Linea d'ombra - anno IX - n. 56 - gennaio 1991

tanto fervore nel raccontarci le disgrazie del Sud (tutte autentiche, per carità) sia piuttosto un espediente per soddisfare in termini puramente suggestivi, ma non rigorosi, il bisogno di conoscenza sulla realtà italiana che cambia. Da Giorgio Bocca agli amici sceneggiatori della Pìovra, da Samarcanda agli inseguitori di microstorie locali, tutti sanno, tutti sappiamo, che al Sud vai a colpo sicuro: dovunque ti muovi becchi un soggetto buono per il tuo articolo, libro, film, scandalo da denunciare, ecc. Non dico che tale produzione non contenga anche deibuoni prodotti. Ce ne sono. Ma resto dell'idea che per capire certi meccanismi essenziali che regolano la vita del Sud, sarebbe opportuno risalire con l'indagine più a Nord, anche a costo di essere meno suggestivi. Benvenuta dunque la Fiat,_che di tale intreccio viene a fornirci concretissima testimonianza (non certo solo con l'annuncio di oggi: al Sud contava già prima 32 stabilimenti). Riesco bene a immaginare l'impatto sconvolgente che il nuovo stabilimento di Melfi (mica una bazzecola: dovrà sfornare 1.800 esemplari al giorno della nuova utilitaria che prenderà il posto della Uno, cioè dell'auto più importante della scuderia Fiat) produrrà sulla gente di quei luoghi, posti al confine fra Lucania, Irpinia e Puglia. Proprio di fonte a Melfi, su un colle appena traversato il Basento, è accoccolato quel paese-presepe di Monteverde da cui presi le mosse un'estate di qualche anno fa per il mio lavoro di ricerca sulla condizione operaia della Fiat. Più di metà della popolazione maschile adulta di Monteverde era impiegata negli stabilimenti torinesi di Agnelli, e più della metà dei monteverdesi si era trasferita a partire del 1957 a Cambiano, un paese alle porte del capoluogo piemontese. Chissà quanti di loro faranno carte false, disposti a tutto pur di essere trasferiti giù a pochi chilometri da casa. In una zona, di questo possiamo essere certi, che la Fiat farà il possibile per non trasformare da rurale in industrializzata, bensì per lasciare immutata. Qualche pezzo di Sud a Torino, in effetti, è probabile che faccia ritorno a casa, sotto forma di capireparto o comunque di operai-modello (i paesani che avevo conosciuto, del resto, erano quasi tutti gente esausta per il doppio lavoro praticato IL CONTESTO da sempre per comprare la casa, e dunque gente amante della tranquillità e ben disposta alla disciplina). Ma è certo che la Fiat, piuttosto che puntare su un innesto di classe operaia tradizionale, preferirà applicare anche q~i il metodo felicemente sperimentato a Termoli e Cassino, i due stabilimenti meridionali che non a caso sono i più moderni di tutto il gruppo: far leva sulla disponibilità al lavoro e al compromesso degli operai-contadini; e immettere nei ranghi di giovani addestrati e qualificati, cioè "plasmati" direttamente dall'azienda. Tutta gente con cui si sono fatti patti chiari già oggi, in anticipo di anni sull'apertura del!' impianto: bisognerà che i robot lavorino 24 ore su 24 per sei giorni alla settimana, e che gli operai accettino di ruotare in conseguenza. Non mancherà, in cambio, la comprensione della casa-madre per coloro che dovranno assentarsi nella stagione del raccolto. A proposito d'intreccio fra Nord e Sud: qualche esegeta particolarmente solerte, ha voluto indicare la scelta della Fiat come una testimonianza d'impegno contro l'antimeridionalismo delle Leghe. D'accordo, mettiamola così: la Fiat si batte per restringere lo spazio d'iniziativa degli amici di Umberto Bossi, perché ha deciso di investire al Sud piuttosto che ridursi ad assumere molto presto marocchini e senegalesi alla Carrozzerie di Mirafiori o di Arese. Perché al Nord trovare operai "bianchi" sta diventando sempre più difficile. L'impressione è che stia venendo a maturazione in Italia un processo di radicale ridislocazione della classe operaia dcli' automobile. Davvero, con il salto tecnologico prossimo venturo (derivante dal!' impiego dei nuovi macchinari automatici per produrre le vetture di piccola cilindrata oggi ancora montate con metodi tradizionali), potrebbero spopolarsi alcune concentrazioni operaie a densità particolarmente alta. Non vale certo la pena di vestire il lutto, per il ridimensionarsi di questi pur celebri reparti: si tratta quasi sempre di postacci, benché "carichi di gloria". Semmai vale la pena di indagare e discutere come la discesa al Sud dellaFiat non divenga sinonimo della bancarotta del controllo operaio sulla propria prestazione di lavoro. ' Inchiesta sui 11 desaparecidos'' ormai scomparsi ·davvero Joaquin Sokolowicz AB uenos Aires ti dicono che si vede spesso Harguindeguy al supermercato a fare la spesa, come un qualsiasi buon padre di famiglia. Te lo dicono con un sorriso di simpatia oppure, alcuni, con l'aria dimessa di chi ti racconta tante altre cose strambe ma normalissime in questo paese impazzito (quell'atteggiamento così diffuso nella capitale argentina). Eccolo, Harguindeguy che ci riceve personalmente appena usciamo dal l'ascensore. Cordiale, ci fa accomodare nella stanza illuminata a giorno (gusto americano) in cui faremo l'intervista e collabora premuroso con l'operatore e il ragazzo delle luci perché possano piazzare gli attrezzi. Giacca e cravatta, la pancia appare prominente quando si siede. "Qualcosa da bere?". "No, grazie, generale", dice il giornalista argentino che ci ha fatto ottenere quest'intervista e ha voluto essere presente. "Allora prenderemo qualcosa dopo". Sorridiamo tutti, diciamo battute, l'attesa per poter fare le riprese è interminabile. Come farà il mio amico - mi domando - a vedere senza soprassalti ogni tanto questa faccia larga e queste mani grosse, sia pure per motivi di lavoro? Ma non sto forse io stesso sorridendo e dicendo qualcosa per rendermi simpatico a quest'uomo? - penso subito e continuerò a pensare insonne quella notte. Albano Harguindeguy è stato il ministro degli interni della Giunta militare presieduta dal generale Videla; era già stato prima del "golpe" del 1976, per imposizione dei militari al morente governo di Isabelita Per6n, il capo della Polizia Federale. Insomma uno dei cervelli e dei massimi responsabili della cosiddetta "repressione" che ha fatto scomparire nel nulla 30 mila persone. Il generale Antonio Bussi ritarda all'appuntamento, nella sede del suo Partito al quarto piano di un vecchio palazzo nel centro di Buenos Aires. Sulle pareti ci sono manifesti in cui sotto l'immancabile foto del suo volto serio, l'espressione che sprizza sicurezza e autorità, si promette lavoro e progresso per il paese. Le segretarie sono gentili, ci intrattengono parlando del generale come di un uomo perfino candido per la sua fiducia eccessiva nei vecchi buoni valori dell'onestà, dei meriti conquistati con Io sforzo individuale, dovendo - spiegano- sbrigarsi nelle trame della politica. Bussi è stato, durante la dittatura militare, il comandante che ha liquidato la guerriglia dell 'Erp (Esercito s

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