla volta, e si potrà far passare ogni cosa, andare ovunque, perfino alla guerra.L'enormità di una tale decisione, la prima guerra cui l'Italia partecipi nella sua storia repubblicana, violentando la propria stessaCostituzione, è avvenuta così, nel più andreottiano e meschino dei modi. La verità è fuggita da un pezzo da queste parti, qualunque esito abbia la guerra.L'armata alleata sotto il comando statunitense probabilmente vincerà, alla fine, nelle sabbie e sui cieli delle "Mille e una notte". Vincerà con i missili e i computer, con i morti, i feriti, i perduti tra le proprie e altrui file e soprattutto tra le file degli inermi. Con le devastazioni forse irreparabili inflitte a luoghi ricchi di storia e di bellezza. Ma inflitte anche alle proprie iniziali ragioni - il "diritto violato" da Saddam - che fuggono pur esse, come la verità, di fronte a una tale spaventosa "vittoria". Anche la profezia di Gtinther Anders trova conferma nell'andamento della guerra. Tutti i calcoli sono stati sbagliati, da parte "alleata" (inrealtà, statunitense). Fatta salva lapervicacia militarista, tutto il resto - modalità concrete e scenari - si è discostato .dalle previsioni dei Comandi. La guerra chirurgica, telematica ed elettronica, descritta in prèsa diretta, la guerra perfino bella cantata a caldo da Giorgio Bocca e che esce dalle parole affabulate di un "top gun" reduce dal primo bombardamento di Baghdad ("il cielo si è illuminato di luci rosse e verdi ... sembrano le celebrazioni del 4 luglio sotto il monumento di Washington ... la città assomiglia a un gigantesco albero di Natale: .."), questa guerra fulminea e asettica ed entusiasmante si è ben presto rivelata lunga, complicata, sanguinosa, devastante, oscura. Una guerra, come tutte le guerre, che suscita soprattutto orrore e pietà. E protesta, anche. Sentimenti i primi due ancora tollerati e anzi perfino esibiti dagli stessi che la guerra hanno voluto o difendono sui "media". Ma la protesta invece no, la si bandisce e insulta. L'Italia di oggi è un paese in cui parlare di pace fa scandalo. Parlarne concretamente, ora, chiedendo di cessare il fuoco e di tornare a trattare, ché di pace generica parlano anche i nostri Signori della Guerra (Signori proprio nel senso del Dylan di Masters of War, cioè fabbricatori e venditori di armi, oltre che. militaristi e'bellicisti, e allevatori di tiranni: ora sappiamo che oltre ad aver aiutato Saddam in vari modi, finanziandolo con la Banca Nazionale del Lavoro, per esempio, l'Italia è il paese che gli ha venduto, oltre alle armi vere, anche ì carriarmati e le rampe missilistiche finte, in plastica, di cui i "top gun" hanno fatto inutile strage, e addirittura uno dei paesi che ha perfezionato il rendimento degli Scud iracheni che piovono sugli "alleati" e su Israele). La guerra, insomma, rivela molte cose anche di noi, di ciò che il nostro Paese è diventato in questi anni. In,i'mcerto senso, anzi, essa è il frutto perfetto e autentico del decennio appena trascorso, gli Ottanta che l'hanno preparata e resa possibile oltre che nei rapporti politici, economici e strategici internazionali, oltre che nelle tecnologie militari, dentro le coscienze (nelle "false coscienze") degli abitanti del nostro ricco lembo di mondo. L'immensa, colorata, confortevole menzogna degli anni Ottanta, il solo vero, lungo, osceno week-end post-moderno che abbiamo vissuto, sembra

svaporare come un miraggio sulle sabbie del deserto. Ma non era nemmeno il miraggio. Era invece il segno del dominio e del privilegio, della contabilità fredda che assegna al 20% della popolazione mondiale l'uso e il consumo dell'80% delle risorse. Il segreto degli anni Ottanta è questo, banale e brutale, ed è anche il segreto ultimo della guerra in corso, che proprio per questo è la continuazione con altri mezzi dell'euforia e del!' "edonismo" reaganiani. Ben al di là dei suoi motivi contingenti, dunque, la guerra sta rivelando molte cose. Rivela anche limiti, vecchiezza e novità del "pacifismo". SopnHtutto del pacifismo più politico, eredità delle precedenti fasi di mobilitazione, legate al tempo e al mondo dei "blocchi". I guerrafondai e i sepolcri imbiancati che insultano marce e veglie e assemblee per la pace di queste settimane si sbagliano o provocano coscientemente. La gran parte dei giovani e det ragazzi che si sono mobilitati non è ascrivibile a vecchi schieramenti, e tantomeno allacausadi Saddam. Nemmeno dimostra certezza assoluta, anzi è davvero frequent~ il ricorso a un linguaggio dubitativo, indice di pensieri e sentimenti che si interrogano e mutano spesso. Perfino i sondaggi lo confermano, ma del resto basta osservare - se non parteciparvi - le espressioni pubbliche di questa volontà di pace, nettissima comunque sul punto del "cessate il fuoco". A essere in ritardo, ancorati a vecchi schemi, sono piuttosto i "pacifisti" storici. Lo si è visto dopo il 2 agosto, IL CONTESTO quando non si è saputo articolare una vera e credibile linea di intervento alternativa alla scelta bellicista prevalente. Le parole di Pietro Ingrao, in quell'occasione, furono in Parlamento piene di passione ma prive di indicazioni, e la spaccatura nel Pci fra chi si asteneva dal votare l'embargo e chi addirittura non partecipava al voto (come Ingrao) lori velava clamorosamente. Ora l'incalzare dei' fatti costringe a ripensare la linea pacifista, e la discesa in cainpo di nuove generazioni prive dei retaggi delle vecchie stagioni può dare a questo ripensamento una spinta vitale, un orizzonte più chiaro. Si pensi per esempio alla questione di Israele. Il mod~ ·n cui se ne ~ discusso nelle scuole, quasi ovunque, dopo gli attacchi irakeni, è davvero incoraggiante. L'idea che Israele abbia diritto di esistere in pace, a fianco di uno Stato palestinese è apparsa, salvo becere eccezioni, ovvia e giusta come mai era accaduto in questi anni. Le ultime generazioni, che ripetono soprattutto le parole del Papa sulla pace, sembrano laicissime sulle questioni che più spinose erano state per il vecchio pacifismo. Non è affatto scontato che le cose continuino così. La guerra rende brutali, semplifica, accieca. La polemica politica, specie in un paese come il nostro, fa strame anche delle migliori intenzioni, e disgusta, allontana, riapre il camp'o ai "professionisti" (anche nella parte di "movimento"). Ma non è scontato che vada così. Se andrà diversamente, uno spiraglio si aprirà nel conformismo dominante e nello stesso abbuiatoe insterilito fronte dell'opposizione. · E così, le peggiori previsioni si vanno avverando e anche quella piccola area privilegiata del mondo preservata dalle guerre e dai grandi conflitti alla quale noi apparteniamo è stata coinvolta, e niente sarà più come prima. Il carnevale degli anni Ottanta ha chiuso i battenti, anche se ne restano echi e presenze nei modi di fare politica, nelle vociferazioni dei media e degli opinionisti "pubblici" e "privati", mai così solerti, e nelle reazioni delle maggioranze. Cambiamenti Goffredo Fofi per collaboratori e tematiche. Proseguirà nel frattempo la pubblicazione dei libretti della collana "Aperture", e altre iniziative sono previste, a cominciare da un convegno sulla figura di Leonardo Sciascia da tenersi in primavera a Milano - suggerito anche dalla necessità di reagire al nuovo e crescente distacco Nord-Sud in atto nel nostro paese. Pensiamo inoltre, per l'autunno, a un convegno sul- !' opera di Elsa Morante e a un altro sulla "fine del comunismo" affrontato con giovani storici di varie parti d'Europa. È probabile infine che si possano ripetere, con altre modalità, i nostri incontri "NordSud-Est-Ovest" tra artisti e studiosi di varia provenienza che noi stimiamo per il ioro pensiero e per la loro azione, e dai quali ci attendiamo testimonianze di altre realtà e contributi alla nostra chiarezza. La guerra è una presenza, è un incubo divenuto ben reale nonostante le mistificazioni di cui viene quotidianamente ammantato. Comunque vada, niente sarà più come prima. E non basta più, nel minimo che ci riguarda, una vigilanza solo intellettuale al limite del cassandrismo, la proposta di altre culture e dimensioni, il ragionare del presente con occhi non accecati dalle false coscienze e dai narcisismi, il rifiuto della supinità culturale e morale ai poteri e quello congiunto degli ideologismi, così forte nella vecchia sinistra ma anche in quei brandelli di nuova malamente sopravvissuti al disastro dei tardi Settanta. Come rivista (non come suoi singoli redattori e collaboratori, va da sé), non si tratta certamente di rinnegare il lavoro fatto nel corso dello scorso decennio, né di proporsi compiti che non ci sembra spettino a una rivista, o quantomeno a una rivista come è la nostra. E peraltro i pochi cambiamenti che annunciamo erano in preparazione da mesi, dettati appunto dalla coscienza di "salti di qualità" indispensabili, dall'assunzione di compiti più precisi. Quello che cambierà soprattutto sarà probabilmente un certo spirito, un certo modo di vedere e fare la rivista, e insomma un rapporto con la realtà del nostro tempo che diventi meno evasivo, più radicale. Che i primi di questi cambiamenti avvengano proprio oggi, ancora dentro il primo mese di una guerra odiosa, è casuale, ma nondimeno significativo. Da questo numero, la direzione di "Linea d'ombra" si allarga ad alcuni dei collaboratori più assidui, quelli che più hanno contribuito alla sua elaborazione e alla sua crescita. Questo dovrebbe portare ad assicurare in particolare alla "critica della politica" una presenza e una incisività maggiori. Avevamo pensato a lungo, nei mesi scorsi, ali' eventualità di un. cambiamento nella periodicità, passando da mensile a quindicinale. Per motivi molto oggettivi e molto comprensibili e in alcuni per qualche soggettiva perplessità, il progetto non ci è parso attuabile. Non siamo purtroppo in grado - economicamente, e di conseguenza organizzativamente - di ipotizzare per il momento una periodicità diversa da quella del mensile, pur in un paese in cui il sistema dei media produce quotidianamente eccesso e spreco, una sarabanda dell'inutile e del dannoso. Alcune delle trasformazioni che avevamo previste cercheremo bensì di attuarle lo stesso. La prima è l'apertura di uno spazio trimestrale da riempire in collaborazione con altre testate e con gruppi attivi nel tessuto sociale del nostro paese su temi di interesse primario, ma anche per far conoscere e documentare iniziative, interventi, posizioni che ci sembrano importanti per tutti e con i quali avvertiamo affinità di fondo. La seconda, è l'elaborazione di una rivista trimestrale, dapprima in forma di supplemento di "Linea d'ombra", dedicata alla analisi della realtà e delle possibilità delle figure di "educatori" e trasmettitori di cultura presenti dentro e fuori le istituzioni (insegnanti soprattutto, e assistenti sociali, operatori e animatori, preti, ecc.); alle etiche di quelle professioni suscettibili, nonostante tutto, di un intervento degno nella società; alle modalità negative e positive della trasmissione di valori e cultura. Questa rivista dovrebbe rendersi presto autonoma nelle nostre speranze, restando evidentemente legata al suo lavoro, · Tutto questo può essere fatto. solo con l'aiuto dei lettori. Più concretamente, proporremo, in tempi brevi, una qualche forma di loro aiuto finanziario (per esempio, per dire la cosa più semplice e più immediata, con l'abbonamento sostenitore) che ci permetta di affrontare queste e altre iniziative, il potenziamento del nostro lavoro, il contatto e scambio con le iniziative cui ci sentiamo più vicini, il rapporto con quei lettori interessati non solo alla lettura di testi belli e intelligenti e utili e alla miglior conoscenza di altre culture, ma anche a progetti il più possibile comuni di critica attiva dell'esistente. 5

IL CONTESTO Il dibattito sulla "guerra giusta". Troppafilosofia per una sporca guerra? Gian Enrico Rusconi Non so se- verremo fuori in modo convincente per tutti dal dibattito sulla "guerra giusta" applicata al conflitto del Golfo. Personalmente ritengo che se abbandoniamo questo concetto, comunque riformulato perdiamo una bussola per orientarci nei conflitti armati. Ma il concetto di "guerra giusta" non è un tranquillante: né per l'intelligenza né per la buona coscienza. È un concetto a rischio. Come tutti i ragionamenti etici seri. Non e' è dubbio che molti equivoci nascono dalla falsa evidenza dell'aggettivo '"giusta" accostato alla guerra. Un aggettivo comune, normalissimo ma potente, esigente - troppo esigente a fronte delle delimitazioni "tecniche" che invece gli impone la dottrina. Per questa infatti guerra "giusta" vuol dire semplicement~ "legittima" e "proporzionata" nel rapporto tra mezzi e fini, specificatamente guerra "limitata" nello spazio e nel tempo. Sono qualificazioni tutt'altro che-facili da definire, come vedremo, ma sufficienti per creare tensione e incomprensione con il linguaggio corrente. Dopotutto è nella convinzione di fare "una guerra giusta" che da sempre i combattenti entrano in campo e sono disposti persino a morire, da una parte e dall'altra del"fronte. Con questa semplice osservazione siamo già ad una prima aporia: il concetto di "guerra giusta" pretende di essere universalistico, ma di fatto è usato polemicamente da una parte contro l'altra. Nel caso della guerra contro.1 'Irak questa aporia è apparentemente superata, perché l'azione militare risponde ad una risoluzione dell'Onu, il massimo consesso mondiale che presiede aJla legalità internazionale. Sulla straordinarietà di questa iniziativa dell'Onu si è già scritto tutto. Rinuncio qui a chiedermi come mai · soltanto questa volta si sia creata tanta unanimità e determinazione. Non avendo condiviso l'entusia'smo di quelli che hanno parlato di primo passo verso un "governo mondiale", non mi . associo neppure a coloro che invitano a disattendere la risoluzione delle Nazioni Unite perché non risponçle al loro punto di vista. Questo atteggiamento di approvazione condizionale di quella che dovrebbe essere la suprema istanza internazionale, mi pare francamente inaccettabile. Dopo di che, venga pure un'ampia discussione sulla struttura decisionale interna dell'Organizzazione. E una riflessione critica sulla delega dell'azione militare internazionale al governo americano. Ma supponiamo per acquisita la legittimità formale dell'iniziativa bellica nel Golfo, in sintonia con il primo requisito della "guerra giusta" secondo la dottrina tradizionale. Come conseguenza gli argomenti degli iracheni veng,mo considerati non solo sbagliati, ma "ingiusti" e i loro atti criminosi al punto di dover essere puniti cc,ml'uso della forza. . Qui cominciano i problemi. La grave infrazione della legalità internazionale (l'invasione del Kuwait) viene isolata da tutto il resto. Letteralmente non si accettano altre ragioni: non i motivi storici (veri o presunti) di Saddam per cui rivendica il Kuwait; s~prattutto non si accetta il collegamento con la questione palestm~se. Visti i tentativi di persuasione operati per comporre pacifi_camente la vertenza e visto il comportamento sprezzante del ~1ttatore iracheno, il procedimento nei suoi riguardi può considerarsi corretto sul piano formale. Scorretto invece è lasciar credere.ali' opinione pubblica mondiale che la restaurazione dello 6 status quo ante della legalità internazionale sia la questione cruciale del Medio Oriente. Questa impostazione solo legale del problema si rivela oggi insostenibile, non foss' altro dinanzi al decorso della guerra. La motivazione che rende lecito ("giusto") l'intervento militare si configura oggi semplicemente come la condizione necessaria, ma insufficiente per qualificare a pieno titolo "giusta" questa guerra. Tale sarebbe soltanto se garantisse l' instaùrazione di un "ordine giusto" in tutto il Medio Oriente. In questo momento nessuno fornisce questa garanzia. · U modo in cui di fatto si sta sviluppando il conflitto (fine dell'illusione di una guerra rapida e deJI' intervento "chirurgico", coinvolgimento diretto di Israele, enorme distruttività diretta e indiretta dei combattenti, possibile disastro ecologico) ha già stravolto e superato le ragioni di legittimità di quella che doveva essere una "operazione di polizia internazionale". · Retrospettivamente appare davvero poco saggio e per nulla "razionale" aver fatto finta che Israele non sarebbe stata coinvolta, e l'aver sottovalutato il senso della disperata simpatia del popolo palestinese per Saddam. A questo punto, dobbiamo tirarci indietro, come suggeriscono molti, ammettendo pubblicamente che l'intervento è stato un · errore negando dunque che si trattava di una "guerra giusta"? O dobbiamo prendere atto di quello che aJl'inizio ho chiamato il carattere "a rischio" del concetto di guerra giusta? Possiamo cioè accettare una dilatazione in corso, per così dire, èlei motivi della sua legittimità, dei suoi obiettivi e quindi dei suo~ costi? Questo interrogativo ci porta al secondo aspetto della questione: al carattere limitato e proporzionale tra obiettivo finale e mezzi della guerra giusta. Norberto Bobbio che più di altri in queste settimane si è esposto su questa problematica, ha ammesso in uno dei suoi interventi ("Guerra giusta, non santa" su La Stampa del 25 gennaio) che la "guerra ha cambiato disegno", che i missili su Israele aprono la "prospettiva di una guerra non più limitata". Il filosofo è turbato e "impotente" (come I ui stesso serive) ali' interno delle sue formulazioni sulla guerra giusta. Esse suonano ormai come testimonianza di coerenza morale più che come linee d'azione razionale. Nell'articolo c'è una affermazione sconcertante nellà sua ovvietà. Scrive: la guerra giusta in quanto efficace "deve essere vincente". In questa affermazione apparentemente autoevidente è contenuta la pretesa più problematica della dottrina tradizionale: che il buon diritto debba vincere necessariamente. Ma naturaJmente non a tutti i costi. Siamo di nuovo in una aporia. Dopo quello che abbiamo visto in queste settimane, come e chi può misurare i costi proporzionati alla vittoria? Questo interrogativo si specifica in almeno due altre questioni: una sul rapporto tra decisione politica e competenza militare (in concreto il rapporto tra Onu, Casa Bianca e Pentagono, per tacere degli altri alleati). E la questione più generale dei criteri con cui considerare effettivamente "limitata" una guerra - anche e soprattutto nel suo sviluppo oltre le intenzioni"iniziali. I criteri con cui si giudica "limitata" una guerra mutano profondamente nel tempo. Basti pensare che sia la prima che la seconda guerra mondiale sono iniziate come conflitti limitati (almeno nelle intenzioni degli iniziatori) e sono diventate guerre. "totali", sia pure con scale di grande..zza inconfrontabili tra loro. Oggi entrambe le guerre - a dispetto della loro espansione spaziale illimitata.- appaiono declassate in quanto conflitti "convenzionali" con potere distr.uttivo relativamente modesto a confronto con i potenziali "convenzionali" disponibili oggi e in parte attivati nel Vietnam e appunto nel Golfo. Di fronte a questa problematica la dottrina tradizionale della guerra "giusta-dunque-limitata" sembra considerare la tecnolò-

gia militare come una variabile dipendente. malleabile, docile alle ragioni della politica. In questo non sembra aver appreso le lezioni della storia del XX secolo. Si accontenta di tenere ferma la soglia tra conflitto convenzionale e nucleare. Uno scontro atomico infatti annullerebbe definitivamente i requisiti della proporzionalità della guerra. Ora, se nel conflitto medio-orientale si può escludere una escalation nucleare da sempre temuta (un olocausto nucleare), non si può affatto escludere che qualcuno d(ti contendenti - come gesto disperato di offesa o di difesa-rièorra ad ordigni nucteari "tattici". Avremmo così superato anche la soglia estrema della proporzionalità. Ma dobbiamo attendere proprio quel momento? La guerra chimica, la catastrofe ecologica non hanno già annullato quella soglia? Tiriamo le fila del ragionamento. Questa guerra motivata con una debole legittimità iniziale ha alterato il suo quadro di giudizio di partenza - sia nei termini politici che in quelli della efficacia stessa. L'applicazione ad essa degli indicatori tradizionali della "guerra giusta" appare problematica al punto da pregiudicarne il concetto stesso, che qualcuno vorrebbe liquidare come "relitto storico.". Non si deve arrivare a tanto. Le difficoltà di estendere il concetto di guerra giusta a questo conflitto ci confermano semplicemente che ci siamo disabituati a ragionare sulla guerra e sulla SU<!- "cangiante apparenza" -come diceva il vecchio Clausewitz. Dobbiamo invece tener ferma anche nei suoi riguardi l'istanza della razionalità, cioè la pretesa di controllare i nostri comportamenti alla luce di principi etici. Troppa filosofia per una sporca guerra? Foto di Mormon .. IL CONTESTO Quegliarabi Andrea Berrini Ecco un uomo, nella periferia di Algeri. È un insegnante. Ha quasi cinquant'anni. È seduto in terra, su una stuoia in una stanza quasì senza mobilio un parallelepipedo vuoto: come uno spazio teatrale. Davanti a sé ha un televisore, guarda la partita della domenica sera. La sua casa contiene altri oggetti "ricchi", un frigorifero quasi nuovo, un gntnde apparecc;hio radio. Ma la casa sembra volersi negare a quella ricchezza:· i muri che separano le stanza sono dei tramez;zi di cartone rovinato, la stessa porta di ingresso è di compensato sbrecciato ai lati, non chiude bene, il gabinetto è un cubo di legno separato dalla casa, un buco nero che scarica in una fognatura a cielo aperto, a lato della strada. Se quest'uomo abitasse in Italia potremmo immaginare che sia un terremotato: un terremotato costretto ancora, dopo anni,.a vivere in una baracca. E quella baracca sarebbe una vergogna nazionale. La baracca di Algeri nella quale l'uomo guarda la partita, non è invece considerata una vergogna: è una casa. Una buona casa. Una abitazione tipica della periferia di Algeri, o di Orano, di Annaba. Di quella onnipresente periferia urbana nella quale, oggi, vive ormai metà della popolazione algerina. Alfabetizzata, in possesso di un buon grado di istruzione. E di un sacco di dischi dì Michael J ackson, 7

IL CONTESTO magari anche di-Toto Cutugno. In possesso diun televisore dal quale si ricevono i programmi di Rai 1-, di Antenne 2. Vedono Fantastico, Pippo Baudo. Il telegiornale della sera porta in quelle case Bruno Vespa, i nostri stadi di calcio, le nostre città. Non è più la periferia di Algeri: è la periferia di Milano. Di Parigi.Una periferia degradata. Tutti i giorni quell'uomo, a scuola, insegna ai bambini la storia della civiltà araba, che è una storia grande; e poi la colonizzazione, i francesi, la lotta per l'indipendenza. Insegna la matematica e l'astronomia, e i nomi dei grandi studiosi arabi del passato. Insegna la geografia a partire dal Maghreb, e poi la più vasta nazione araba. La·diffusione dell'Islam nel mondo. E chissà, forse è più motivato, più coinvolto dal suo lavoro quanto non sia un insegnante di scuola media in Italia: però lui guadagna un sesto di quello che guadagna un suo collega italiano. E lo sa. Sa, e Io insegna ai bambini, che il suo paese e la più vasta nazione araba hanno sofferto a lungo la colonizzazione europea. Sa, e lo insegna, che c'è un contrasto tra l'occidente e il mondo arabo per tenere più basso o più alto il prezzo del petrolio. Sa e racconta che i palestinesi non hanno una terra, che la terza città santa dell'Islam è ora nello stato di Israele, sostenuto dagli americani e dagli europei. Forse racconta anche cpe i più aggressivi nel combattere questa influenza occidentale sull'economia della regione sono gli integralisti islamici. Io, per la verità, quest'uomo non lo conosco più. Quest'uomo l'ho incontrato dieci anni fa, quando ancora si concedeva parecchi bicchieri del whisky che avevamo portato in regalo. Di passaggio ad Algeri, eravamo andati a trovare sua figlia: la figlia degenere, separata dal marito, che va a ballare nelle discoteche. E di lei la mamma diceva: "Non è giusto dare tutti questi dispiaceri a Dio". CNN, ovvero la visibilità della guerra. Le bombe i.ndiretta su Baghdad, i Patriots contro gli Scud nella notte di Dahrein, i feriti e i morti a Te! Aviv. Tutto questo nel salotto di casa nostra, in tempo reale. Perlomeno i primi giorni: perché poi cominciamo a stufarci. Certo, è anche una visibilità censurata: nel corso dei primi giorni ci parlano di "operazione chirurgica", solo più in là si saprà che hanno bombardato anche i quartieri civili di Baghdad, pesantemente. Ma nonostante la censura noi "vediamo", siamo tremendamente vicini. E la vicinanza delle immagini corrisponde a una vicinanza della realtà: quando Saddam Hussein chiama al terrorismo, i primi attentati sono a Beirut, a Casablanca, a Manila, come se queste località fossero poco più in là del Golfo. Si dice: com'è piccolo il mondo. Però qualcosa non funziona. Perché l'onnipresente televisione ("A voi Amman, a te Gerusalemme") non mi ha mai mostrato, un.a sola volta quell'insegnante di Algeri. I quattrocentomila sì: quelli sono ben visibili, fanno paura, gridano slogan cattivi e inneggiano a Saddam Hussein. Ma il padre della mia amica non l'ho visto, nella sua casa-baracca. E allora che cosa abbiamo visto in Tv? Abbiamo visto, forse, il corpo di una belva destinata a farci paura, ma non ne abbiamo visto l'anima. La televisione, anziché aiutarci, rischia di confonderci, vediamo quella che si dice la punta dell'iceberg, siamo tentati di dare dei giudizi a partirè da quella. Pen~iamo che dai nostri giudizi possano discendere degli effetti (la guerra "giusta"), e invece i nostri giudizi sono già essi stessi effetti del nostro particolare modo di guardare il mondo. Del nostro punto di vista: e cioè il punto di vist!l dal quale noi ci mettiamo a osservare ciò che ci succede intorno. E un luogo ben misero: è il nostro salotto, la cucina. Davanti alla Tv. Non mi stupisce allora di sentire il ciellino Formigoni dire delle cose sensate su questa guerra. Inquadrare il problema in modo più vasto, capire la rabbia e la frustrazione della nazione araba, avere davanti agli occhi il dramma dei palestinesi: perché è un cattolico, forse, i suoi umili e i suoi oppressi ha provato almeno a guardarli negli occhi. In un modo che io non condivido, certo. Però li vede. • Mentre quella parte della.sinistra che si schiera piattamente sull 'iniziativa di guerra americana sa vedere solo i propri sogni: "un nuovo ordine internazionale, un nuovo governo mondiale". Dicono che nel postmoderno sia difficile trovare una verità a cui fare riferimento. Lo stesso termine "realtà" comincia a tremolare come l'aria calda sopra una fiamma. Probabilmente è vero. Ma le balle, quelle, si stagliano ancora nitide. Milano, Radio Popolare. Centou_no e cinquecento, centosette e seicento. Microfono, aperto; una signora anziana sta raccontando di aver visto due ragazzi litigare sulla guerra. E dice che gridavano, che si sfottevano in modo pesante. Che era una situazione irreale: come due tifosi di squadre opposte, che poi si pestano. E i due ragazzi stavano per pestarsi. Il commentatore interviene. Dice, però è diverso, io penso che quando due tifosi di calcio litigano fra di loro in fondo lo sanno, che non si tratta di una cosa importante. Importante. È una parola impegnativa. Che cosa è importante, per chi vive nella ricca Lombardia? La sopravvivenza,. qui, è assicurata. Non ci sono- sai vo rare aree marginali - pericoli gravi per le nostre funzioni vitali, essenziali. Nutrirsi, restare in salute. Avere un lavoro, una buona casa. È difficile persino pensare che ci sia qualcuno che non può comprarsi l'automobile. E per due tifosi di calcio, probabilmente, diventa importante ciò che è immateriale. La sfera degli affetti, il riconoscimento degli altri, far parte di un gruppo, cose note. Allora: entro in un vagone della metropolitana il 17gennaio. Sulla piattaforma passano alcuni pacifisti con le bandier~. I portelli si chiudono, sento qualcuno gridare poco lontano da me. E un ragazzo, sta urlando come a volte ho sentito urlare gli ultras di ritorno dalla partita. Grida: "Ma che pacifismo, perché non gli buttano una bomba a quel baffetto, e la facciamo finita." E frasi di questo tono le ho sentite in televisione, da ragazzi intervistati che della guerra solp questo sembrano conoscere: noi e loro, il nostro branco e il loro branco. Le offese che il loro branco reca al nostro: questo è importante. Questo solo sembrano poter vedere, perché, così funziona il mondo in cui vivono, in cui viviamo. Quel ragazzo sulla metropolitana non può più vedere che importante per un palestinese è ancora la sopravvivenza, la casa, il lavoro; e che da lì nasce la sua rabbia, fino ad arrivare in certi casi alla follia omicida. La comunicazione fra i due mondi è interrotta. Le parole noi} hanno lo stesso significato di qua e di là. CNN non ci soccorre. Anzi: c'è una donna araba nel mio televisore targato CNN, è bella, ha i lineamenti decisi e uno sguardo per niente guerresco. Dice: voi occidentali volete vivere, noi siamo disposti a morire: per questo vinceremo. Il mio televisore va in tilt. Quella donna sembra uno spirito cattivo. Improvisamente mi sembra uno spirito cattivo anche Bruno Vespa. Qualcosa di occulto mi circonda, incombe sulla mia tranquilla esistenza di telespettatore. La devastante potenza di fuoco delle forze aeree multinazionali. Gran frase: però a me fa venire in mente le Brigate Rosse. Quella frase significa, in soldoni, che nella prima giornata di bombardamenti è stata rovesciata sull'Irak una quantità di esplosivo pari alla potenza della bomba di Hiroshima, Naturalmente si trattava di operazioni chirurgiche contro obiettivi militari. Solo il terzo giorno abbiamo visto il fumo alzarsi dalle abitazioni dei camerieri dell'Hotel Rashid. Da allora in poi abbiamo visto sempre meno. Vedevamo i missili partire, i jet decollare. La devastante potenza, l'energia distruttiva usata per neutralizzare e punire gli invasori, sembra essersi materializzata dal nulla nel deserto mediorientale. Laggiù, noi vedevamo solo i carriarmati di Saddam. Laggiù vedevamo la contrapposizione di energie che negli ultimi anni, a tratti, hanno invaso i nostri televisori e le nostre cucine: autobombe e ostaggi a

Beirut, fucili contro sassi a 'Gazae in Cisgiordania, stragi chimiche sul fronte lran/Irak. Poi, all'improvviso, sono scesi dal cielo gli ·esercitioccidentali.Ma da che cielo sono arrivati?Ognigiornovedo uno wargame disegnarmisi davanti agli occhi: il rischio che si allarghi il conflitto, le armi ancora in mano a Saddam, il ruolo dei palestinesi. È una bella storia, da raccontare. Ci sono i buoni, i cattivi. Ci sarà un vincitore e un perdente. E forse sarà una storia a lieto fine, come le favole dei bambini. Ma è una storia utile? È una storia che mi racconta qualcosa del mondo, è una storia che tocca e lascia vibrarequalche mia corda interiore?È una storiaallusiva, che evoca fantasmi lontani? O non è piuttosto una storiella superficiale, un best seller rassicurante pieno di luoghi comuni? Lascio il televisore, provo a raccontare una storia diversa. Un altro uomo, un altro arabo. Non un insegnante: un tecnico. Un meccanico. ABaghdad? Perché no: a Baghdad. Però, dieci anni fa. Ai tempi della crisi del petrolio. Crisi per noi: loro, a Baghdad, portavano a casa i dollari. Facevano progetti; le raffinerie, l'industrializzazione. Aprivano scuole, mandavano la gente a studiare all'estero. L'uomo di Baghdad era diventato perito meccanico.Che storia banale, troppo emb!ematica: dall'altra parte del mondo, intornoa ungrande tavolo, si sonoriuniti una dozzinadi personaggi. È bastato poco per varare un piano di risparmio energetico, e un pianodi interventofinanziarioper selezionarequalchepaeseamico, che indebolisseil fronte Opec. Il prezzo del petrolio è tornatogiù. Il morale del perito meccanico di Baghdad è andato sotto le scarpe. Oddio, ma questa è una storia troppo facile: proprio a Baghdad. Allora spostiamoil nostroperitomeccanicoaltrove:Amman,ancora Algeri? Algeri: la porta della casa-baracca del nostro insegnanteperito meccanicoè proprio conciatamale. È rotta, sbrecciata.Certo, sembra la porta della casa di un terremotato: o di qualcuno sulla cui testa siapassatoun uragano.Unbombardamento.E nonc'è bisogno di andare ad Algeri, per avere l'impressione che la periferia del mondo sia stata bombardata: bastanocerti quartieri di NewYork. O gli slums di Nairobi. È una devastante potenza di fuoco, quella che li ha colpiti. Parte da uno stato maggiore che forse non c'è: si crea e ricreadi volta in volta. Intornoa un tavolo, gli esponentidi quattro istituti di credito, due sottosegretari, chissà. Colpisce duro, questo stato maggiore: un mio amico a Dar es Salaam a causa di certe decisioni del Fondo Monetario Internazionale ha dovuto vendere il motorino, adesso deve andare a lavorare a piedi, e sono sette chilometri.Non è poi così grave.Ma avevo anche un altro amico, a Dar es Salaam.Èmortodi febbregialla: l'ospedale di Dar es Salaam fa proprio schifo. Anche il Fondo Monetàrio Internazionale fa schifo. Anche la CNN. Non riprende mai in diretta le riunioni del Fondo Monetario Internazionale. Non mostra il mio amico che vende il suo amato motorino. Quei siluri lì, non si vedono neanche partire, inTv. Ma non preoccupiamocitroppo: Dar es Salaamnon è nel Mediooriente. È inTanzania, nell'Africa sudorientale.Lì non si arrabbianomai, sonomiti.E dell'Islam ne sannopoco:è un'idea che non gli è ancora venuta in mente. E così i miei governanti - da Roma o da Washington- con la guerra giusta stanno spingendo la nazione araba fra le braccia di· SaddamHussein. O perlomeno: la parte più aggressiva - e la più colpita dai siluri dei padroni del mondo - della nazione araba, finisce nelle mani di un massacratore.Non è la cosa più grave: ciò che mi fa paura è che sia io, nelle mani dei miei governanti. Perché la civiltà araba la conosco poco: è una grande civiltà, ma non so dire se abbia oggi dei valori utili anche per me. La civiltà occidentale invece la conosco: in questi giornimi sembra soprattuttouna civiltà stupida. E massacra gli abitanti di Baghdad. Periti meccanici, insegnanti, camerieri d'albergo. Dovrei dire bambini innocenti? Troppo facile, si versa ùna lacrimuccia e via. Allora: impiegati IL CONTESTO amministrativi, operatori al computer, vigili urbani, conducenti d'autobus, tassisti, elettricisti, idraulici e tubisti. E avanti così fino a centotrentacinquemila: che sono i morti del bombardamento di Dresda. Ma ancora mi pare troppo facile. Ancora mi pare che tutto ciò sia troppo televisivo: è quella parte di realtà visibile attraverso una telecameradella CNN. Fa parte di quella storia che intacca solo la-superficie del mondo. Non ne mostra l'anima occulta. Allora faccio il visionario:il conflitto si estende, in modo incontrollato.Ma in modo frammentario. A partire dal bombardamento di Baghdad scoppianotanti piccoli fuochi, iCurdi, i Palestinesi, i mussulmani in India e in Indonesia. Chissà, i Tuareg. Scontri di frontiera. E certamente:guerre giuste e guerre ingiuste, tutto indirettaconCNN. Gli aggressorie gli aggrediti. I provocatori e i rappresaglianti.Tutto moltopostmoderno:nondue campi in lotta su vari fronti,ma anzi un giocodi fronti e di alleanze incrociate,di salti da un campo all'altro, di riposizionamenti, tutto molto spettacolare, tutto per CNN. Tutto permesedutodavantial televisoreincucina.Occultaeonnipervasiva, unica categoria capace di ridefinire unitariamente il mondo, la Guerra.Laguerra fra il norde il suddel mondo: con i siluridel Fondo MonetarioInternazionaleche si abbattono come maledizionidivine sull'ospedale di Dar es Salaam,dovequalche.altromioamicomorirà di febbre gialla. Le maledizioni di un dio finalmente non lacerato e fatto a pezzi dalle opposte preghiere del Papa, di Bush, di Saddam Hussein. Un Dio unico, di nuovo con la D maiuscola: la Guerra. Ecosì chimi governa ha sceltodi combattere e dimassacrare.Ha scelto di mettere la frustrazione dell'insegnante di Algeri, la rabbia del perito meccanico di Amman o di Baghdad, la mite malinconia delmioamicoappiedato aDares Salaam,la cupa tristezzadei fratelli di chi muoredi febbre gialla in un ospedale bombardatoda invisibili siluri, tutti nelle mani della Guerra, nelle mani di SaddamHussein o di chi gli succederà, prima o poi. Io so come sarà il mondo che ci stanno preparando: sarà tutto come Londonderry. Free Derry, recitava una scritta .;mlmuro quando ho visitato l'Irlanda del Nord quindici anni fa. Ma non era una città molto libera. Era sezionata in tante parti, attraversata da reti metalliche alte forse dieci metri, con stretti passaggi presidiati dai soldati. Ogni tanto uno scoppio di violenza:i soldati con gli scudi addossati alle reti metallichesparano proiettili di gomma; dall'altra parte, protetti da una lastra di ondulina,si avvicinanoalle reti giovaniconbottiglie di benzina, le lanciano altesopralereti, ricadono, si allargaunachiazzadi fuocosull'asfalto. Cento,duecento ~etri più indietro, tanta gente si gode lo spettacolo, seduta sui gradini, sulle sedie fuori da un bar. Partecipa, applaude quando i soldati scappano saltando sulle fiammelle. Come guardasse la Tv. Noi, turistelli, visitavamo la città spettrale e desolata, nel silenziodelle strade di confine, come un'infinita domenicamattina. Accarezzavamo le alte reti metalliche, liberi di attraversarle nei punti di passaggio. Chi avesse ragione e chi torto, fra i protagonisti in carne e ossa di quella battagliaa Londonderry, oggi mi è difficile dirlo, perché stento a pensar male di un povero soldatino inglese. Quel che era sicuro, quello che è sicuro nel mondo dal 15 gennaio 1991 in poi, sono le reti. Come quelle degli stadi, alte a proteggere i giocatori in campo dal lancio di oggetti da parte 9egli ultras. Reti così, presidiatedai soldati, levedogià stendere nelmondo,a tagliare in due il Mediterraneo - ed è agghiacciante che in Italia ci sia chi vuole piazzarle più in su, lungo la linea gotica o sul V_olturno- a fare a pezzi le nostre città così come a pezzi sono già le città americane,con i loro quartieri off limits, le bande, la desolazione. E a Parigi? Dove chiuderanno i mussulmani di Parigi? E i turchi di Berlino, i portoghesi di Bruxelles. I polacchi e i poveraccidi Roma. O forse, all'inverso, è meglio dire. dove stanno chiudendo me, bianco, ricco?Me cristiano: perché così verrò chiamatodagli arabi, dagli altri. 9

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